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    Sballo ed ecstasy



    Adolescenti che sanno star bene /7

    Domenico Cravero

    (NPG 07-03-60)

    Meno la società si preoccupa di accogliere le nuove generazioni nel loro passaggio verso l’età adulta, aspettandole e preparando loro un posto, più gli adolescenti sono costretti a «cavarsela da sé», ad inventare propri «riti d’iniziazione», che al pari di quegli antichi ma in tutt’altro contesto, assumono rilevanza e sistematicità fino a caratterizzare la «cultura giovanile». L’alterazione dello stato di coscienza attraverso il consumo di sostanze è uno di questi. Le droghe svolgono funzioni diverse nel gruppo dei pari: con il loro uso ci si impadronisce di un simbolo della libertà adulta (bere, fumare, ubriacarsi, esagerare con il cibo sono cose da «grandi»); con il loro consumo ci si libera dal controllo genitoriale; con il loro effetto ci si diverte indipendenti e liberi da ogni di controllo. Normalmente non si adducono motivi ideologici al loro consumo, né è necessario avere evidenti problemi di adattamento per ricorrervi; più probabile, invece, che all’origine ci sia un rapporto carente con gli adulti di riferimento e uno scarso senso di responsabilità nei confronti dei propri compiti di sviluppo.
    Ci si avvicina alle sostanze con la mediazione di «iniziatori» che, in genere, sono coetanei considerati leader, la cui abilità consiste nel fare per primi ciò che gli altri osano solo immaginare. Il fascino della trasgressione attrae adolescenti spesso in forte conflitto con la famiglia, tristi e disincantati per i fallimenti provati o temuti, che cercano di compensare l’insoddisfazione con un forte investimento nel gruppo. Le loro compagnie hanno ormai visto svanire la consuetudine di frequentarsi in modo spensierato e tranquillo, divertendosi a «fare niente»; è diventato assillante il pensiero di avere qualcosa da fare per riempire la noia. Il gruppo ha smesso di essere una compagnia paritaria e democratica e incomincia ad aggregarsi attorno ad un leader che, paradossalmente, nel gruppo è il più debole, il meno capace a scuola, il meno fortunato negli affetti familiari, il meno abile a dirigere un progetto di vita.
    Spesso fuori casa, in giro tra centri commerciali e giardinetti, senza rapporti importanti con gli adulti, ai quali chiedono soprattutto un supporto economico, le ragazze e i ragazzi delusi hanno scarso interesse per la scuola e sono i più esposti alla attrazione dello sballo, non importa come esso sia procurato. Il rischio è che, quando crolla la fiducia, sia la banda a gestire il passaggio che prende congedo dall’infanzia, oppure che sia consumato in solitudine, nell’impossibile confronto con i compiti di sviluppo, accrescendo ancor più rancore e risentimento.

    I tratti dello sballo

    Il gergo giovanile chiama sballo tutto quello che è dato in eccesso o che è semplicemente piacevole ed eccitante (una festa «da sballo», una moto «da sballo»). «Sei uno sballo!» può esprimere anche un simpatico apprezzamento. Originariamente il termine indicava il (breve) periodo dell’effetto degli stupefacenti. Che il gergo se ne sia impossessato, dice bene la diffusione delle droghe; che possa costituire perfino un elogio, è indice dell’incapacità dell’attuale cultura di considerare l’abuso dal punto di vista etico e d’intenderlo come danno.
    Conviene prendere sul serio la cultura dell’eccesso, sia a motivo della sua diffusione che testimonia la crisi della pratica educativa, sia perché costituisce il terreno fertile della «cultura degli analgesici» (L. Kolakowski) che prospera inarrestabile.
    Una società cresciuta all’insegna del mito dell’opulenza non ha sviluppato strumenti culturali efficaci per affrontare i rischi che essa stessa genera. È una società «povera» perché caratterizzata dalla mancanza più che dallo sviluppo, che eccita il desiderio ma poi non sa godere. La particolare concezione del piacere che diffonde consiste più nel desiderare che nell’avere, più nel guardare che nel fare esperienza. È un «mangiare con gli occhi» più che un provare in prima persona: come se la vita stessa si trasformasse in un videogioco senza fine, dove il tempo trascorre nel «tirare a tentare» la mossa alla fine vincente, certi che si possa sempre «resettare» tutto e ripartire da capo, come se il tempo non esistesse. Fascino del desiderio e paura della realtà, vita come prova invece che come progetto, emozione dell’attimo e rapida evanescenza di ogni emozione. In questa ambivalenza si radica la dipendenza dagli eccitanti (il bisogno di continue novità per potersi «divertire», l’abuso dell’alcol, la ricerca esasperata del sesso (precoce), la dipendenza dalla cocaina). La droga simbolo del «mangiare con gli occhi» è l’ecstasy con la sua promessa di sensazioni sempre nuove, il suo invito alla sperimentazione, a fare e disfare continue prove di sé, che per poche ore permettano di vivere, senza sforzo e senza conflitti, un’avventura che non corrisponde al vero, a buttarsi nel rischio per fare una simulazione della propria potenza.
    Nelle nuove forme del divertimento di massa (il girovagare di locale in locale, la discoteca, il rave), l’eccesso, se da una parte smantella il controllo dell’individuo razionale, dall’altra punta alla finzione, secondo la regola dello «stare a guardare» (anche il verbo con cui il gergo adolescenziale indica l’assunzione di una sostanza è passivo: «farsi», «essere fatti»). Il bisogno di stordirsi pare suggerito, paradossalmente, non tanto dal desiderio di provare piacere, quanto dall’urgenza di sentirsi vivi, di sfidare i limiti per riconoscersi. Del corpo pare interessi solo l’esterno: alla sua esibizione si riserva l’attenzione dell’idolo e del feticcio, alle sue esigenze più sostanziali (prevenzione del rischio, qualità dell’alimentazione, stili sani di vita) si negano, spesso, le attenzioni elementari. Assoluto del desiderio e, al tempo stesso, assenza del desiderio, perché il corpo, nel «farsi» si concentra solo su di sé. In questa ambivalenza si radica la dipendenza affettiva, le forme funzionali di vita di coppia, la dipendenza dalle esperienze virtuali (televisione, videogioco, computer).
    Per i collezionisti di esperienze (virtuali), sempre avidi di nuove emozioni e sempre disposti a sostituire le delusioni con nuove sensazioni, non avere legami troppo impegnativi è sicuramente un guadagno. La vita s’alleggerisce del suo impegno ma si carica di una noia insopportabile; i conflitti e le divergenze si smorzano ma i rapporti si dissolvono nell’evanescenza. Lo sballo consiste nel sottrarsi alla vita quotidiana e alla sua fatica (e, quindi, alla sua felicità) quando ormai la successione dei giorni diffonde solo una demotivazione senza speranza, cercando, in fondo, nel proprio dissolvimento una specie di godimento perverso e nell’insoddisfazione perenne la flebile ebbrezza del lasciarsi cadere in basso.
    In questa ambivalenza si radica, fin dalla preadolescenza, la dipendenza dal gruppo degli amici, il condizionamento che coetanei e amici impongono nella vita dei ragazzi. Conseguente all’esposizione al condizionamento dei pari è la propensione agli acquisti e l’ossessione del marchio, che possono spingersi fino alla dipendenza, vera e propria.
    Tutti riconoscono che la qualità della vita dipende dalla qualità dei legami; tutti desiderano e in realtà cercano relazioni durature: il valore dell’amicizia, l’assoluto dell’amore sono riferimenti indiscutibili. Lo sballo e più ancora le droghe sono solo espedienti grossolani per non sentirne la mancanza quando la vita concreta ne è diventata spoglia. L’inconsistenza dei legami, infatti, è insostenibile: senza appartenenze vitali ci si sente disintegrati, la vita sfugge al controllo, la persona si sente persa di fronte agli eventi e all’organizzazione quotidiana. La libertà totale (fare ciò che si vuole) si rovescia nel suo opposto la cupa sensazione dell’impotenza. Rimane un ultimo tentativo: volere l’ebbrezza, creare situazioni estreme, cercare un’eccedenza di piacere nel rischio immotivato, nell’eccessiva velocità, nell’ebbrezza attimo, nell’avventura eccentrica.
    Il paradosso è ben rappresentato dall’effetto degli analgesici che promettono piacere nell’anestesia, che appagano la sensazione eliminandola. La dipendenza distruttiva dall’eroina ne è il simbolo, ancora una volta paradossale. Chi si buca o sniffa eroina è visto dai suoi amici come «uno che ha problemi»; appartiene allo stesso popolo dei delusi (degli ingannati, sarebbe più giusto) ma deve essere messo ai margini: come si potrebbe combinare l’anestesia con il culto dell’emozione e della velocità?

    La cultura degli eccitanti

    «Quando dico che viviamo in una cultura degli analgesici, penso innanzitutto alle istituzioni civili, alle forme dell’etica e alle modalità della convivenza grazie a cui possiamo dissimularci le fonti del dolore, senza dover intraprendere il tentativo di eliminarle o di opporci a esse» (L. Kolakowski). È la paura del dolore che spinge allo sballo per non permettere che la realtà della fatica (che è il costo dell’amore) acceda alla coscienza o per attenuarne l’impatto: «La narcotizzazione della vita è nemica del vivere in comune, umanamente. Quanto più diventiamo incapaci di sopportare il proprio dolore, tanto più facile ci diventa tollerare la sofferenza altrui».
    L’apatia è la nuova forma dell’immaturità affettiva: non essendo disponibili a portare il normale disagio della vita insieme (a-patia: negazione del dolore) si diventa incapaci a costruire legami (a-patia: negazione dei sentimenti); volendo «tutto, subito, non importa come» (secondo l’impulso ingovernabile della carenza) non si riesce a sopportare l’ordinaria ambivalenza affettiva, il fatto ovvio che vivere con le persone non può essere sempre gratificante.
    Lo sballo usa il corpo come strumento per produrre una simulazione che renda la vita gradevole e divertente. Il limite della soluzione consiste nel fatto che si infrangono i limiti: il corpo sfruttato diventa fonte di nuovi tormenti. La strada dell’evasione sociale nei paradisi di felicità che le droghe promettono se non altro come interruzione dell’esperienza di mancanza d’amore, ricorda qualcosa delle antiche condotte ordaliche: la volontà di mettere a repentaglio la vita con lo scopo di ritornare vincitore della sfida (come un gioco, una simulazione della morte). In caso di vittoria non si acquista nulla (di reale), in caso di sconfitta si perde tutto. La ricompensa è nel brivido del rischio (nella patologia del gioco di azzardo l’attimo di estrema tensione che precede il momento della vittoria o perdita è il più eccitante).
    Nei comportamenti d’abuso diventa esplicita la povertà della cultura attuale (in paragone con le antiche) che pensa possano essere date alla sofferenza risposte esclusivamente mediche. È una società che con la sofferenza non intende fare i conti perché non può attribuirvi alcuno sbocco, che non sia la negazione. Le conseguenze sono il degrado del senso di responsabilità rispetto a se stessi e all’ambiente e l’impoverimento spirituale delle persone. Le attese e le aspirazioni più profonde delle persone sono interpretate esclusivamente come bisogni, reali o indotti, che devono essere soddisfatti. Si sa che i narcotici servono appunto a questo: invece di intraprendere uno sforzo per affrontare autonomamente le cause dell’insoddisfazione, ci si introduce in un ambiente psichico artificiale che dissolve la delusione in un’eccitazione di breve durata.
    In realtà è tutta la società che tende con le sue continue e incessanti offerte a moltiplicare i bisogni, a soddisfarli per subito indurne altri. Per questo la tentazione dell’«ebbrezza» (non il godimento reale ma la tonalità emotiva delle esperienze) è così avvertibile e costituisce come lo sfondo della percezione di sé e della conduzione degli stili di vita. Ebbrezza e dismisura sono il modo stesso di intendere, oggi, il divertimento. Il tempo è l’immaginario della libertà, non solo per coprire il vuoto e non avvertirlo più ma, forse più, per dilatare la soddisfazione del bisogno, in un orizzonte temporale senza futuro, nel quale non ci sono più né vere speranze né veri timori. Gli eroi moderni hanno tutti il culto dell’estremo, la determinazione di farcela, di essere gli unici alla meta. Fanno azioni spropositate, realizzano imprese personali memorabili (per questo si diffonde il doping e cresce l’abuso delle droghe della velocità e dell’efficienza). Alla fine l’oggetto di piacere si trasforma in oggetto di bisogno, il paradiso artificiale si capovolge in inferno reale.

    Gli stili di vita adulta

    Non si comprende lo sballo degli adolescenti senza considerarlo in relazione agli stili di vita diffusi degli adulti.
    Il bisogno esagerato di provvedere alle esigenze materiali, di garantire un presente senza troppe privazioni, porta i genitori a viziare i figli, a concedere secondo la richiesta dei loro capricci, contribuendo non poco a diminuire la loro autostima e ad abbassare la soglia di sopportazione del disagio. Fin dalla prima infanzia, ai figli tutto sembra dato sotto il segno dell’eccesso: esagerata l’organizzazione dei tempi imposta ai bambini, eccessive le attese nei confronti dei figli, esorbitanti le prestazioni richieste e sconsiderate le proiezioni degli adulti sui loro figli (è sufficiente osservare i comportamenti dei genitori che assistono una gara competitiva). Appena sarà loro possibile (nella prima adolescenza) si difenderanno, a loro modo, dal primato della prestazione diventando passivi e abulici, come se volessero mandare un preciso messaggio: «Lasciami in pace, permettimi di fare nulla; voglio essere come sono». Mai le società sono state così invasive degli individui, mai li hanno sottoposti ad un’influenza così ossessiva e violenta, saziandoli e riempiendoli, sottoponendoli, fin dal primo mattino, a messaggi pubblicitari dove anche i giochi, i consumi e le emozioni sono presentate secondo l’assioma per cui «smettere è molto difficile, ricominciare facilissimo» (come recita una pubblicità, secondo il classico copione della dipendenza).
    La fragilità dell’adolescenza e la precarietà giovanile sono i comportamenti corrispondenti all’incertezza e all’inquietudine degli adulti. La loro continua domanda di rassicurazione tradisce una paura diffusa e generalizzata. Le voci che vengono dall’esterno sono così forti, i ritmi così implacabili, che i bambini e i ragazzi non hanno più tempo per sé, non riescono più ad ascoltarsi e a comprendere ciò che vivono, crescendo senza possibilità di critica o di interiorizzazione. La ricerca, a volte ossessiva, delle conferme degli esperti (rigorosamente psicologi o psichiatri), la propensione a difendere i figli (magari «contro» l’insegnante), mette in evidenza un difetto di identità del genitore.
    L’ossessione della giovinezza, l’insopportabilità dello spettacolo delle rughe e di ogni traccia del tempo che passa, dice tutta l’insicurezza circa il proprio progetto di vita. Si tende così a compensare in quantità quanto non si osa sperare in qualità. In tutta società prospera il linguaggio della dismisura: dai padri e dalle madri che pensano al loro figlio come il «bambino speciale» che deve primeggiare magari calpestando gli altri, agli amanti che dicono il loro amore divino ed eterno mentre lo temono precario e instabile. È di gran voga l’esibizione di esperienze estreme (vincere, imporsi, superare gli ostacoli secondo le grandi promesse della società tecnologica) portate avanti con pianificazione, addestramento, autocontrollo e capacità tecnica. La fuga dalla libertà e dalla fatica di costruirla diffonde la mentalità dell’adeguamento agli standard di vita condizionati dal controllo sociale.
    La «strumentalizzazione del basso» (I. Mancini) si rivela, così, strumento efficace, apparentemente democratico e antiautoritario, per addomesticare lo spirito critico, per consolare l’umiliazione della prestazione, lasciare libero spazio all’espandersi dell’immaginario consumista. Assume una pluralità di forma, molto diffuse: dalla scarsa qualità dei programmi televisivi, imposti dall’audience, al profitto come unica regola dei comportamenti economici, dall’apatia politica al sospetto come criterio di approccio alla realtà.

    I veri problemi

    La vita degli adulti e le loro contraddizioni non possono essere considerate la causa dello sballo, non sono esse a «produrre» l’abuso degli adolescenti. Vi concorrono però, indirettamente, nel senso di non offrire un supporto testimoniale ed educativo efficace ad accompagnare un certo numero di adolescenti almeno, ad affrontare con successo i problemi veri dei loro compiti di sviluppo. La crisi della famiglia e i condizionamenti dell’individualismo pongono ostacoli rilevanti alle sfide del debutto sociale degli adolescenti.
    Le difficoltà più evidenti dei compiti dello sviluppo emergono soprattutto a proposito del corpo. Nell’adolescenza il conflitto tra il bisogno di conservare il corpo infantile (con la sua perfezione ideale) e l’orgoglio di esporre un corpo adulto (con le sue pulsioni e disarmonie) può diventare drammatico.
    D’improvviso capita agli adolescenti di sentirsi in un corpo sessualmente maturo, che ha bisogno però di essere «mentalizzato», altrimenti finisce per sentirsi, in ogni occasione, inadeguato perché in fondo non accettato e non amato. In altre situazioni la cura ossessiva del corpo diventa una maschera: la forma può anche presentarsi elegante, raffinata e seduttiva ma il contenuto è vuoto; c’è bisogno di modellare il corpo, di sollecitarlo, di inciderlo perché dentro non parla. Nel travaglio e nella difficoltà ad accettare il corpo si insinua, come ingannevole scorciatoia e pericolosa tentazione, l’automedicazione sia sul versante della modificazione dello stato mentale (le droghe) sia su quello dell’accelerazione della prestazione del corpo (il doping).
    La tentazione dell’ebbrezza e le nuove forme di trasgressione sono un segno dell’inquietante vulnerabilità dei giovani, ma anche un indice della delusione insostenibile di una vita tutta materiale. L’ebbrezza chimica delle droghe è la risposta, facile e immediata, all’angosciosa sensazione del vuoto interiore e dello smarrimento esistenziale e relazionale. La continua sollecitazione degli stimoli e l’alternarsi frenetico delle esperienze, la pronta sostituzione delle delusioni, alla fine può essere tollerata grazie alla reazione contraria: la demotivazione, l’apatia, la noia, il non ascolto. Così, una sconfitta sul campo da gioco, uno scarto nei risultati sperati, un insuccesso scolastico possono diventare un dramma insopportabile, possono evocare l’amara sensazione di una sconfitta nella vita vera. I confini tra reale e virtuale si assottigliano, il nulla avanza; ma è sempre possibile modificare e alterare, a piacimento, il proprio stato mentale. Alla fine, anziché sviluppare il piacere che è un ingrediente necessario e naturale della vita, si finisce di vivere perfino il proprio corpo come nemico, ricercare l’ebbrezza dell’attimo o la sensazione intensa dal rischio, per toccare qualcosa che, poi, subito svanisce.
    Gli adulti e gli «esperti» osservano le nuove generazioni e parlano di disagio giovanile, denunciando le difficoltà della crescita. Pare invece che i figli non abbiano consapevolezza di malessere e di privazione ma, anzi, esprimano un certo compiacimento dell’indeterminatezza in cui la società li mantiene. Il vero disagio è la rassegnazione, quel modo passivo di abitare il mondo di cui le droghe sono l’estremo sbocco. L’adolescenza è l’età dell’intelligenza, del bisogno anche assillante di cercare risposte ad interrogativi ai quali gli adulti hanno già spesso rinunciato. Ciò che ristora, tranquillizza, stordisce può consentire di interrompere per un momento la consapevolezza del quotidiano o dare quel tanto di ebbrezza sufficiente ad attutire l’intensità delle domande. L’abbondanza della società del benessere e dell’adeguamento produce una tranquilla leggerezza che non si lascia facilmente interrogare a proposito dei significati delle decisioni compiute e del senso complessivo dell’esistenza e che, standardizzando ogni scelta, priva gli stili di vita della dimensione dell’originalità e della novità.
    Ad una considerazione più attenta, il vero problema delle nuove generazioni non sta, quindi, nel pericolo dell’abuso delle droghe e neppure nelle tentazioni della violenza (che, se mai, ne sono conseguenti) ma nello spegnersi della domanda di senso, nella perdita del silenzio, nella vita senza scopo e senza passione, che banalizza l’esistenza negandole la dimensione del mistero. È la vita senza speranza e senza sogni che si respira nella fragilità affettiva delle famiglie, nell’eccesso della competizione, nella cura esclusiva dell’immagine.

    Le possibili soluzioni

    In quanto è caratterizzata dall’incapacità e dalla mancanza, la cultura degli eccitanti è senza futuro, inadatta ad affrontare la vita, incapace di rinnovarsi. La tossicomania di massa va vista come perdita dell’esperienza: fascino del virtuale, paura del reale. Per una parte di giovani il benessere garantisce la possibilità di fruire di una «moratoria psicosociale», di godere di un tempo, che sembra dilatarsi sempre più, nel quale sperimentare continue prove di identità, indeterminatezza e confusione, senza decidersi per alcuna scelta autonoma e responsabile.
    L’alternativa va individuata nell’azione protagonista. Non in un’attività qualsivoglia (anche i bulli e i violenti sono attivi), ma nell’azione che scaturisce e si sostiene nella formazione al senso genuino della bellezza, nell’importanza da attribuire al significato del vero, nell’educazione del disgusto nei confronti del falso e del brutto. Le droghe vanno presentate per quello che sono: un surrogato della vita reale.
    Le droghe, simbolo e richiamo potente dell’ebbrezza, sono figura della preoccupante ingenuità degli attuali adolescenti e quindi della conseguente loro facile esposizione alla seduzione di tutto ciò che ha i tratti dell’inedito, dell’irrealtà come fuga e consolazione. L’incapacità della cultura di dare senso anche al patire, l’inciviltà che non sa accogliere le forme deboli della vita, l’insufficienza dei simboli per sostenere la caducità della vita rende evidente il punto nevralgico del tempo della scienza: l’incapacità ad accettare i limiti e l’ingenuità di credersi, con il proprio corpo e i suo bisogni, il centro del mondo. La risposta giusta davanti alla noia e alla demotivazione che ne conseguono non sta nell’aumentare gli stimoli del divertimento ma nei rendere disponibili spazi e tempi di pensiero e di riflessione. L’introspezione non è un esercizio astratto ed estraneo dalla vita concreta; è invece il risvolto necessario della comunicazione pubblica, dell’azione protagonista. Esprimere le proprie sensibilità, fare arte e cultura è esercizio di pensiero e di riflessione.
    Una risposta efficace alla sfida delle droghe, che prosperano nel terreno lasciato libero dall’educazione, si può indicare nella mobilitazione dei genitori. Le reti familiari non servono, però, solo ad organizzare azioni di sensibilizzazione della popolazione sull’inadeguatezza dei servizi di prevenzione e cura delle tossicomanie o azioni collettive a sostegno di una legislazione sociale di contrasto alle droghe più efficace, ma vanno pensate come strategie atte ad organizzare, nella vita sociale, la dimensione educativa. Genitori che si incontrano, che imparano ad ascoltare i figli adolescenti, che rivedono insieme le pratiche educative e adottano comuni attenzioni e orientamenti verso i figli e si sostengono vicendevolmente con metodologie attive di mutuo aiuto, possono sopperire efficacemente al vuoto, se non all’ostilità dell’ambiente.
    Le difficoltà dei ragazzi e degli adolescenti rendono evidente una nuova sfida educativa che non può essere affrontata solo con regole e raccomandazioni, ma richiede una nuova qualità della loro vita affettiva e una particolare competenza emotiva. Il «sentire» e il «provare» assumono oggi un ruolo centrale come criterio delle scelte. La competenza emotiva è invece indispensabile per affrontare lo smarrimento davanti al ritmo troppo veloce della realtà che cambia, per non rassegnarsi e continuare a ricercare i significati da attribuire a quanto accade, per vivere i sentimenti che radicano i legami. Si diffonde, soprattutto nelle nuove generazioni, l’analfabetismo emotivo: il successo dello sballo e delle droghe corrisponde il decadimento del vissuto emotivo a motivo dell’indebolirsi del protagonismo giovanile. Le famiglie sono complessivamente più isolate e hanno minori opportunità di esprimere collettivamente convinzioni e passioni civili. Questa conformità produce una profonda incapacità relazionale e comunicativa, con l’esclusione dal linguaggio dominante del vissuto emotivo e sentimentale delle persone. Il dialogo affettivo familiare è il terreno fecondo in cui entrare in intima comunicazione con se stessi in una comunione con l’altro che dà senso e significato alla vita personale.
    Vivere nel modo dell’ebbrezza è sentirsi trasportati fuori del tempo in un regno di apparenze dove non c’è compagnia e non esiste dialogo, dove non c’è quindi progetto. La forma dialogica dell’esistenza si trasforma, così, e s’inaridisce nella conduzione individualistica dell’esistenza.

    NB. Ho trattato questo tema nel volume: Una speranza per i genitori. Le ritualità che rigenerano l’amore e che costruiscono la comunità delle famiglie (EDB, in preparazione).
    Ho approfondito la tematica in Se tuo figlio in discoteca (1998); Fascino della notte, paura del giorno (2001); Un io senza Dio? (2001) EDB.


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