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    Educare all'intercultura: L’essenziale è visibile agli occhi



    Per una pedagogia dell’essenzialità

    Roberto Radice

    (NPG 2010-04-75)

    «Senza essere stato chiamato sei venuto;
    senza esserti saziato sei partito:

    hai sbagliato due volte» (proverbio etiope) [1]

    Agosto 2009. A Korogocho la situazione, negli ultimi giorni, si era fatta alquanto problematica. Non che normalmente non lo sia, ma le scorte di acqua nelle taniche stavano per esaurirsi e oramai erano quattro giorni che dal rubinetto della baracca dei padri Comboniani a Koch non scendeva nemmeno una goccia del prezioso liquido essenziale alla vita. E se l’acqua è la vita, dove non vi è acqua la vita è oltremodo miserabile.
    L’energia elettrica erano già tre mesi che veniva razionata, o meglio veniva concessa per un misero numero di ore al popolo della baraccopoli. Le persone ogni mattina scrutavano, con desiderio, il cielo in attesa delle provvidenziali piogge che, oltre ad abbeverare le bocche arse, avrebbero anche dissetato gli occhi prosciugati dalle polveri e dai fumi neri e mortali della discarica di Dandora, che in periodi di siccità diviene un inesauribile generatore di diossina. Le infezioni alle vie respiratorie colpiscono centinaia di persone al giorno, tanto che al dispensario di Kariobangi la coda dei malati in attesa è continuamente scossa da secchi colpi di tosse – come un grande corpo in agonia che dà gli ultimi sussulti di vita. I prezzi del cibo sono aumentati a dismisura tanto che è raro riuscire a trovare un chilo di farina per l’ugali ­– la polenta locale – a meno di 90 scellini (90 centesimi di euro) e, in mancanza di soldi per la sussistenza quotidiana, si ritarda il più possibile la richiesta di cure e medicinali, con la conseguenza che si arriva al dispensario in condizioni cliniche assai critiche, come se per i poveri la salute fosse un qualcosa di accessorio, di superfluo agli occhi del nostro mondo medicalizzato.
    Se a questo si aggiunge la pesante insicurezza che ciclicamente si genera, in maniera del tutto improvvisa, nello slum, e che in quei giorni era controllata da una banda di giovani ladri che derubavano e agivano con violenza alla piena luce del giorno, si può ben comprendere come il gruppo di wazungu avesse le sue inevitabili fatiche per affrontare la lunga giornata nello slum.
    Ma il gruppo di cinque ragazzi italiani e di due preti diocesani, provenienti dalla terra natia di s. Daniele Comboni, era pronto. Avremmo lasciato per alcuni giorni la città globale di Nairobi per essere ospitati nella parrocchia di Roret, a Kericho. Ci attendevano cinque ore di bus, ma gli spostamenti in Africa, si sa, non viaggiano su tabelle orarie predefinite bensì sull’african time che fa in modo che non siano le persone in ritardo, piuttosto è il tempo che arriva in anticipo.
    Attendevamo solamente Kevin, un caro amico di Koch e vicino di baracca dei padri Comboniani, il nostro angelo custode che nonostante i suoi genuini diciotto anni incarna tutta la vivace maturità e la fiera autonomia dei giovani africani capaci di cavarsela in ogni situazione. Anche lui non era mai stato a Kericho, la zona delle sconfinate piantagioni di tè a nord-ovest di Nairobi, e anche i suoi polmoni si sarebbero disintossicati con la fresca aria delle verdeggianti colline solcate da limpidi ruscelli.
    Kevin si presentò con un piccolo zaino. Uno di quegli zainetti dove, nella nostra concezione ingombrante di bagaglio, riusciremmo a porre a malapena un paio di scarpe.
    Subito il mio sguardo corse a incrociare quello di padre Paolo e ai bagagli da noi preparati: voluminosi zaini da montagna che durante il viaggio avrebbero sicuramente accentuato il nostro essere bianchi. Dallo sguardo al pensiero il passaggio fu pressoché istantaneo: l’essenziale è visibile agli occhi, chiosando la famosa frase di Antoine De Saint-Exupéry.
    Più volte, nei giorni precedenti, padre Paolo nell’accompagnarci a vivere l’esperienza di vita in baraccopoli ci aveva richiamato all’opportunità di ricercare l’essenzialità. In quanto missionario inserito in una realtà di povertà estrema, la sua presenza e la sua ricerca di uomo e di prete è anche quella di vivere di poco, di ciò che è appunto essenziale.

    Le cianfrusaglie che appesantiscono

    L’essenzialità – prima ancora di essere una dimensione morale, un credo evangelico – è uno stile di vita concreto e quegli zaini straripanti erano l’immagine materiale, l’icona accusatoria, di quanto fossimo incapaci di rinunciare, anche se solo per pochi giorni, al superfluo. Nel preparare i bagagli per un viaggio, nel fare acquisti al supermercato, nell’arredare un’abitazione, nel sederci a tavola, nell’insegnare a scuola, il processo logico che guida le nostre menti eccedenti è la quantità, che deve riempire tutto lo spazio a disposizione e anche oltre se possibile. Siamo intelligenze e corpi appesantiti, ingombranti, impacciati per le troppe cose che trasportiamo. La vita è qualitativa mentre il nostro stile di vita e di pensiero è ormai traslato, quasi totalmente, verso lo scosceso versante quantitativo. L’aver dato dominio incontrastato alla quantità eccedente all’interno dell’esistenza individuale ha avuto ripercussioni dirette, ma spesso inconsapevoli per la persona stessa, anche a livello di socialità e relazioni umane: la logica del produrre e consumare ha prodotto un soggetto bulimico e anestetizzato nei confronti dell’alterità. Si consumano prodotti come si consumano relazioni, si accumulano cianfrusaglie come si accumulano esperienze, si creano progetti umanitari ed educativi come si crea la povertà e il disagio.
    Antropologicamente siamo così lontani dal cuore delle cose, dal cuore dell’umano.
    A livello mondiale la popolazione urbana ha superato la popolazione rurale, in quanto Homo urbanus il nostro gozzovigliare di quantità, contrassegnate dal segno positivo inteso come sovrappiù, crea le condizioni perché altre persone sopravvivano di quantità, queste ultime però di segno negativo. Se qualcuno mangia troppo da qualche parte finiranno pure gli scarti. La discarica di Dandora è l’altra immagine di denuncia, senza possibilità di difesa, che pende come un capo d’accusa sulle nostre teste e sulle nostre pance.
    Infatti «lo slum è la deiezione puzzolente della città. […] I suoi pochi volumi si riempiono di assenza: i senza casa, i senza riparo, i senza soldi, i senza sicurezza, i senza salute, i senza speranza. […] Lo slum, l’habitat dei miseri per eccellenza, è definito ufficialmente per le sue carenze e non per la sua essenza».[2]
    Incapaci di approdare all’essenzialità siamo, di conseguenza, invalidi nell’afferrare l’essenza della realtà.
    Quanta gente, quanti gruppi di bianchi hanno invaso Nairobi durante l’estate appena trascorsa. Gruppi che passavano dal safari nel parco naturale alla passeggiata in una delle tante baraccopoli.
    Korogocho era una delle più visitate, insieme all’immensa Kibera, poiché lo scenario della discarica è una foto che non deve mancare nel reportage da mostrare al rientro. Due esempi significativi, che mi hanno scosso e disturbato, possono chiarire questa riflessione che vuole rispettare la sensibilità di chi a Nairobi e a Korogocho è stato, ma anche indurre un’ulteriore considerazione personale.
    Un cooperante di una nota associazione italiana, ormai da quasi un anno in Kenya, in qualità di accompagnatore di un gruppo di ragazzi, al termine di una chiacchierata al centro di St. John in Korogocho mi chiede: «In quale punto posso portare il gruppo per scattare una bella foto della discarica?». Ammetto che mi è mancato il fiato nel rispondere, ma non a causa dei fumi imponenti della discarica antistante. Davvero tale domanda mandava in fumo il senso dell’essere a Korogocho per quei ragazzi. Se il progetto di spostamento della discarica venisse un giorno attuato e realizzato – e speriamo con convinzione che questo giorno arrivi presto – ci sarebbe ancora tutto questo interesse nel visitare l’insediamento informale di Koch?
    Il secondo esempio vede sempre un piccolo gruppo di italiani incontrati qualche giorno prima, sempre a Korogocho, e poi rivisti per le strade di Nairobi. Ci chiesero dove stavamo andando. Risposi che eravamo di passaggio a Nairobi perché dovevamo cambiare matatu (il mezzo di trasporto locale) per recarci a Kibera a trovare un amico. Alla mia risposta, un signore del gruppo di età decisamente matura ribatte: «Anche noi l’abbiamo fatta!». «Fatta cosa?» è stato il mio impulsivo pensiero silenzioso. Certo, fatta come si fa la gabbia delle scimmiette e poi quella dei leoni allo zoo.

    Esperienze su cui riflettere

    Ritengo che sia assai importante una riflessione profonda sul senso educativo ed etico rispetto all’esperienza dei campi estivi in realtà del Sud del Mondo. Una riflessione che deve essere compiuta da parte delle associazioni, delle ONG e dai gruppi più disparati che organizzano tali attività – per non parlare poi delle associazioni che organizzano vere e proprie visite guidate a pagamento nelle baraccopoli.
    Questi incontri tra culture, stili di vita e società umane così differenti non hanno carattere di intercultura solo perché avvengono. Noi spesso partiamo senza essere stati chiamati, ma qual è il senso del nostro partire? Una volta giunti in Africa, in Sud America o in Asia, il nostro rapportarci con l’Altro è ricercare il senso dell’incontrarsi o si banalizza su un anomalo vedere, scattare foto, collezionare oggettistica locale? Che senso può rivestire per le persone di Korogocho osservare un gruppo di dieci, dodici musi bianchi che si aggirano per la baraccopoli come nuvole che «vanno, vengono e qualche volta si fermano»? Proseguendo con la citazione del cantautore genovese – Fabrizio De André – che ha saputo cantare vite e volti di persone comuni come solo pochi hanno saputo fare, il rischio è che questa nuvole bianche «vanno, vengono, per una vera mille sono finte e si mettono tra noi e il cielo per lasciarci soltanto una voglia di pioggia».
    Trascorrere un paio di ore a Korogocho, attraversare Kibera all’interno di un matatu non permette di cogliere il senso essenziale di questi luoghi e delle persone che li abitano, che li rendono vivi e vitali. Non è nemmeno un incontro interculturale, poiché la strada è percorsa a senso unico: noi entriamo, vediamo e usciamo.
    Luogo privilegiato nel cogliere l’essenzialità dell’incontro con gli abitanti di uno slum – ma anche di un villaggio – diviene la tavola. Tavola proprio come mangiare insieme, con-dividere un pasto, e in Africa non si mangia mai in solitudine. Inoltre tavola che per chi è credente si sublima nel corpo e nel sangue del celebrare l’Eucaristia e la messa in baracca a Korogocho, rito serale e di conclusione di ogni giornata, diviene davvero luogo e attimo di epifania.
    «Epifania della tavola: lì la cultura spicca il volo, il mangiare diventa convivio, l’occasione quotidiana di comunicazione e comunione».[3] Quale gioia e sentimento di fraternità smuove nell’invitato la generosa ospitalità africana: accolti in una misera baracca – con l’odore intenso del fornello a kerosene – un pasto umile, frugale preparato con elementi naturali e tradizionali, con straordinaria maestria, fa sentire l’ospite come se fosse invitato a un banchetto nuziale, come se fosse la persona più importante al convito della creazione.
    «Il cibo cucinato e condiviso – il pasto – è allora luogo di comunione, di incontro e di amicizia: se infatti mangiare significa conservare e incrementare la vita, preparare da mangiare per un altro significa testimoniargli il nostro desiderio che egli viva, e condividere la mensa testimonia la volontà di unire la propria vita a quella del commensale. Sì, perché nella preparazione, nella condivisione e nell’assunzione del cibo si celebra il mistero della vita, e chi ne è cosciente sa scorgere nel cibo approntato sulla tavola il culmine di una serie di atti di amore compiuti da parte di chi il cibo lo ha cucinato e offerto come dono all’amico».[4]
    Dove vi è mancanza di cibo la vita è disumana, poiché oltre a mancare il nutrimento essenziale per l’organismo manca anche la possibilità di imparare, di raccontarsi, di ascoltarsi, di umanizzarsi: di essere felici gli uni con gli altri. Tavola come luogo dove ritrovare l’essenzialità dello stare insieme in una società dove il cibo si è trasformato in mero carburante da consumare senza ritualità a qualsiasi ora e quasi sempre in piedi, in fretta.
    I nostri avanzi, i nostri sprechi, i nostri rifiuti ammazzano gli Impoveriti due volte, e la tavola da luogo privilegiato di vita diviene putrido sepolcro: chi non muore per il cibo putrefatto che raccoglie in discarica morirà per i fumi veleniferi che soffocheranno i polmoni.
    L’essenzialità della tavola africana insegna anche a mangiare solo quando si ha fame e ad alzarsi da tavola con ancora un po’ di fame. Altro momento sostanziale e intriso nella dimensione della tavola, come quando si fa la puccia con un tozzo di pane o di chapati per gustare il meglio rimasto nel piatto, è il dialogo che si instaura tra i commensali: «la nostra fame non è solo di pane ma anche di parole che escono dalla bocca dell’altro: abbiamo bisogno che il pane venga da noi spezzato e offerto a un altro, che un altro ci offra a sua volta il pane, che insieme possiamo consumarlo e gioire, abbiamo soprattutto bisogno che un Altro ci dica che vuole che noi viviamo».[5] Sempre Kevin, sotto il cielo stellato e trasparente di Kericho, mi racconta come per lui il momento più bello della giornata sia la cena, quando con la madre, la sorella e i fratelli si ritrovano per condividere un poco di cibo e per raccontarsi e ascoltare, fino a tarda sera, le storie accadute durante il giorno tra le vite sempre in cammino della baraccopoli.

    Spezzare il pane insieme

    Le strade a Korogocho si stanno allargando, l’orizzonte sta divenendo più ampio e lo sguardo sembra voler andare oltre la polvere acida che sfuoca la visione di un cambiamento. Le persone della baraccopoli non hanno pensato a cosa potevano aggiungere a un luogo già colmo per migliorare la loro realtà di vita bensì, con ordine e attenzione, hanno iniziato a demolire le baracche. Non c’è alcun segno di distruzione – si coglie invece un senso di pulizia e ristrutturazione – e l’upgrading dello slum (il programma governativo di miglioramento) sta prendendo forma proprio grazie all’essenzialità di questi abitanti informali che badano non ad accumulare ma a ciò che è essenziale.
    Spezzare il pane è uno dei gesti più forti e delicati di giustizia, vuole dire l’urgenza di uscire dalla durezza di un sistema che non riconosce l’uomo se non come momento della produzione e del consumo. «Chi mangia il pane con un altro non condivide solo lo sfamarsi, ma inizia con il condividere la fame, il desiderio di mangiare, che è anche il primo impulso dell’essere umano verso la felicità».[6] Solo in quell’istante la nostra pancia avvertirà un delicato senso di fame, e il nostro zaino conterrà ciò che è essenziale e non tutto ciò che può starci. Saremo davvero pronti e sarà una conviviale mensa imbandita per tutti, ma «voglia che il nostro oggi sia il giorno prima della felicità».[7]

    NOTE

    [1] Alberto Salza, Niente. Come si vive quando manca tutto. Antropologia della povertà estrema, Sperling & Kupfer, Cles (TN) 2009, p. 12.
    [2] Ivi, p. 82.
    [3] Enzo Bianchi, Il pane di ieri, Einaudi, Torino 2008, p. 34.
    [4] Ivi, p. 36.
    [5] Ivi, p. 44.
    [6] Ibidem.
    [7] Erri De Luca, Il giorno prima della felicità, Feltrinelli, Milano 2009, p. 36.


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