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    Il corpo perfetto dello sportivo



    Adolescenti che sanno star bene /3

    Domenico Cravero

    (NPG 2006-04-73)


    «Io credo che il bello dello sport sia proprio la continua voglia di migliorare le proprie potenzialità e raggiungere il proprio obiettivo» (Anna, 15 anni).
    Praticare uno sport è importante in tutti i periodi della vita, ma risulta esserlo ancor di più durante l’adolescenza. D’altra parte, proprio in questo arco di età, lo sport è particolarmente coltivato e seguito: i ragazzi provano molti tipi di competizioni, cambiano attività anche frequentemente, sono naturalmente portati al movimento e al gioco. Molti adolescenti si dedicano alla pratica sportiva con una passione assoluta. Lo fanno per «stare bene» e per «sentirsi in forma»: sono questi i due grandi imperativi, le due direzioni essenziali del progetto del corpo, affidato oggi come compito all’intraprendenza e alla responsabilità degli individui.
    Il corpo perfetto è sicuramente il sogno segreto di ogni adolescente. La meta non è di facile conquista, sta sempre ancora oltre e richiede continuo sforzo. L’impresa può fallire ma solo per un colpevole disimpegno che è sempre considerato come indisciplina.
    Gradualmente e inavvertitamente la nuova considerazione del corpo e la diffusione delle pratiche di perfezionamento di sé hanno modificato anche il linguaggio: non si usa quasi più l’espressione «sana e robusta costituzione», sostituita da quello del «corpo in forma». «Fare le cose per sport» non rimanda più ad immagini di disimpegno e superficialità, dal momento che il «carattere sportivo» si addice ad una persona attiva, intraprendente, impegnata e giovanile. Secondo una strana somiglianza con il linguaggio ascetico, si parla di disciplina a cui il corpo deve sottomettersi per raggiungere i risultati proposti. Si elencano le rinunce alle quali è necessario sottoporsi per realizzare il programma dell’allenamento. Si regolamentano cibo e bevande. Solo continuando decisi e ostinati nel proprio proposito – si ribadisce, in palestra o sul campo di gioco, con un linguaggio e un’insistenza che a volte ricordano i gruppi di mutuo aiuto – solo impegnandosi con regolarità e metodo, potranno essere raggiunti i risultati sperati.
    D’altra parte la posta in gioco è nobile e degna: la liberazione del corpo. La meta è impegnativa: la perfezione e la bellezza del corpo in forma.
    Il linguaggio esperto, nella materialità di misure e formule, da solo non troverebbe le parole per descrivere il pregio, per incentivare il fascino, per sostenere il sogno del corpo perfetto. È necessario il linguaggio del mito; il ricorso ai termini e ai simboli religiosi riempie un vuoto che la disciplina scientifica non sa trattare. La domanda religiosa è tutt’altro che spenta anche nelle giovani generazioni, lo documentano tutte le ricerche. Il desiderio sovrano ha bisogno di simboli e linguaggi adeguati. Negli stadi come nelle palestre, nei campi di gioco come nelle discoteche, i riti del consumo assumono, così, strane connotazioni religiose.
    La cultura di oggi, però, è quella della secolarizzazione avanzata, con la sua drastica riduzione della complessità, dove il trascendente si esaurisce nell’immanente o nella trasgressione, nell’«andare oltre» inteso come superamento dei limiti e della misura.
    Le categorie religiose permangono, a volte anche come termini, ma sono svuotate da una radicale semplificazione: il «Regno di Dio» è già qui e si esprime nell’aspirazione alla vita ricca e agiata, nel fascino irresistibile che esercitano le cose concrete. L’eternità si realizza nel tempo, nel sogno dell’età della vita che si prolunga indefinitivamente. Divino è il corpo giovane e bello, oppure lo stile di vita dei nuovi idoli del tempo. La felicità è la ricerca del benessere in chiave individuale; per questo è più frequente intenderla semplicemente come piacere.
    Nella prospettiva religiosa era la vita di fede, con l’impegno che richiede e la coerenza che comporta, ad essere considerata come una palestra; ora, invece, è la palestra ad essere vissuta, con i suoi riti e i suoi «sacerdoti», sulla stregua di una liturgia laica (e qui gli adolescenti si mostrano capaci di apprezzare i riti!). Era la preghiera a rendere belli, dentro e fuori, ora il culto della bellezza è affidata a diete e esercizi, è coltivata con macchine e profumi.

    L’allenatore, l’istruttore, il personal trainer: la disciplina piacevole

    «Le doti dell’allenatore sono la pazienza, la comprensione e che siano bravi nello stimolare i propri allievi a dare il massimo» (Rino, 17 anni).
    «Sicuramente è importante che gli allenatori sappiano far anche divertire, oltre che lavorare e che sappiano metterci in discussione» (Sergio, 18 anni).
    «Sicuramente l’istruttore deve possedere la simpatia e la capacità di comunicare con gli ‘allievi’ senza ferire» (Paola, 16 anni).
    «Gli allenatori devono essere severi perché solo così si può migliorare, ma il rapporto tra allenatore e l’allievo deve essere amichevole» (Michele, 18 anni).

    È molto utile e istruttivo osservare l’evoluzione della pratica sportiva e dell’esercitazione in palestra che la prepara, per cogliere gli esisti sorprendenti del controllo sociale sugli individui e le pressioni sull’immaginario degli adolescenti.
    Sport e palestre esistono da sempre e hanno avuto in passato un riconoscimento anche maggiore del successo di oggi. Filosofie e ideologie si sono servite dello sport e della ginnastica come supporti importanti per la diffusione di precise concezioni della vita o come appoggio ai poteri totalitari. Le palestre di oggi sono, certo, ancora diffusori di ideologie della corporeità. Associazioni sportive e centri fitness non si pongono però obiettivi di salute pubblica, non aderiscono ad espliciti progetti politici, né vogliono incidere sull’etica sociale. Si rivolgono a singoli cittadini e li considerano come consumatori, stimolano e rispondono al loro desiderio di migliorare le prestazioni fisiche o di divertirsi al loro spettacolo. Allenatori e istruttori poggiano la loro autorevolezza e competenza su un sapere specializzato. Non si limitano a proporre training ed esercitazioni. Sanno che il successo e l’efficacia dell’allenamento richiedono metodo e apprendimento. Il controllo del corpo esige la conoscenza razionale. Tutto il quantificabile deve essere calcolato: calorie e proteine, mantenimento del peso, forma e trofismo muscolare. Gli sportivi imparano a distinguere e isolare i muscoli, a scomporre e analizzare i movimenti. Solo così, essi possono stabilire obiettivi e traguardi sempre più arditi e dare inizio alla sfida con se stessi, per uscirne vincitori. La ricompensa della fatica di questa costante sorveglianza di sé sta nella felice combinazione della disciplina e del piacere. La disciplina consiste in una serie di esercizi, che trasformano il corpo in strumento utile e docile, a riprova di quanto le tecniche di disciplinamento del corpo si siano estese anche agli ambiti della ricreazione e del tempo libero. Il controllo sociale avanza, gli spazi dell’originalità si restringono, la creatività cede il passo all’adeguamento e all’imitazione.
    Il termine disciplina non deve, però, riportare la mente a concezioni autoritarie o ideologiche. Lo sport non è disciplina in senso specifico e tradizionale. L’ideale dell’individuo forte, energico, deciso e padrone di sé, sempre all’altezza delle situazioni, esige sicuramente un rigido controllo e una costante esercitazione per potenziare le proprie capacità e prestazioni. In questo metodico lavoro su sé l’allenatore è un utile mediatore. A lui non si richiede però solo la competenza tecnica e l’abilità personale a cui affidare il programma di allenamento. Ci si aspetta dalla sua persona molto di più: un reale accompagnamento di vicinanza personale, capace di sostenere le motivazioni per continuare nello sforzo e un sostegno affettivo in grado di diluire la fatica, di rendere sopportabile il vincolo delle regole, in una parola, di far diventare piacevole la disciplina. Così l’allenatore diventa anche un comunicatore, un amico, un leader, un facilitatore.
    Oggi non si sopporterebbe la disciplina se non fosse anche piacere, meglio se nella forma della gratificazione istantanea. Perché l’incanto del corpo perfetto dell’atleta rimanga intatto e le motivazioni alla pratica sportiva prevengano il rischio dell’abbandono, la gratificazione personale immediata deve sempre accompagnare il lento percorso degli allenamenti e dei risultati ottenuti.
    È così anche negli altri «campi da gioco» dei compiti di sviluppo degli attuali adolescenti: la scuola, il lavoro, l’inserimento sociale. La fragilità dell’io mal sopporta richieste educative improntate alla responsabilità e all’autonomia. Nell’educatore (nel genitore, nell’insegnante, come nell’allenatore) si ricerca comprensione, consolazione e sostegno. Gli adolescenti spesso non appaiono indifferenti od ostili al supporto degli adulti. Si potrebbe sostenere che mai li hanno così cercati e voluti, se coerenti e competenti. La comunicazione con gli adulti normalmente non è conflittuale. Gli adolescenti sembrano piuttosto distratti e senza entusiasmo, come se fossero altrove, immersi in un universo semantico, in cui non è dato entrare («Perché lo devo fare?», «Non ho voglia…», «A cosa serve?»). Sotto un’apparente impressione di disinteresse e di apatia, sembra nascondersi piuttosto l’indecisione: troppe prestazioni alle quali si teme di non reggere, troppi interessi ai quali è difficile rispondere coerentemente, troppi impegni, troppo stress. I ragazzi sentono che si chiede loro costantemente da adeguarsi agli standard sociali, ai programmi elaborati da altri. Fin da piccoli sono gli adulti a prescrivere orari e ritmi di vita, a scegliere gli hobby e gli sport, a stabilire gli ambiti in cui eccellere, ad organizzare una giornata lunga come la loro. Molto, tutto per i figli... Manca sempre più il tempo del dolce far niente: il tempo vuoto è diventato troppo pieno, lo stare insieme fine a se stesso si è fatto raro. Verso i piccoli l’educazione è scambiata con l’ossessione dell’accudimento, per i più grandi è confusa con l’apprendimento: fare tante cose divertenti e interessanti; riempire le giornate di ogni sorta di attività: giochi di squadra, corsi per ogni hobby, tornei di sport vari, gare e spettacoli, tutti da offrire ai genitori perché applaudano, con forza (a volte anche con aggressività) e orgoglio (a volte anche esagerato) alla performance dei figli. Sicuri che si siano proprio divertiti (… lo si vede nella noia di tanti adolescenti). Pochissimo lo spazio per le proposte, le idee, la creatività, i ritmi dei giovani.
    Una prima richiesta sembra emergere dai ragazzi di oggi: che l’educazione e la formazione siano esperienze belle e gradevoli; che dovere e piacere non siano opposti inconciliabili. Ci offrono anche un’indicazione: il «piacere» che incoraggia e dà sicurezza consiste nella vicinanza fisica di qualcuno che guida e accompagna. E come ci riesce l’istruttore e l’allenatore, così possono riuscirci anche l’educatore, l’insegnante e il genitore.

    I valori dello sport, la degenerazione commerciale, il doping

    (il doping) «Penso che sia una vera e propria infamata» (Carlo, 15 anni).
    «Cambia il principio dello sport; si trasforma dal divertimento all’obbligo della vittoria» (Sara, 17 anni).

    Sono numerosi i valori dello sport e riguardano non solo lo sviluppo fisico ma coinvolgono tutte le dimensioni della crescita. La pratica sportiva può costituire un sistema di valori pedagogici e morali che sostengono le responsabilità educative degli adulti. I valori dello sport non si danno, però, oggi allo stato puro ma come pratica ambivalente, sempre accompagnata e minacciata dall’immaginario messo in moto dalla degenerazione commerciale cui lo sport è sottoposto. Nella pratica sportiva e nella frequentazione delle palestre i giovani hanno modo di misurarsi con la propria personalità, conoscersi, confrontarsi con gli altri. Possono apprendere, attraverso la disciplina e il controllo di sé, i grandi valori della lealtà, del rispetto e della collaborazione con il gruppo. Lo sport è una pratica socialmente approvata e valorizzata: fare attività e mantenersi in forma sono veri imperativi dell’attuale cultura, raccomandati da educatori, medici, psicologi. Lo sport veicola però interessi commerciali e assume connotazioni mediatiche mai conosciute prima di oggi. Una presentazione anche sintetica ed essenziale dei valori educativi dello sport non può tacere questa condizione. Allo stesso modo ogni considerazione sul costante incremento del ricorso alle sostanze dopanti, sullo smodato e precoce consumo di integratori alimentari da banco e di creatina proposti specificatamente per adolescenti che praticano sport, sarebbe incompleta e fuorviante se non mettesse in discussione l’attuale degenerazione commerciale.

    Il valore del confronto con gli altri

    «Nello sport si provano diversi piaceri… Quello del rapporto con se stesso, il piacere degli amici, e molti altri» (Marco, 16 anni).

    Gli adolescenti sono biografie in costruzione, sempre più lasciate al libero criterio dell’autonomia personale. La comunità degli adulti, infatti, si sta rivelando incapace di proporre alle nuove generazioni modelli credibili in cui identificarsi, speranze collettive a cui aderire. I giovani sperimentano, in una solitudine ben maggiore dal passato, che la loro identità non è orientata dall’esterno ma è frutto di dura conquista e scelta individuale (con tutti i vantaggi e i rischi che questo comporta). Osservano anche che, nonostante le incertezze e la velocità dei cambiamenti, l’identità si costruisce gradualmente nel confronto con gli altri, nella reciprocità tra immagine di sé e la conferma degli altri. Sport e palestre possono svolgere un’importante funzione ecologica. Fortificando la volontà con la disciplina, facendo crescere una personalità armonica nella flessibilità e nello sviluppo del corpo, favoriscono l’inserimento nell’ambiente vitale delle persone. In un tempo in cui predomina la vita sedentaria, si estende il dominio della virtualità e predomina lo sport come spettacolo passivo, riappropriarsi del corpo, dedicargli spazio e tempo, imprime un orientamento contrario ed equilibratore.
    L’esasperazione dell’agonismo comporta, invece, l’abdicazione della dimensione ludica (il riconoscimento libero e gratuito del valore delle persone) a tutto vantaggio della competizione, caratteristica esasperata della pressione commerciale.
    L’ansia del risultato e l’assoluto della vittoria diventano preoccupazione unica. Quando sono gli interessi economici e mediatici ad avere il predominio la spinta competitiva viene strumentalizzata e assolutizzata: il ricorso al doping è vissuto come necessità in un’escalation che impone un’omologazione senza fine.

    Il senso del limite

    «Penso che l’allenamento possa migliorare nella salute, ma sopratutto per conoscere i miei limiti» (Angela, 16 anni).
    «Più che migliorarmi, la palestra mi aiuta a non peggiorare troppo» (Vito, 18 anni).
    «Credo che non si possa andare oltre un certo massimo» (Alex, 17 anni).

    Lo sport è un ottimo strumento per combattere l’inattività. L’adolescenza è un tempo denso di scelte da compiere, di opportunità da non perdere. Nulla è più dannoso dell’ozio, perché è fondamentale per i giovani rispondere al vigore del corpo e alla freschezza del pensiero con attività che siano, al tempo stesso, concrete e simboliche. Lo sport sano e partecipato ha queste caratteristiche. Palestra e sport sono, quindi, valide risposte al bisogno di protagonismo dei giovani, e, al tempo stesso, ne mitigano l’attivismo. Il corpo che si esercita e si sperimenta nella gara procura piacere quando dispiega le sue potenzialità, ma anche costringe alla rinuncia e al superamento di sé. Pone di fronte a difficoltà e insuccessi, immerge nei conflitti e nelle sconfitte, aiutando a misurarsi con il necessario senso del limite.
    I messaggi pubblicitari e la logica economica che li sottende contribuiscono fortemente a diffondere un’immagine distorta del mondo giovanile, come di una massa gaudente, in continuo movimento, unicamente concentrata nel consumo e nel divertimento. Dipingono uno stile di vita, trasgressivo e in balia dell’eccesso, in cui i giovani non si riconoscono.
    Il pesante condizionamento mediatico dello sport passivo e la continua esposizione a modelli presentati dalle riviste specializzate delle palestre e club sportivi (sponsorizzate dalle industrie di integratori e delle tecnologie del fitness) può influenzare gli atteggiamenti degli adolescenti nei confronti del doping, verso il consumo di sostanze acquistate nella speranza di rimediare a presunte inadeguatezze, per potenziare le prestazioni, per aumentare la resistenza alla fatica.

    L’inclusione sociale

    «In un club bisogna conoscersi tutti e cercare di non avere rivalità per giocare meglio, perciò il dialogo è fondamentale» (Simone, 17 anni).
    Gli adolescenti possiedono una fragile immagine di sé e il bisogno di appartenere ad un gruppo è in loro particolarmente evidente. Lo sport agonistico e l’esercitazione, che in palestra lo prepara, assumono un valore sociale particolarmente evidente nelle giovani generazioni. Il desiderio di vincere, di ottenere un risultato, di raggiungere un traguardo nel confronto con l’avversario sono dimensioni irrinunciabili della pratica sportiva. I rituali della competizione sportiva e la progressione nei risultati nelle gare come nel fitness possono essere considerati come veri «riti di iniziazione». Avvengono, infatti, sempre alla presenza di adulti (che spesso sono gli stessi genitori) che ammirano, applaudono, si appassionano. La performance raggiunta, se conseguita in modo «sportivo», include la conoscenza del proprio limite, la sfida verso di sé o contro gli avversari, nell’uso corretto delle risorse a disposizione, nel rispetto di regole e tempi. I risultati si raggiungono con l’impegno e l’allenamento e non con la sopraffazione e la discriminazione. La pratica sportiva corretta è anche un’autentica esercitazione ai rapporti interpersonali corretti e autentici.
    Quando, invece, prevale la competizione aggressiva, basata sul culto individualistico dell’immagine e della prestanza, caratteristiche facilmente sfruttabili dalla commercializzazione spregiudicata, il risultato sociale atteso si rovescia. Invece dell’inclusione, sport e fitness favoriscono, direttamente o meno, la discriminazione: l’emarginazione e la stigmatizzazione del corpo debole.
    Nello sport dopato, quando la competizione è truccata, lo spettacolo è contraffatto e i risultati sono un imbroglio. La pratica sportiva perde ogni valore simbolico. Diventa, anzi, a motivo del suo impatto sociale, una delle più inique forme di corruzione: la celebrazione di un vantaggio disonesto e occulto.

    I genitori (gli educatori) che non si danno per vinti

    «I miei genitori sono favorevoli alla mia attività, consapevoli che la vita che svolgo è salutare. In casa ne parlo bene e i miei genitori sono contenti» (Cristina, 18 anni).
    «I miei genitori sono contenti che io faccio palestra. Sanno che vado a danza, a loro piace l’ambiente. In casa ne parlo bene e a volte racconto ciò che faccio, ai miei genitori piace l’idea che pratico questi sport» (Alessia, 15 anni).
    «È mia mamma che mi ha spinta a giocare a tennis» (Caren, 16 anni).

    La differenza più rilevante dell’iniziazione sportiva di oggi nei confronti dei significati dei riti antichi consiste nel fatto che il riconoscimento, attraverso la performance, del corpo adolescente, non ha nello sport attuale e meno ancora nei centri fitness, il valore di un passaggio di crescita verso l’adultità. Non ha lo scopo di segnare le differenze dei sessi e delle generazioni e di favorire l’accettazione consapevole del tempo che passa. Nello sport si celebra fondamentalmente il primato della prestazione e della competizione.
    Lo sport, fin dalle sue celebrazioni olimpiache, ha simboleggiato la vittoria dell’atleta sulla morte, la celebrazione del corpo vittorioso sul suo potere distruttivo del tempo che passa inesorabile. Il corpo bello e immortale del campione, attraverso la violenza del combattimento sportivo, attestava che, nella vittoria, la persona si perpetua e non perisce. Nell’attuale immaginario sociale del fitness la sfida sulla morte (sarebbe più corretto, forse, dire l’occultamento della morte) è affidata alla tecnoscienza (applicata alla biologia del corpo). Nei riti di passaggio dell’adolescente campione (nel senso ampio del termine) non si celebra un traguardo dell’età; il corpo si compiace di sé e si rispecchia nel fascino della gratificazione istantanea.
    «Scolpire e sviluppare il corpo non mi interessa, mi interessa molto di più sfidare i limiti» (Pietro, 16 anni)
    Nei «riti iniziatici» di oggi, l’adolescente fa tutt’uno con il suo allenatore e, insieme, si confrontano con l’unico avversario: il risultato da raggiungere. Lo specchio (e non il popolo esultante del villaggio) fa da testimone. Un solo passaggio sociale viene realizzato: dall’anonimato si passa al gruppo degli iniziati. Per il resto si rimane individui soli.
    L’ideale dell’Io, coltivato e lusingato nei centri fitness, non prende congedo dalla famiglia (dalla quale l’adolescente dipende in tutto). Il distacco è solo simulato. Nel progetto sportivo la proiezione sui genitori è sostituita (come un equivalente funzionale) dal legame con l’allenatore.
    La performance fisica solitaria si combina invece bene con la modificazione dello stato di coscienza che sostituisce l’eccitazione della scena iniziatica antica. Integratori e sostanze dopanti, entrano in molti casi di pieno diritto nell’immaginario della prestazione, nel mito del successo, nella magia della dismisura. Diventano i necessari ingredienti del corpo eroico e straordinario. La sfida alla morte non è rappresentata ma agita.
    Alla festa avvincente della bell’età oggi manca un ingrediente essenziale: la sicurezza del riconoscimento. È una condanna alla sola libertà del fare ciò che si vuole. Oggi non solo mancano i riti per l’accoglienza dei giovani, ma sono rari anche gli adulti (genitori, insegnanti, datori di lavoro) autorevoli, capaci ad introdurre e a comunicare il senso profondo della vita (a consegnare il loro «segreto»), proprio in un momento evolutivo e in un tempo storico in cui questo vuoto è particolarmente avvertito. Non rimane che cavarsela da sé, cercare nei pari e nel gruppo, nelle imprese personali il necessario riconoscimento. I nuovi templi della festa, discoteche, club del fitness e grandi sale giochi, stadi e campi da gioco, non svolgono il compito di integrare gli adolescenti nella comunità sociale, ma, al contrario, costruiscono la sottocultura dei pari.
    In luogo dei valori sociali, di impegno e di costruzione dell’autonomia, si affermano i valori espressivi e di realizzazione personale istantanea, gestiti in prima persona dai giovani stessi. A questo servono tatuaggi e piercing, tagli dei capelli, acconciature, forme e colori del corpo; oppure altri particolari oggetti che assumono valore di simbolo: il motorino, il cellulare, determinati capi di abbigliamento: una parvenza d’identità, senza bisogno di iniziazioni né di apprendistati.
    I genitori (gli educatori) non si danno per vinti: sanno che lo sport appartiene al dominio dei mezzi; isolato dai fini della crescita può rivelarsi di scarsa efficacia.
    «La palestra può diventare come una dipendenza. Basti pensare che quando l’attività si ferma non sappiamo mai che fare» (Michael, 17 anni).
    Ho approfondito la tematica di questo articolo in: Domenico Cravero, Corpi allo specchio, EDB Bologna (in fase di pubblicazione). Da quella ricerca ho riportato le testimonianze citate.


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