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    I processi formativi per la qualificazione degli obiettori di coscienza



    Augusto Palmonari - Università di Bologna

    (NPG 1994-03-58)


    È giunto il momento di porre al centro dell'attenzione di tutti quelli che apprezzano la scelta di chi si fa obiettore al servizio militare il problema della formazione degli stessi obiettori. Per dare un contenuto forte al servizio civile ed evitare che possa essere scambiato come una scelta di comodo, è necessario che gli obiettori accettino di impegnarsi in uno sforzo coerente e tenace per «formare se stessi» al servizio da rendere alla società. Un servizio non violento, da costruttori di pace, non può non essere complesso ed esigente.
    Mi è stato chiesto di esprimere il mio punto di vista sull'argomento. Non ho saputo fare di meglio che riprendere, modificandole in certi passaggi, le tesi che presentai al Convegno Nazionale del Volontariato tenutosi a Lucca nel maggio 1985. Le tesi che riprendo vogliono semplicemente aprire una discussione, non definire linee precise di intervento. D'altra parte, quali caratteri essenziali ed unitari può avere una proposta di formazione rivolta ai giovani di diversa cultura e dai curricula scolastici tanto diversi, che condividono una scelta ponendo però alla base di essa motivazioni spesso diverse per ispirazione e valori?

    Tesi 1
    Scelta autonoma del tipo di formazione e dei contenuti formativi

    Gli obiettori devono investire molte energie per costruire una immagine sociale di sé che rifugga da apparenze autocelebrative e si riferisca ad una sostanza fatta di serietà, di rispetto per il prossimo, di consapevolezza dei bisogni a cui è necessario dare una risposta. Per questo motivo gli stessi obiettori devono trovare in modo autonomo le linee per la propria formazione. La composizione sociologica dei tanti gruppi di obiettori così come i valori cui si ispirano non ammettono una pianificazione educativa predeterminata ed estrinseca. Al di là di ciò la scelta della formazione rappresenta un livello di maturità che rischierebbe di essere impedito dalla imposizione, o anche dall'accettazione, di percorsi definiti prima e al di fuori del contesto in cui la crescita del gruppo (o dei gruppi) di obiettori si realizza.
    Una tesi di questo genere accresce evidentemente le responsabilità dei gruppi di obiettori, ponendo tra i compiti da affrontare non solo l'attenzione al problema formativo, ma anche la progettazione-realizzazione di percorsi formativi adeguati ai problemi da affrontare. Esige inoltre che la scelta di formazione superi la superficialità spontaneistica del «ogni esperienza che facciamo ci forma, la nostra formazione è fatta tutta dall'esperienza, non sui libri», nonché la semplificazione ottusa dei problemi da affrontare («quello che facciamo noi va bene», oppure «quello che facciamo è comunque meglio di niente», ecc.).
    Ma la stessa tesi esprime anche l'esigenza di non cedere né alle mode passeggere dell'ormai vasto mercato della formazione né alla tranquillizzante banalità dell'accademismo astratto e generico.
    Per uscire dal vago: gli obiettori di oggi, maturi e calati nella realtà sociale, per essere quello che vogliono essere non possono accontentarsi di proposte formative legate a schemi consunti o a furbe iniziative di mercato, ma devono definire progetti propri da verificare e mettere a punto in un dialogo alla pari con istituzioni e gruppi impegnati a fondo nel processo culturale.

    Tesi 2
    Una formazione che superi ogni mentalità assistenzialistica

    Negli anni della contestazione era divenuta parola d'ordine l'esigenza di superare ogni forma di assistenzialismo nei servizi sociali e sanitari.
    Oggi sembra che anche a proposito di tale imperativo morale si sia giunti a concludere che si trattava di una illusione.
    E tante amministrazioni regionali e locali sembrano ormai aver dimenticato il significato della nozione di sicurezza sociale, avendo ripreso a parlare di assistenza e di organizzazione dell'assistenza senza problematizzare la cosa e senza precisare, comunque, il rifiuto dell'assistenzialismo.
    Eppure nella prima metà degli anni '70 tanti amministratori ed operatori avevano visto giusto nel voler superare ogni forma di assistenzialismo, anche se poi nessun movimento consistente ha saputo elaborare sino in fondo una teoria su come instillare nei servizi sociali e negli interventi svolti in favore di chi si trova in condizione di bisogni una prospettiva tesa non a creare dipendenza ma a stimolare l'autonomia e lo sviluppo.
    Questa enfasi sul problema non è dettata da nessun furore nominalistico: è infatti vero che sostituire la parola assistenza con la parola servizi per il cittadino non ha alcun senso se quanto è criticato dall'assistenza resta come contenuto essenziale di quanto è chiamato servizio per il cittadino. Così come resta vero che le situazioni di povertà, vecchia e nuova, tanto diffuse nel nostro Paese (vedi i vari Rapporti sulla povertà pubblicati dall'80 ad oggi) esigono comunque che vi siano interventi di aiuto, e chiamarli assistenza non è certo di per sé sconveniente.
    Al di là di ogni inutile nominalismo, la tesi che stiamo illustrando investe un problema di fondo: l'assistenza, tradizionalmente intesa come il dare qualcosa a chi ne è mancante da parte di chi (individuo o istituzione) può dare, genera dipendenza in chi riceve e potere in chi dà. Questo avviene anche se non è immediatamente evidente e anche se chi dà si sente del tutto disinteressato. Anche se chi riceve non ammette di essere dipendente ed assume i comportamenti sfrontati e provocatori di chi vorrebbe, a sua volta, avere potere (ricordate il film Viridiana di Bunuel? è su questa reciprocità che si fonda la feroce critica dell'Autore a ricchi e poveri, rappresentati come tutti uguali nell'egoismo e nell'esibizionismo).
    Ma un tale significato di assistenza si fonda su una concezione del bisogno assai riduttiva rispetto alla conoscenza raggiunta dalle scienze sociali, sin dai primi lavori di Kurt Lewin (1935). È vero infatti che la nozione di bisogno denota uno stato di carenza di qualcosa da parte dell'individuo, ma è anche vero che la situazione di bisogno genera un rapporto di tensione fra l'individuo e l'ambiente in cui è inserito; da tale tensione può essere generata, a sua volta, una spinta a cercare una via di superamento della stessa carenza.
    Il problema di ogni servizio sociale è quello di non definirsi soltanto come assistenziale (e cioè, dare a chi ne è carente quanto gli serve), ma come portatore delle condizioni per cui l'individuo (o il gruppo sociale) possa elaborare progetti ed organizzare azioni per uscire dalla situazione momentanea di carenza in cui si trova.
    Sia chiaro che in questo discorso non vi è nessuna collusione con le posizioni liberistiche che sono tornate di moda. Per queste, infatti, chi è in situazione di carenza deve essere abbandonato a se stesso (dipende dalla filosofia più o meno estrema posta a fondamento di ognuna delle varie posizioni liberiste se si riconosce al malcapitato l'opportunità di essere assistito dalla beneficenza pubblica o privata). Secondo il discorso di superamento dell'assistenza che stiamo presentando, invece, è diritto di chi ne ha bisogno che vi sia una as-sunzione di responsabilità da parte della comunità nei suoi confronti; l'intervento della comunità però non deve pretendere di fargli avere quello che gli manca, ma creare le condizioni perché possa procurarselo lui stesso, trovando le vie per superare la situazione di carenza. Questa riflessione riguarda sia oggetti individuali sia oggetti collettivi.
    È evidente che in una tale logica ogni intervento di aiuto è pubblico anche se realizzato da gruppi privati costituiti da volontari o da professionisti. Per essere tradotta in interventi amministrativi coerenti, tuttavia, deve entrare nel senso comune e nella cultura quotidiana. Dovrà comunque fare i conti, oltre che con le resistenze di chi ribadisce la validità della logica assistenzialistica, anche con la miriade di «casi sociali cronici» ormai diventati clienti fissi, e sempre confermati nel loro atteggiamento dipendente, dell'assistenza pubblica o privata.
    È però soltanto con questa radicale evoluzione culturale che potrà essere rispettato l'assunto normativo che «il bisogno fondamentale della persona (o gruppo) è quello di gestire direttamente i propri bisogni».

    Tesi 3
    Una formazione che interpreta i bisogni e progetta la risposta ad essa in una prospettiva storica

    Tutti i problemi della società di oggi hanno radici storiche molto profonde. Tenere conto di esse è indispensabile non solo per capire il senso dei singoli problemi, ma anche per predisporre progetti adeguati e non semplicistici.
    Uno sguardo al modo in cui nel settore dei servizi socio-sanitari o dell'iniziativa educativo-culturale si fanno interventi che si pretendono innovativi mostra invece quanto sia carente una vera cultura storica in materia, dal momento che patrimoni di esperienza accumulati, sia pure in condizioni operative insoddisfacenti, sono trascurati, ed operatori che hanno accumulato profonde competenze, utili per far fronte a difficoltà attuali, non sono nemme-no ascoltati da chi ha la responsabilità politiche o gestionali.
    Ciascuno di noi, credo, non ha alcun dubbio sulla validità della legge 180/78; il superamento dei manicomi per portare i servizi di igiene mentale nei vari distretti territoriali a più diretto contatto con la sofferenza psichica e con le condizioni che la generano rappresenta una scelta di alta civiltà che il nostro Paese ha saputo decidere con chiarezza. E sarebbe una caduta di cultura ogni passo indietro. È vero però che ci sono stati troppi ritardi nella applicazione della legge dal momento che ben poco è stato fatto nella maggioranza delle Regioni per predisporre luoghi adatti per brevi ricoveri di urgenza o per dar un'abitazione ai cronici ex ricoverati in O.P. che, proprio a causa del lungo ricovero, avevano perduto ogni legame familiare.
    Una colossale mancanza di prospettiva storica si evidenzia comunque in chi, di fronte alle pur grandi lacune nella predisposizione dei servizi alternativi al ricovero manicomiale, sostiene che la legge 180/78 deve essere rivista per riattivare i manicomi, sia pur migliorati.
    Chi sostiene un tal punto di vista non ha mai visto l'abiezione rappresentata da quasi tutti i reparti manicomiali e, soprattutto, non ha colto quale sia la logica intrinseca delle istituzioni totali. Rifare reparti di ricovero a lungo termine significa, inevitabilmente, riprodurre quelle pratiche di spogliazione del sé, di stigmatizzazione della persona, di spinta alla regressione del ricoverato, nonché di de-personalizzazione dell'assistenza che rende freddo, distaccato, disimpegnato il modo di lavorare sui ricoverati dello staff medico-infermieristico.
    La vera riforma della 180 sta nell'applicarla fino in fondo, abbandonando furbizie e paure. E prendendo decisioni culturalmente attrezzate.
    Una mancanza di prospettiva storica, sia pure meno grave di quella di chi vuol tornare indietro, è stata mostrata a volte anche da chi, seriamente, pretende di stare andando avanti. È molto importante evidenziare e criticare questi errori, perché sono quelli che più facilmente tutti gli operatori e gli amministratori di «mente aperta» possono commettere.
    Porterò in merito l'esempio di una scelta sbagliata, fatta con le «migliori intenzioni» ma senza ascoltare i diretti interessati, che ha compromesso l'applicazione della legge istitutiva del Servizio sanitario nazionale in rapporto ai servizi psichiatrici.
    Una ricerca realizzata anni fa a Bologna (Zani e altri, 1984) ha mostrato infatti che, per la maggior parte degli infermieri psichiatrici, applicare quanto previsto dalla 180/78 voleva dire, in un primo momento, lavorare in équipes territoriali dopo aver acquisito, attraverso un indispensabile aggiornamento, maggiori competenze sul piano sociale e relazionale. Essi cominciavano a vedersi come operatori nuovi, una sorta di «addetti per la promozione dell'igiene mentale» (se si vuole trovare un nome indicativo), collaboratori diretti dello psi-chiatra; in altre parole le attese erano orientate verso una figura diversa sia dall'infermiere professionale (figura percepita troppo centrata su tecniche mediche) sia dall'assistente sanitario, sia dall'assistente sociale.
    La decisione di ri-convertire, in base alla Legge 243/80 tutti gli infermieri psichiatrici in infermieri professionali è stata vissuta dagli infermieri psichiatrici studiati come una perdita di senso delle proprie capacità e delle proprie esperienze: questo ha provocato molti pensionamenti anticipati e molti ritiri in quello che restava dell'ambiente istituzionale (la custodia dei cronici non dimissibili).
    Si può ancora pensare che queste siano risposte inadeguate alla frustrazione, ma resta l'evidenza di come una decisione ritenuta avanzata dagli amministratori che la prendevano abbia incentivato delle resistenze al cambiamento in operatori sino a quel momento disponibili all'innovazione, dal momento che essa è sembrata definire prive di senso esperienze umane assai profonde, che avrebbero potuto motivare ad impegni significativi del nuovo. L'errore di prospettiva storica, dunque, è stato grande.
    Gli esempi potrebbero essere molti altri. Molti degli sforzi che vengono messi in atto per realizzare comunità di convivenza di tipo familiare per minori in difficoltà, denotano quasi sempre gravi lacune di prospettiva storica. Magari le premesse generali cui si ispirano sono corrette (superare le istituzioni totali, fornire a tutti le condizioni riparatorie nei confronti delle sofferenze e carenze patite). Ma le esperienze che vengono attuate hanno quasi la pretesa di essere le prime della storia civile, e trascurano l'impegno di conoscere tanti episodi pre-cedenti di lotta all'emarginazione, tradottisi a volte in iniziative esemplari che avrebbero ancora un valore profondo, non solo simbolico ma anche metodologico. Per riprendere in modo culturalmente attrezzato il filo interrotto del discorso sul superamento dell'istituzionalizzazione minorile (una forma sempre rilevante di emarginazione) è indispen-sabile essere consapevoli delle conoscenze accumulate. Resta peraltro il problema della difficoltà di documentarsi su questi temi, data la scarsa attenzione ad essi dedicati dalla cultura di massa e dai grandi organi di informazione. Riprendere i fili sparsi di un discorso che esiste, anche se sinora non è stato valorizzato perché non riguarda aspetti del terziario «forte», può costituire per le organizzazioni degli obiettori di coscienza un compito entusiasmante ed esigente. Esigente perché tutti nel nostro Paese, anche la cultura ufficiale, abbiamo bisogno del recupero e della reimpostazione di un discorso storicamente documentato a proposito della evoluzione dei servizi, di quelli minorili in particolare.

    Tesi 4
    Una formazione fondata sulle scienze sociali per distinguere i livelli di realtà e cogliere le connessioni fra di essi

    Le scienze sociali hanno molto da offrire ai programmi delle varie organizzazioni che raccolgono gli obiettori di coscienza. Superata definitivamente ogni forma di sospetto nei confronti di tali scienze, e superate soprattutto punte anti-intellettuali che privilegiano co-munque l'operare e l'intervenire rispetto alla ricerca e alla riflessione, è opportuno che gli stessi obiettori si confrontino sistematicamente con i dati più aggiornati delle scienze sociali.
    Una prima assunzione matura dei modelli razionali offerti da tali scienze è quella che riconosce la possibilità di mutare, di precisarsi, di raffinarsi di ogni definizione scientifica. Per cui è necessario uno sforzo costante di aggiornamento per evitare di restare ancorati a modelli i cui limiti sono già stati evidenziati. Le scienze sociali affermano, ad esempio, che al livello attuale delle conoscenze nessun modello esplicativo è in grado, da solo, di spiegare il comportamento tipicamente umano, quello cioè orientato ad uno scopo. Si stanno elaborando infatti molte teorie dell'azione che cercano di fare una sintesi degli elementi esplicativi parziali, ma ritenuti, in un passato recente, esaurienti. Basti pensare alla psicanalisi, alle teorie relazionali, all'interazionismo simbolico, alle teorie sulla dinamica di gruppo.
    Quello che ormai è riconosciuto da studiosi che provengono da tradizioni scientifiche diverse è che occorre, per capire l'unicità dell'uomo, riconoscere i suoi limiti di tipo storico e biologico, quelli dovuti a specifiche appartenenze etniche, di famiglia, di genere, ed infine quelli legati all'appartenenza di classe e di gruppo entro le classi. Per cui non si può dire: «si comporta in questo modo perché è buono o cattivo», come se l'individuo fosse estraneo alla trama dei rapporti e delle forze sociali che lo sostengono e lo guidano; non si può nemmeno dire, d'altra parte: «non è responsabile di quello che fa perché è influenzato dall'ambiente». Infatti, pur con tutti i suoi limiti e le sue dipendenze dall'ambiente, l'uomo è sempre in grado nel suo operare di esprimere anche in situazioni estreme di condizionamento una scintilla di libertà e di responsabilità.
    Uno dei contributi metodologici più validi che le scienze sociali possono dare a chi si impegna con e per gli altri è la capacità di riconoscere i diversi livelli di realtà in cui si articola l'esperienza umana, anche degli operatori: i sogni, le speranze, non devono essere confusi con i fatti; quello che si spera o si desidera per poter realizzare se stessi deve prima di tutto diventare un progetto in cui ci si impegna. Quello che si vuole raggiungere per realizzare un proprio ideale è, nel momento in cui lo si sogna, ad un livello di irrealtà molto elevato, ma poi, man mano che un progetto per raggiungerlo si definisce partendo dalla situazione esistente e precisando le strategie per superarla in una prospettiva coerente, il livello di realtà aumenta e permette di avvicinare la meta. Ma la definizione del progetto e la sua realizzazione possono richiedere sforzi immensi per superare le resistenze, per creare le alleanze necessarie a vincerle, per definire chiaramente quello che si vuole ottenere.
    Distinguere i diversi livelli di realtà non significa però tenerli separati rigidamente. La vita di ognuno di noi è vera vita solo se la consapevolezza dei fatti è collegata tramite un progetto ad una meta da raggiungere per modificare l'esistente. Parliamo qui di obiettivi propri di gruppi ed associazioni che operano nel sociale. Il discorso propriamente politico è ancora più complesso, anche se non qualitativamente diverso.
    In questa prospettiva è evidente come sia l'entusiasmo spontaneista che scambia i desideri con i fatti o non sa vedere gli ostacoli, sia la sfiducia di chi ritiene che nulla possa modificare la realtà esistente, e che perciò non vale la pena progettare (magari rifugiandosi in un mondo privato di sogni impotenti), sono posizioni al limite antiscientifiche, comprensibili come espressioni idiosincratiche ma non sostenibili sul piano razionale.
    Utopia è il luogo ideale, forse tanto alto da non poter mai essere raggiunto in pieno, ma non corrisponde mai ad una astrazione priva di senso.
    Questi ed altri contributi delle scienze sociali possono aiutare gli obiettori di coscienza ad impiegare le energie ideali che sono loro proprie per capire meglio l'esistente e per costruire progetti razionali che permettono di superarlo.

    Tesi 5
    Una formazione costruita in gruppo e costantemente in esso verificata

    Per costruire progetti arditi e realistici bisogna essere un gruppo di persone che comunicano fra di loro, che sanno comunicare all'esterno del gruppo e sanno ascoltare e vedere quello che accade.
    È perciò indispensabile che la formazione riguardi in modo preminente il lavoro di gruppo, senza esasperazioni tecnicistiche (che sono più un intralcio al fluire della comunicazione), ma anche senza illusioni spontaneistiche del tipo «per comunicare basta avere la volontà di comunicare».
    Particolare attenzione meritano i fenomeni di polarizzazione (Moscovici e Doise, 1992) delle opinioni individuali proprie della dinamica di gruppo. È dimostrato, infatti, che quando in un gruppo si deve prendere una decisione, in una direzione o in un'altra, si innesca un processo per cui quello che viene scelto come soluzione non corrisponde ad un compromesso «a metà strada» fra le due posizioni contrapposte, ma ad un punto assai prossimo al polo estremo della posizione più forte culturalmente nel gruppo. Si determina cioè un fenomeno di polarizzazione che consiste nella accentuazione dell'idea sin dall'inizio dominante nella cultura del gruppo.
    Il che vuol dire che quanto accade nel gruppo non è estraneo alle posizioni culturali dell'ambiente in cui lo stesso gruppo vive. Un gruppo che si pone degli obiettivi ambiziosi e poi non riesce mai a decidere niente, esprime con chiarezza la presenza di una cultura conservatrice e difensiva, anche se al suo interno si fanno discorsi rivoluzionari ed estremisti.
    La consapevolezza dei rischi di polarizzazione non significa che, deterministicamente, essa sia inevitabile; è vero invece che proprio conoscendone la dinamica è possibile evitarne la realizzazione.
    Per questo è possibile, nel lavoro di gruppo, giungere a decisioni più ricche e creative se si rispettano alcune regole di fondo:
    - le differenze di opinioni sono naturali e comprensibili. Bisogna prenderle sul serio, in certi casi provocarle spingendo tutti a partecipare al lavoro di discussione e di decisione. Le diversità di opinioni, mettendo in gioco una gamma molto vasta di argomenti, fanno scoprire con più probabilità delle soluzioni nuove a cui non si pensava nemmeno; le tecniche di riduzione del conflitto, come le procedure precostituite, le votazioni frequenti, le limitazioni del tempo, sono da escludere nelle occasioni in cui il gruppo vuole trovare delle idee nuove e prendere decisioni di fondo. (Questo non vale nelle decisioni di routine, sia chiaro!);
    - bisogna assicurare le condizioni che permettono a ciascuno di difendere il proprio punto di vista e non bisogna mai fare delle concessioni al solo scopo di evitare il conflitto e mantenere una buona armonia. Solo dopo un attento esame e una discussione critica ha senso abbracciare una posizione diversa da quella di cui si era convinti;
    - si eviti, per decidere, il ricorso agli stereotipi, alle soluzioni prefabbricate e ad argomenti espressi da autorità riconosciute. La decisione deve essere convincente, e a fondo, prima di tutto per i membri del gruppo. Soltanto così potrà essere credibile e convincente anche fuori dal gruppo. È evidente che queste direttive sono più facili da dire che da mettere in pratica. In ogni caso danno l'idea del rigore con cui ciascuno deve seguire le vicende del gruppo di cui fa parte, se vuole che sia creativo ed innovatore.
    Un tale rigore non potrà non essere reso efficace da una contemporanea buona dose di umorismo, almeno individuale, meglio se condiviso dal gruppo.

    Tesi 6
    Una formazione che trovi forme efficaci di collaborazione fra professionisti ed obiettori

    Questa è una tesi che può apparire banale ma che in realtà è cruciale.
    Perché la collaborazione si attivi è necessaria la condivisione del giudizio su certi problemi da affrontare e sui metodi da utilizzare a tal fine.
    Il superamento di tutte le istituzioni totali (e la creazione dei necessari servizi alternativi) può essere un esempio così come l'animazione di gruppi di adolescenti (naturali o istituzionali) presenti in ogni ambito territoriale.
    L'accordo di fondo deve però essere completato:
    - dalla rinuncia, da parte dei professionisti che operano nei servizi pubblici istituzionali, a sentirsi superiori agli obiettori o ai volontari in ragione della responsabilità diretta di cui sono investiti;
    - dall'abbandono, da parte di obiettori, di ogni più o meno consapevole spinta competitiva a dimostrare che il proprio impegno è genuino.
    La formazione, dunque, riguarda anche il problema della formazione unitaria dei gruppi di lavoro, un argomento su cui, anche per gli operatori professionali dei servizi, si è lavorato assai poco, privilegiando generalmente un aggiornamento rivolto ad ogni singola professionalità indipendentemente dalle altre.
    Questa preferenza non ha fatto trascurare soltanto la formazione in équipe ma, in alcuni casi, è giunta a creare ostacoli al vero lavoro di gruppo. La formazione per singole profes-sionalità, infatti, tende ad assumere come rifermento privilegiato una immagine della professione al di fuori delle esigenze di collaborazione proprie del lavoro in équipes. Uno dei punti centrali per il funzionamento dì ogni équipe, la comunicazione e la collaborazione con altre figure professionali, è trattato come fattore secondario, di scarso rilievo.
    Se non esiste una tradizione solida dì formazione al lavoro di équipe, ancor meno si è fatto per la formazione a collaborare fra volontari e professionisti.
    Ogni esperienza in merito deve perciò essere analizzata, documentata, eventualmente criticata. Perché rappresenta un elemento prezioso per definire programmi concreti e fondare esperienze più sistematiche.

    Tesi 7
    Una formazione che permetta di riconoscere lo specifico della cultura di ogni comunità

    Anche questa tesi può apparire banale. In fondo nella tesi sulla cultura storica si esprimeva già questa esigenza. Ma vale la pena ritornarvi su per sottolineare la difficoltà insita in ogni sforzo per capire gli altri. E ci si può riferire ad «altri» assai prossimi a noi in quanto condividono lo stesso universo simbolico o a gruppi distanti da noi, magari intere categorie di persone assai distanti sul piano culturale.
    Quello che si coglie, infatti, nei gruppi diversi dal nostro sono immediatamente dei comportamenti particolari (giudicati «strani»), degli atteggiamenti tremendamente complicati (che sembrano «assurdi»), comunque degli elementi di superficie partendo dai quali, per il ben noto processo della percezione sociale, giungiamo a definire giudizi spesso molto pesanti («hanno comportamenti strani, atteggiamenti assurdi, scarsa attendibilità»... ecc.). Di fatto, da stereotipi di questo tipo su ogni «diverso» nascono ben presto pregiudizi che met-tono in moto il meccanismo cognitivo- affettivo della ricerca degli elementi, nel comportamento e nel modo di essere di questi «altri», che confermano le nostre aspettative negative.
    È un esempio di ciò quello che accade con i cosiddetti extra-comunitari. Noi che ci credevamo esenti da ogni forma di discriminazione etnocentrica (chi ricorda più i pregiudizi verso i meridionali ora che sembrano integrati?) stiamo rendendoci conto che esistono, anche tra noi, le condizioni socio-psicologiche della discriminazione nei confronti degli arabi, degli africani, dei pakistani, ecc.
    Ma questa tesi vuole essere più generale, riferirsi a tutti gli «altri». Se il nostro sguardo è limpido e le nostre orecchie sono pure, possiamo andare al di là della apparenza immediata ed accorgerci che i comportamenti strani, gli atteggiamenti assurdi, ecc. sono in rapporto ad una sorta di filosofia quotidiana semplicemente «diversa» dalla nostra. Non ci sono, quindi, in quello che notiamo, comportamenti sbagliati o atteggiamenti assurdi, ma manifestazioni conseguenti anche se frammentarie di una rappresentazione diversa della realtà. È ovvio che il gruppo di adolescenti dell'angolo della strada, che è tanto «strano» per il gruppo di adolescenti della parrocchia, esprime in realtà una diversità assai ridotta rispetto al circolo delle domestiche eritree che una volta alla settimana si radunano in una «strana» sede per incontrare i loro uomini.
    Ma per i meccanismi che permettono di avere una percezione frammentata per esprimere giudizi più semplici sono sempre gli stessi. E costituiscono le radici di ogni discriminazione.
    L'attenzione ad ogni diversità culturale comincia nel momento in cui si pone attenzione a non stabilire relazioni e comunicazioni egocentriche (non egoistiche sia chiaro, ma centrate sul proprio gruppo!) con chicchessia, si attiva l'impegno a decodificare il «loro» linguaggio per cogliere il senso reale di quanto esprimono, e ad esprimere noi stessi utilizzando il «loro» codice.
    Questo stile di rapporto non è patrimonio esclusivo di nessuno: il faticoso approdo di un lungo processo di formazione che tutti, nel pluralismo che è segno del nostro tempo, siamo tenuti a percorrere.

    Tesi 8
    Una formazione a costruire il cambiamento

    Questa tesi assomma in sé tutte le difficoltà esplicitate nelle altre. In che modo, infatti, nell'ambiente sociale si può costruire il cambiamento? Parliamo qui sia del cambiamento di atteggiamenti personali e stereotipati verso atteggiamenti flessibili e non egocentrici, sia del cambiamento di valori di gruppo il quale dalla difesa di un proprio privilegio (materiale o culturale) passa all'impegno per la condivisione e l'accoglienza dell'altro, sia del cambiamento di una norma vessatoria so-
    Parliamo qui sia del cambiamento di atteggiamenti personali e stereotipati verso atteggiamenti flessibili e non egocentrici, sia del cambiamento di valori di gruppo il quale dalla difesa di un proprio privilegio (materiale o culturale) passa all'impegno per la condivisione e l'accoglienza dell'altro, sia del cambiamento di una norma vessatoria soQuesta tesi assomma in sé tutte le difficoltà esplicitate nelle altre. In che modo, infatti, nell'ambiente sociale si può costruire il cambiamento? Parliamo qui sia del cambiamento di atteggiamenti personali e stereotipati verso atteggiamenti flessibili e non egocentrici, sia del cambiamento di valori di gruppo il quale dalla difesa di un proprio privilegio (materiale o culturale) passa all'impegno per la condivisione e l'accoglienza dell'altro, sia del cambiamento di una norma vessatoria sostenuta da una prassi amministrativa consolidata.
    Superate ormai le illusioni rivoluzionarie che ammettevano possibile ogni miglioramento soltanto alla fine di un processo di sovvertimento di tutto l'esistente, si stanno definendo delle linee di ricerca sul cambiamento che hanno già individuato alcuni punti di riferimento essenziali (Moscovici, 1984).
    Il primo di questi punti è che il cambiamento non è reale se imposto dal potere con l'uso della forza (sia essa materiale o culturale): si otterranno certamente adeguamenti compiacenti al potere, ma non si produrrà un nuovo modo di percepire la realtà considerata. La gente, in altre parole, non potendo far altro, assume la nuova definizione di realtà, ma non la fa propria.
    Il vero cambiamento (cioè la scoperta di un nuovo modo di vedere la realtà) si ha solo quando una minoranza attiva (nel senso di un gruppo - più o meno numeroso, ma comunque percepibile - privo di potere, o dotato di potere assai limitato) definisce la realtà considerata in modo esplicitamente diverso da come la definisce il gruppo che è al potere, ed assume uno stile di comportamento caratterizzato da una coerenza unanime e tenacemente continua nel sostenere il proprio punto di vista. Tale coerenza deve accompagnarsi ad una grande flessibilità nel rapporto con la gente comune, quella che ha accettato fino a quel momento, senza discutere, il punto di vista maggioritario. Ogni arroganza intellettuale, anche se minoritaria, impedisce il processo di cambiamento.
    Questo processo evidenzia la centralità, per il cambiamento, della esplicita conflittualità tra i punti di vista diversi, tra le diverse definizioni di realtà. Se la chiarezza della contrapposizione manca, non si innesca alcun processo cognitivo di attenzione al nuovo punto di vista e di assunzione dello stesso.
    È quindi importante che sia ben individuato il punto che si vuole modificare.
    La formazione a costruire il cambiamento implica dunque il coraggio (la fatica) di individuare dei punti strategici del quadro sociale che appaiono non soddisfacenti, e di definire una loro radicale alternativa; esprimere tale alternativa in modo esplicito, sostenere il conflitto con la maggioranza senza tentennamenti e crearsi delle alleanze con altre forze che condividono la nuova definizione di realtà anche se per molto tempo hanno accettato il dato di fatto esistente.
    Ma come si concilia la creazione del conflitto con la non violenza che è il metodo proprio degli obiettori? Perché i benpensanti faranno subito questa obiezione: bello spirito di pace quello che predica la necessità del conflitto!
    Sia chiaro che il metodo non violento è nato proprio per affrontare conflitti radicali: la marcia per il sale di Gandhi non esprimeva la radicale rivolta verso la prepotenza imperialistica degli occupanti inglesi? E la battaglia di Luther King non esprimeva una definizione della società americana opposta a quella allora maggioritaria?
    La grandezza che ad ogni portatore di pace è richiesta è proprio quella di gestire sino in fondo il conflitto, senza cedere alla illusione della violenza. Prima di esigerla dagli altri noi, che ci riteniamo illuminati e responsabili, ma che apparteniamo alla parte più ricca del mondo, dobbiamo assumere questo stile, pacifico e consapevole, di fronte a tutti i soprusi che si commettono in casa nostra.

    Una riflessione ulteriore in forma di domanda

    Giunto a questo punto mi volto indietro un po' smarrito e mi domando- ma questi discorsi sulla formazione riguardano soltanto gli obiettori oppure, prendendoli a pretesto, ho preteso di rivolgermi a tutti coloro, professionisti o no, che lavorano con e per la persona, con e per i gruppi umani?
    Perché assai poco sinora è stato elaborato a proposito della specificità del lavoro che ha per oggetto le persone e per strumento essenziale il coinvolgimento emotivo e razionale dello stesso operatore.
    Non so rispondere, soprattutto ho l'impressione che si apra, a questo punto, un campo immenso di lavoro culturale.
    Ma non posso sottrarmi ad un ultimo interrogativo: diamo per scontato che queste tesi riguardino prevalentemente gli obiettori, ma quale potrà essere la sede di una tale formazione? Ogni organizzazione impegnata nel settore deve trovare una risposta meditata in proposito.
    Ma per promuovere un tale tipo di formazione, come già abbiamo discusso nella tesi 1, quel che è essenziale è un gruppo promotore autonomo, creativo e aperto a tutti i contributi.
    Che sia giunto il momento di provocare le sedi universitarie per spingerle a prendersi responsabilità inedite e originali?


    RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

    * Bettelheim B., Il prezzo della vita, Milano, Angeli 1965.
    * C.N.C.A. (Coordinamento Nazionale delle Comunità di Accoglienza, Lettera sull'emarginazione, Bologna, Il Regno 1983.
    * Doise W. e Moscovici S., Les decisione en groupe, in S. Moscovici (a cura di) Psychologie Social, Paris, Presses Universitaires de France 1984.
    * Goffman E., Asylums. Essays on the Social Situations of Mental Patients and Other in Maters, New York, Anchor Book; trad it. Asylums, Torino, Einaudi 1968.
    * Gorrieri E., Commissione di indagine sulla povertà: sintesi del primo rapporto, Documento n° 24 Servizio Studi del Senato della Repubblica - Roma 1985.
    * Heller A., La teoria dei bisogni in Marx, Milano, Feltrinelli 1975.
    * Lewin K., A Dynamic Theory of Personality: Selected Papers, New York Hill; trad. it. Teoria dinamica della personalità, Firenze, Giunti e Barbera 1966.
    * Moscovici S., La psychologie des minorités actives, Paris, P.V.F.; trad. it. Psicologia delle minoranze attive, Torino, Boringhieri 1984.
    * Palmonari A., Influenza Sociale, Torino, Boringhieri 1982.
    * Zani B., Ravenna M. e Nicoli M.A., Da custodi di pazzi ad operatori della salute mentale, Milano, Angeli 1984.


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