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    28. Giobbe

    fabris28


    Il libro di Giobbe si articola in due parti diseguali. La prima è il dramma in prosa, che comprende un prologo e un epilogo. La seconda parte abbraccia il dramma poetico, strutturato in tre atti, con alcune aggiunte e inserzioni redazionali.
    L'autore del libro di Giobbe rielabora un antico racconto per rispondere alla crisi di fede in Israele negli ambienti sapienziali. L’autore tenta di dare una risposta all'enigma del male. L'insegnamento tradizionale, fondato sul principio della retribuzione, si rivela incapace di spiegare la sofferenza che si abbatte senza distinzione su giusti e ingiusti. In una nuova visione dell'uomo e del mondo, il centro di gravità dell’esperienza religiosa si va spostando dalla collettività all'individuo. L’autore del Libro di Giobbe fonde insieme tradizione e novità, come appare anche dall'uso dei diversi generi letterari: dibattito sapienziale, controversia giuridica o processo, salmi di lamentazione, inni celebrativi della potenza creatrice di Dio o della sua sapienza.
    Il libro di Giobbe si articola in due parti diseguali. La prima è il dramma in prosa, che comprende un prologo - primi due capitoli (Gb 1,1-2,13) e un epilogo (Gb 41,7-17). La seconda parte abbraccia il dramma poetico (Gb 3,1-46,6), strutturato in tre atti, con alcune aggiunte e inserzioni redazionali: inno alla sapienza (Gb 28), primo dialogo tra Dio e Giobbe (Gb 29-31), intervento di Elihu (Gb 32-37), secondo dialogo tra Dio e Giobbe (32,1-42,4).

    1. Origine del libro di Giobbe

    Assieme a Noè e Daniele, Giobbe è menzionato nel libro di Ezechiele come uno dei giusti del mondo antico (Ez 14,14.20). La storia del Giobbe preesilica è conservata e rielaborata nei circoli sapienziali. La stesura del libro risale al postesilio, verso il V sec. a.C., perché nel libro, composto in ebraico, vi sono vari aramaismi. I modelli letterari sono quelli dell'Antico Vicino Oriente: il “Dialogo di un disperato con la sua anima” (Egitto, 2190-2040 a.C.), le “Lamentazioni di un uomo al suo Dio” (Sumer, II millennio ),Ludlul bel nemeqi, “Voglio lodare il Signore della sapienza” (Accad, 1400-800 a.C.).

    2. Il dramma in prosa

    Il dramma in prosa, dopo la presentazione del protagonista “Giobbe” nel prologo (Gb 1,1-5), si sviluppa in tre scene. Nella prima si ha un rovesciamento della situazione iniziale: Giobbe perde i familiari e tutti i beni (Gb 1,6-19). Nonostante questo rovescio Giobbe non si ribella né insulta il Signore (Gb 1,20-22). Nella seconda scena si ha un’intensificazione della prova: Giobbe perde la salute e l'integrità fisica (Gb 2,1-17). Egli rimane saldo nella sua adesione al Signore (Gb 2,8-10). Nella terza scena arrivano gli amici di Giobbe che saranno i suoi interlocutori nel dramma poetico (Gb 2,11-13).
    Nella prima scena dell’epilogo in prosa si presenta il giudizio negativo di Dio sugli amici di Giobbe (Gb 42,7-9). Nella seconda scena si riporta il giudizio positivo di Dio su Giobbe (Gb, 42,10-15). Nella conclusione si ha la riabilitazione di Giobbe nella condizione iniziale: rapporti e beni familiari, salute (Gb 41,16-17)
    La figura di Giobbe nel prologo in prosa, è quella tradizionale del Giobbe “paziente”. Egli professa la sua fedeltà a Dio nonostante la serie di disgrazie che lo travolgono. È un eroe solitario e una figura esemplare. Non commuove né trascina l'essere umano comune, che avverte tutto il peso della fragilità e l'ambiguità del dolore e della sofferenza. L'autore del dramma poetico dà al Giobbe del prologo un volto umano e cala la sua fede nel crogiolo di un'esistenza umana, in modo che il Giobbe biblico diventa un invito per gli esseri umani di tutti i tempi.

    3. Il dramma in poesia (Gb 3,1-46,6)

    Nel primo atto intervengono di seguito i tra amici Giobbe, ai quali egli di volta in volta reagisce e risponde. Il dramma in poesia si apre con lo sfogo di Giobbe. Sullo stile della “lamentazione” - cf. Ger 20,14-18 – Giobbe pone una serie di domande con le quali scandaglia la contraddizione del vivere umano segnato dalla sofferenza assurda: «Perché dare la vita a un infelice e la vita a chi ha l'amarezza nel cuore?» (Gb 3,20). Giobbe maledice il giorno della sua nascita (Gb 3,3-10), invoca la morte (Gb 3,11-19), ma alla fine si appella finale a Dio (Gb 3,20-26).
    Come prima reazione a Giobbe interviene Elifaz, il “profeta” (Gb 4-5). Segue la risposta di Giobbe (Gb 6-7). Il secondo intervento è quello di Bildad, il “giurista” (Gb 8). Dopo la nuova riposta di Giobbe (Gb 9-10), interviene Zofar, il “sapiente” (Gb 11). Lo stesso schema si ripete nel secondo atto: tre reazioni di Giobbe e tre interventi degli amici (Gb 12-20). Anche nel terzo atto si sviluppa un nuovo confronto tra Giobbe e i tre amici (Gb 21-27).
    A differenza degli amici, che in un primo tempo partecipano in silenzio al suo dolore, ma guardano la realtà con il filtro dei principi dottrinali, Giobbe parte dall'esperienza della sua sofferenza. Egli si fa interprete del cumulo di sofferenze e ingiustizie che mettono in crisi l'immagine tradizionale di Dio: le catastrofi e le ingiustizie si abbattano sugli innocenti e Dio non fa nulla (Gb 9,22-24); i poveri sono oppressi e sfruttati nelle campagne e nelle città e Dio non risponde alle loro preghiere (Gb 24,1-12).

    4. Gli amici di Giobbe difendono Dio

    Il clima nel quale si svolge il dialogo tra Giobbe e i tre amici è l’incomunicabilità. I tre amici partono dai principi, Giobbe si appella all’esperienza. Secondo il principio della retribuzione, fonda sullo schema di alleanza, Dio premia i buoni e castiga i malvagi. Questo principio sta alla base delle risposte degli amici a Giobbe. Essi affermano che Dio è giusto perché punisce gli empi e premia i giusti. Il caso di Giobbe rientra in questo schema perché è punito da Dio. Secondo questa logica è sempre possibile una certa contrattazione dell'uomo con Dio: se l'uomo è giusto, sarà felice; se ha peccato è punito da Dio, perché riconosca il suo peccato e ritorni a lui per essere reintegrato nella condizione di felicità (Gb 22,1-5.23-30).

    5. Il lamento e la preghiera di Giobbe

    Giobbe parte dalla sua esperienza per mettere in discussione il sistema teorico degli amici. Egli prima ammette che l'essere umano davanti a Dio è radicalmente “limitato”. Questo fatto non può giustificare la tesi degli amici, ma è una ragione in più per rinnovare la fiducia in Dio e celebrarne la misericordia e l’azione salvifica. La risposta di Giobbe agli interventi dei tre amici ha un movimento pendolare: va dal dubbio, alla fede salda, dalla rivolta al grido di fiducia, dalla reazione aggressiva al ricordo commovente della sua relazione con Dio. L’alternanza di stati d'animo rivelano la partecipazione umana intensa di Giobbe, unita alla sua fede solida che, nonostante tutto, sta dalla parte di Dio. Giobbe può permettersi l'avventura della speranza perché gioca tutto nella sua relazione di fede con Dio.
    Mentre gli amici di Giobbe “parlano di Dio”, Giobbe “parla a Dio”. Egli può interrogare Dio, denunciare davanti a lui l'ambivalenza dell'umano soffrire; può dialogare con Dio perché è disposto a mettersi radicalmente in discussione davanti a lui. I tre amici sono incapaci di dialogare sia con Giobbe sia con Dio. Giobbe affronta direttamente Dio, perché, nonostante che sia convinto come i tre amici dell'indegnità radicale dell'essere umano, tuttavia è cosciente di avere una relazione vitale con Dio. Egli chiede conto a Dio del suo modo di agire. Può l'uomo essere “giusto” quando interpella Dio e vuole avere una riposta?
    La reazione di Giobbe di fronte a Dio passa dalla “lamentazione” alla supplica e invocazione, sul modello letterario dei Salmi. Giobbe si lamenta di Dio, perché è un violento aggressore (Gb 6,4; 16,7-9.12-14), ed è impossibile discutere con lui (Gb 9,15-35). Giobbe mette in discussione la bontà di Dio (Gb 7,7-21), perché non tiene conto della condizione precaria dell'essere umano. Ne contesta la santità, perché Dio non dà tregua all'essere umano fragile ed esposto alla morte (Gb 13,20-14,22); Giobbe contesta la sapienza di Dio, perché egli distrugge con le sue mani quello che ha creato con tanta cura (Gb 10,1-2); ne contesta la giustizia, perché non interviene per difendere gli oppressi (Gb 24,1-12).

    6. La speranza di Giobbe

    In alcuni sprazzi di fiducia, che illuminano la “lamentazione” di Giobbe davanti a Dio, si intravede la sua speranza. Giobbe sa che la via verso la morte è senza ritorno. Perciò la sua speranza è legata alla relazione con Dio così viva e tenace che neppure la morte può spezzare. Egli immagina che Dio, dopo la sua scomparsa, lo vada a cercare. Purché resti aperta questa relazione con Dio, Giobbe è disposto anche a nascondersi nello šeôl (abisso della morte), finché sia passata la collera di Dio e possa riprendere il dialogo con lui ( Gb 14,13-17).
    In tre testi del secondo ciclo di dialoghi la “speranza” di Giobbe nel Dio vivente e fedele diventa più chiara ed esplicita. Giobbe afferma che Dio è il suo “testimone”(Gb 16,18-22), è la sua caparra (Gb 17,3), il suo redentore o riscattatore, in ebraico go’èl (Gb 19,25-27). Giobbe vuole avere un nuovo rapporto diretto con Dio “prima della sua morte” per poter esporre la sua causa. Nel suo grido di speranza Giobbe è certo che Dio è l'unico “amico” riscattatore, che può prendere la sua difesa e alla fine liberarlo.

    7. La riposta di Dio

    La speranza di Giobbe si fonda sulla fedeltà del Dio vivente, che sta alla base di tutta la tradizione biblica. Giobbe chiede a Dio che esca dal suo silenzio per rispondergli. Dio alla fine si “manifesta” a Giobbe e gli risponde “di mezzo al turbine”, cioè nel contesto di una teofania (Gb 38,1-40,2; 40,6-41,26). Per mezzo dell'incontro con Dio, Giobbe è condotto alla giusta relazione con lui. Egli ha avuto il torto di mettere Dio sotto processo e considerarlo la “causa” del suo male. Egli ha preteso che Dio desse una risposta alla sua domanda: “Perché dare la vita ad un infelice?”. Tuttavia Giobbe ha fatto bene ad appellarsi a Dio, anche nei momenti più disperati. Alla fine Dio gli risponde, facendogli contemplare la sua azione creatrice potente e gratuita.
    Giobbe riconosce e accoglie la sovrana libertà di Dio creatore. Nello stesso tempo riconosce il suo limite di creatura. Dentro l'orizzonte della libertà, originaria e fondante di Dio, anche l'essere umano trova la sua libertà di entrare in relazione dialogica con lui.


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