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    Oriente? Occidente?



    Intervento di Norberto Bobbio

    (NPG 1993-07-35)


    A un anno e più di distanza dalla Guerra del Golfo, i fuochi, non solo metaforici, che colà si erano accesi, non sono ancora spenti. Pensa a riattizzarli Asor Rosa con un suo libretto «fuor di misura», uscito lo scorso anno, «Fuori dall'Occidente. Ragionamento sull'Apocalisse (Einaudi, pp. 125, L. 16.000).
    Ma il tema centrale non è più la guerra giusta, che aveva suscitato un aspro dibattito un anno fa. La Guerra del Golfo è stata, sì, un orrendo massacro, effetto inevitabile e voluto di una tecnica di guerra tanto perfetta da essere invincibile, massimamente vulnerante e altrettanto massimamente invulnerabile. Un massacro di cui ogni persona civile dovrebbe vergognarsi.
    Ma questa constatazione all'inizio del saggio è soltanto un pretesto per un discorso diverso.
    Ciò su cui Asor Rosa ci invita a riflettere è che, per la prima volta nella storia, tutto l'Occidente unito, da New York a Vladivostok, ha intrapreso una guerra contro l'altro mondo, il non-Occidente, attuando il disegno millenario dell'unum imperium unus rex. L'accordo unanime delle nazioni occidentali rivelerebbe che si sta attuando un nuovo ordine che coincide con la volontà di dominio di una parte sola del mondo, in una parola con l'occidentalizzazione del mondo o, altrimenti, con la completa subalternità del resto del mondo all'Occidente.
    Sino al crollo dell'Unione Sovietica c'erano ancora, dentro alla stessa Europa, un Occidente e un Oriente, un'Europa dell'Ovest e un'Europa dell'Est. Ora non è rimasta che l'Europa dell'Ovest, che è in realtà un'appendice degli Stati Uniti. Sino alla prima guerra mondiale l'Occidente coincideva con l'Europa. I due termini «occidentalizzazione» e «europeizzazione» erano adoperati come sinonimi. Ma ora, tanto nei suoi aspetti negativi quanto in quelli positivi, il «vero» Occidente sono gli Stati Uniti.
    Che avesse ragione Hegel, quando affermava che l'avanzamento della civiltà aveva seguito il corso del Sole, proseguendo continuamente da Oriente a Occidente, e quindi era destinato, una volta giunto in Europa, a non arrestarvisi ma, varcando l'Atlantico, che navi occidentali per prime avevano solcato, a insediarsi nel Nuovo Mondo?
    Da questo momento tutta la terra conosciuta si occidentalizza. Anche in Giappone, lembo estremo dell'Oriente. Anche il papa si fa, in maniera sempre più palese, portatore di valori occidentali, come la libertà politica e la democrazia. Ma l'aspetto più disastroso di quella universalizzazione della civiltà occidentale si manifesta nell'ebraismo, che, «per diventare Israele, ha accettato anch'esso e fatta propria, per la prima volta nella sua storia, in quanto ebraismo, la grande eredità dell'Occidente» (p. 70).
    Per dare un senso a tutto questo discorso occorre però rispondere a una domanda preliminare, difficile, cui mi sembra abbia risposto lo stesso Asor Rosa: «Che cosa s'intende per Occidente?». Qual è il criterio di distinzione tra i due termini di questa grande dicotomia «Occidente-Oriente», che attraversa migliaia di anni di storia?
    Già si capisce dalla presa di posizione di Asor Rosa che a entrambi i termini si può attribuire una connotazione negativa e una positiva, perché quella che ci viene offerta dall'Occidente in questo saggio è nettamente negativa.
    Tra mille interpretazioni di questa diade, due mi paiono prevalenti: (a) l'Occidente è la patria della libertà, contro l'Oriente dispotico; (b) l'Occidente è la terra dove si è sviluppata la civiltà della scienza e della tecnica contro l'Oriente, la cui sapienza sacrale non è mai riuscita a dar vita a un sapere utile alla trasformazione della natura e della società. Intorno a queste due antitesi, che rispecchiano entrambe la coscienza che l'Occidente ha di se stesso, ne sono state proposte infinite altre.
    Per secoli ha prevalso la prima, almeno da quando Aristotele aveva sentenziato che i popoli barbari dell'Oriente, essendo più servili dei Greci, sopportavano senza lamentarsi regimi dispotici. In quest'ultimo secolo, almeno dopo Nietzsche, per effetto delle due guerre mondiali di Auschwitz e Hiroshima, la seconda.
    La prima è stata generalmente accolta nella sua versione positiva, ma esiste anche la versione negativa oggi prevalente, secondo cui la pretesa superiorità morale degli uomini dell'Occidente, liberi contro servi, è diventata pretesto e giustificazione di dominio sugli altri popoli considerati inferiori e, in quanto inferiori, da conquistare e da educare. La seconda è stata assunta, soprattutto in questo secolo, dopo il tramonto dell'idea di progresso, nella sua versione negativa, ma è esistita, e a lungo sopravvissuta, la versione positiva, prima illuministica, poi positivistica, e per certi aspetti marxista. Come la libertà di alcuni si trasforma in soggiogamento di molti altri, così lo sviluppo tecnico è un beneficio per pochi, un maleficio per molti.
    Irisisto su questi due aspetti, positivo e negativo, di quella che altrove ho chiamato la «ideologia europea», perché, da osservatore poco incline alle soluzioni radicali, mi pare di cogliere in questo saggio di Asor Rosa una forte propensione alla radicalizzazione del giudizio sull'Occidente, s'intende del giudizio negativo.
    Se all'inizio del secolo si era affacciata l'ipotesi del «tramonto dell'Occidente», ora se ne sospetta addirittura la fine, o meglio, la necessità, più che materiale, morale, della fine. La riflessione sugli effetti perversi dell'occidentalizzazione è accompagnata, intercalata, tra capitolo e capitolo, da un commento all'Apocalisse, come se ormai soltanto una visione apocalittica della storia permettesse non solo di dare un senso a quello che succede, ma anche a suggerire una via d'uscita.

    «Fuori dall'Occidente». Ma per andare dove?

    La storia delle accuse all'Occidente è lunga. Non stupisca se le accuse più infamanti siano venute dall'estrema destra e dall'estrema sinistra, che si valgono degli stessi argomenti, ad esempio, elevando a figura emblematica dell'uomo occidentale il mercante.
    Ma c'è una differenza tra le accuse di ieri e quelle di oggi. Allora le accuse venivano mosse per deplorare la decadenza di una grande civiltà e per cercare di vivificarla con una sferzata. Ora, come mostra bene il saggio di Asor Rosa, l'Occidente è posto sotto accusa nel momento del suo apparente trionfo. Quando sembrava che l'Occidente avesse iniziato il processo della sua decadenza, se ne esaltarono i benefici per arrestarne la china; ora che non solo ha vinto ma ha stravinto, se ne denunciano gli orrori quasi quasi per accelerarne la fine.
    «Mentre tutto il mondo - scrive Asor Rosa - vuol diventare Occidente, io mi chiedo come fare per uscirne. Ma la risposta è "Non si può"» (p. 98). Ma proprio perché non si può, e si dovrebbe, l'orizzonte è oscurissimo: «Scorreranno fiumi di sangue, non si avrà pietà per nessuno. La guerra sarà un elemento fondamentale e continuato, presupposto del nuovo ordine» (p. 99). Poco più oltre: «Già adesso non siamo più in grado di dire se ci sia più civiltà nella Quinta Strada di New York o più barbarie nelle sterminate favelas di Rio, o viceversa» (p. 101). Può sembrare un paradosso: dall'Occidente si deve uscire, ma non si può.
    Per ora l'unico rimedio suggerito nel libro è di prendere coscienza della dissoluzione: «Obbligare l'Occidente a vedersi e dunque aiutarlo a dissolversi» (p. 101).
    Poteva l'apocalittico giungere ad una soluzione diversa? Eppure lo stesso Serge Latouche, nel libro, che mi pare abbia ispirato Asor Rosa, L'occidentalizzazione del mondo (Bollati Boringhieri, pp. 160, L. 20.000), pur assumendo un atteggiamento anti-occidentale, conviene alla fine che bisogha liberarsi del fascino della catastrofe e «sdrammatizzare l'Apocalisse». A questo scopo scrive cose su cui consento dalla prima parola all'ultima: «I diritti dell'uomo e il rispetto della persona umana, come pure il rispetto della cultura e i diritti dei popoli, fanno parte del patrimonio dell'Occidente, la cui realizzazione è un obiettivo che non si può abbandonare» (p. 143). Si potrebbe continuare: dove, al di fuori dell'Occidente, prima greco, poi cristiano, è stata non solo progettata ma anche, seppure imperfettamente, attuata, una forma di «società», pluralistica, regolata da norme di convivenza, che permettono di risolvere la maggior parte dei contrasti che dividono un individuo dall'altro, un gruppo dall'altro, senza che sia necessario ricorrere all'uso della violenza, e ventilata l'idea di una civitas maxima, cui corrisponde il diritto cosmopolitico di Kant, di una società universale giuridicamente ordinata, di cui sono una prefigurazione, per quanto imperfetta, le Nazioni Unite, al di sopra di tutti i localismi, i regionalismi, i nazionalismi, che stanno mettendo a ferro e fuoco tante placche del nostro pianeta? È mai possibile separare gli aspetti positivi dell'occidentalizzazione da quelli negativi e mettere in evidenza soltanto questi ultimi?
    L'apocalissi è un annunzio. È l'annunzio di qualche evento futuro, che inevitabilmente, secondo il profeta, accadrà. Che annunzi la salvezza o la perdizione è indifferente. In ogni casi l'annunzio dell'ineluttabile induce all'attesa e quindi alla passività.
    Si aggiunga che, questo ineluttabile, mille volte annunciato, non essendo mai accaduto, bisognerebbe cominciare a sospettare dei falsi profeti, non dar loro tanto credito e non dar troppo ascolto alle loro grida di speranza o di disperazione.
    Non si può restare inerti di fronte alla storia, perché la storia, diversamente da come ha detto quel tale, intorno al cui libro si è fatto tanto chiasso, non è finita. Non solo non è finita, ma, se si guarda al processo di universalizzazione della società regolata da una legislazione fondata sul rispetto dei diritti dell'uomo, è appena cominciata.
    Del resto, dopo tante invocazioni di morte violenta della magna meretrix, che simboleggia il potere sterminato su tutti i popoli della Terra, di fatto l'impero americano ormai senza rivali, Asor Rosa termina con un richiamo all'etica della responsabilità che sembra andare nel senso diametralmente opposto, verso l'accettazione del rischio di una scelta, che è il contrario dell'aspettazione del bene assoluto, come «sogno visionario». Soprattutto, poi, quando sembra alla fine che il rimedio al paventato avvento dell'età del nichilismo debba essere trovato in un sistema di procedure, ovvero di regole che l'uomo ha inventato e messo alla prova, non sempre con successo, per arrestare la violenza, non certo per eliminarla del tutto. Che è un programma debole, seppur ragionevole, da riformatore senza troppe illusioni.
    Tanto più debole in quanto si riconosce subito dopo che «un'etica della responsabilità appare ancor più fragile e minoritaria che in passato» (p. 118). Il che spiega fra l'altro il brusco passaggio ad una posizione che va in senso contrario: «La verità e la giustizia non possono più venire da fuori: devono venire da dentro».
    Donde la conseguenza: «La riforma si fa, innanzitutto in interiore homine» (p. 120). E ancora: «Si può uscire dall'Occidente soltanto attraverso la propria anima» (p. 120). In senso contrario, ho detto, ossia verso l'etica della convinzione.
    Ma l'etica della convinzione è forte per chi la pratica, ma inefficace senza una improbabile e imprevedibile conversione universale.
    Questo saggio è appassionante, proprio perché «fuori misura». Ma alla fine lascia più dubbi di quelli che risolve. La storia non si fa coi «se», ma non si fa neppure con gli «aut-aut». Pro o contro, dentro o fuori. Fuori dell'Occidente o dentro l'Occidente è un dilemma indecidibile.
    Il grande problema oggi è quello di conciliare il corso inarrestabile e irreversibile del progresso tecnico, che come la spada di Achille ferisce e guarisce, e l'organizzazione politica del mondo che non può non valersi degli aspetti benefici delle scoperte scientifiche e delle loro applicazioni.
    Sulla salvezza del mondo non metterei la mano sul fuoco. Ma siccome la salvezza non può venire da un Dio ma soltanto da noi, uscire dall'Occidente, cui dobbiamo la somma del sapere, nel bene e nel male, da cui non possiamo più tornare indietro, ma serve a nulla. Né può avere alcun effetto l'in te redi, la riforma interiore. È vero che quando si pongono i grandi problemi, i rimedi sembrano sempre troppo miseri. Ma questo è la conseguenza dell'atteggiamento apocalittico, che non vede altra via di uscita che o il trionfo di tutto il Male o il trionfo di tutto il Bene.
    La storia, invece, è un intreccio di bene o di male o, peggio, di atti che vengono giudicati da alcuni buoni, da altri malvagi. Anch'io sono un apocalittico per natura, ma mi sono accorto che ogni volta che mi sono abbandonato a dare giudizi radicali ho sbagliato. E ritengo che oggi più che mai occorrano prudenza e pazienza e si debba respingere la tentazione del «tutto o niente». Né speranza né disperazione.
    Né Ernst Bloch né Giinther Anders. Li ammiro entrambi, ma non li sceglierei come guida. La ragione non domina il corso del mondo, come credeva Hegel, ma, forse, non stiamo precipitando nell'età del nichilismo. Dico «forse», perché è proprio in questo «forse» che possiamo ancora trovare uno spazio, grande o piccolo che sia, per continuare ad agire da «fabbri della propria fortuna».

    (La Stampa, giugno 1992)


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