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    Dalla sofferenza alla lucida spiritualità


    Il coraggio dell’aurora /4

    Un percorso di spiritualità per i giovani sulle tracce di Etty Hillesum

    Fabiola Falappa

    (NPG 2013-04-57)


    Non solo l’azione, ma anche la sofferenza è una via verso la libertà.
    La liberazione nella sofferenza
    consiste in questo,
    che all’uomo è possibile rinunciare
    totalmente a tenere
    la propria causa nelle proprie mani,
    e riporla in quelle di Dio.
    (Dietrich Bonhoeffer) [1]

    Avere il coraggio di guardare in faccia ogni dolore

    Nella precedente riflessione del cammino che abbiamo intrapreso, guidati dalla spiritualità di Etty Hillesum, mi è sembrato di individuare nel suo «sentire», non solo la forza del credere né solamente uno dei tratti fondamentali dell’esistere, ma il motore stesso dell’azione. La ricchezza che deriva dal «sentirsi liberi» va intravista nella capacità, che è nel contempo dono, di non lasciare che oppressioni e vincoli esterni ci rendano schiavi interiormente, in modo passivo. Non permettere a niente e nessuno di farci «sentire» perseguitati e oppressi è il primo passo per sentirsi ed essere realmente liberi interiormente. Ripartiamo da questo radicale cambio di prospettiva, sperimentato da Etty nella sua stessa vita, per compiere, con lei, un passo ulteriore: credere che anche nella sofferenza, ascoltando la voce della inesauribile libertà, ci è dato di sperimentare un’apertura originaria verso Dio e verso il prossimo.
    Tale apertura si declina, nel corso dei suoi scritti, sempre più come responsabilità: «devo far buon uso di tutto il tempo che ho a disposizione e che non è consumato dalle preoccupazioni quotidiane, devo sfruttarlo minuto per minuto, è una responsabilità pesante».[2] In lei è viva, innanzitutto, la responsabilità verso la vita, si sente continuamente responsabile del cercare di mantenere inalterato «quel grande e bel sentimento della vita» che custodisce gelosamente in lei, anche nei periodi segnati dal dolore più atroce. Così si impegna a mantenerlo intatto, con tutte le sue forze, oltre ogni dolore e difficoltà che incontra nella sua esistenza, anche nel tragico momento storico nel quale vive e vuole conservarlo immutato per poterlo trasmettere «a un tempo migliore».[3] Ed è da questo desiderio di tramandare alle generazioni future il valore e il senso dell’esistenza che affiora il suo sentirsi responsabile verso il prossimo, verso chi verrà dopo di lei. Ancor prima che nel pensare, centrale è infatti sempre stato il suo impegno ad essere persona responsabile, capace cioè di rispondere agli eventi con la forza dell’interezza dell’anima, senza farsi travolgere da essi, anche nella tragicità dello scenario storico.
    La responsabilità che Etty incarna è innanzitutto, allora, quella di testimoniare che la vita ha senso e valore in e nonostante ogni dolore. Anziché reagire con violenza, rabbia e rivolta, invece di regredire e chiudersi in sé e nella propria sofferenza individuale, piuttosto che arrendersi nella disperazione questa giovane testimone ci racconta che di fronte a persone disperate per la fame e l’angoscia imparò a reagire in un modo sorprendentemente luminoso: «rimanevo lì e c’ero, si poteva far altro? A volte mi sedevo vicino a qualcuno, passavo un braccio intorno a una spalla, non dicevo molto e guardavo le persone in faccia. Nulla mi era nuovo, non una di quelle espressioni di dolore umano. Tutto mi pareva così familiare, come se sapessi e avessi già vissuto ogni cosa».[4] Ma come riuscire a resistere e reagire in questo modo ai colpi avversi? Sicuramente la risposta va cercata in un atteggiamento che ci insegna «a guardare in faccia ogni dolore con coraggio», in un gesto che non va di certo immaginato come il frutto di una facile spontaneità né tantomeno come un’immediatezza che basta volere. Esso ha a che fare con il coraggio di chi ha compreso appieno ciò per cui vale la pena vivere. Per questo più volte nelle pagine del suo Diario ritorna il versetto di Matteo 6, 34: «non siate dunque inquieti per il domani; perché il domani avrà le sue inquietudini; a ciascun giorno basta la sua pena» e tali parole la convincono che preoccuparsi, in modo smisurato, per il futuro finisce per divorare le personali forze creative e fiaccare le possibilità che ci sono state donate per sviluppare i nostri talenti.
    Il compito della persona è allora quello di «dissodare in noi stessi vaste aree di tranquillità, di sempre maggior tranquillità, fintanto che si sia in grado d’irraggiarla anche sugli altri. E più pace c’è nelle persone, più pace ci sarà in questo mondo agitato». Dalla pace del cuore che inevitabilmente trapela dai nostri volti, con coraggio e pur memori della fatica che ciò comporta, dipende l’estensione di una pacificazione del mondo intero. Qui appare allo stesso tempo la grandezza iscritta in ciascun essere vivente e il ruolo fondamentale che ci è affidato: le parole della nostra risposta agli appelli della vita e degli altri, non possono rimanere puri atti linguistici ma, per essere efficaci, devono poter trasformare la realtà stessa, in virtù del nostro operare. Nel rendere le risposte azioni concrete, generate dalla pace interiore libera da ogni accecamento, vi è il passaggio da una responsabilità pensata ad una autenticamente agita.

    La responsabilità di aiutare Dio

    Il confronto con Etty Hillesum arriva ora ad una svolta decisiva. Il suo pensiero, trattando della responsabilità, giunge ad esiti inaspettati e felicemente sorprendenti perché con ferma sicurezza e smisurata semplicità risponde e supera un interrogativo assai comune in tanti giovani, e non solo: di fronte a tanto soffrire, dinanzi al male, dov’è Dio?
    «Dio non è responsabile verso di noi, siamo noi a esserlo verso di Lui. So quel che ci può accadere. Adesso io sono separata dai miei genitori e non li posso raggiungere, anche se si trovano a due ore di viaggio da qui: ma so esattamente in che casa abitano, so che non patiscono la fame e che sono circondati da molte persone ben disposte verso di loro. E anche loro sanno dove sto io. Ma potrà venire un tempo in cui non saprò più niente, e i miei genitori saranno deportati e moriranno miseramente, chissà dove: so che può succedere. Le ultime notizie dicono che tutti gli ebrei saranno deportati dall’Olanda in Polonia, passando per il Drenthe. (...) Se rimarremo vivi, queste saranno altrettante ferite che dovremo portarci dentro per sempre. Eppure non riesco a trovare assurda la vita. E Dio non è nemmeno responsabile verso di noi per le assurdità che noi stessi commettiamo: i responsabili siamo noi! Sono già morta mille volte in mille campi di concentramento. So tutto quanto e non mi preoccupo più per le notizie future: in un modo o nell’altro, so già tutto. Eppure trovo questa vita bella e ricca di significato. Ogni minuto».[5]
    Il cambiamento di prospettiva è caratterizzato da una semplicità tutt’altro che banale e realmente radicale: comprendere con lucidità (il desiderio di Etty di mostrarsi consapevole e lucida rispetto ai fatti che sarebbero potuti accadere di lì a poco è reso evidente dall’anafora del verbo sapere) che le ferite che ci addolorano, e perfino ci uccidono, non sono mai inflitte a causa del volere di Dio, ma sono il risultato della follia e della irresponsabilità umana, le permette di affermare con certezza che la vita non perde mai il suo valore e senso. Perché è sufficiente coglierla in un orizzonte più ampio di possibile guarigione, di possibile conversione del male umano, di possibile rinascita dall’assurdità alla sensatezza.
    «Sono pronta a tutto, a ogni luogo di questa terra nel quale Dio mi manderà, sono pronta in ogni situazione e nella morte a testimoniare che questa vita è bella e piena di significato, e che non è colpa di Dio, ma nostra, se le cose sono così come sono, ora. Abbiamo ricevuto in noi tutte le possibilità per sviluppare i nostri talenti, dovremo ancora imparare a far buon uso di queste nostre possibilità».[6]
    Ecco allora il problema apparentemente insuperabile: seppure ciascuno di noi incarna infinite possibilità di migliorarsi e di migliorare, per diffusione, il «mondo agitato», caotico e perfino assurdo, il fatto di non saperne fare buon uso compromette la pace comunitaria. Ho scritto che tale problematicità è «apparentemente insuperabile» perché la viva fiducia e la speranza, caratterizzanti l’intero pensiero e operare di Etty, si manifestano in modo emblematico, a mio avviso, nel suo scrivere «se le cose sono così come sono, ora». Intendo dire che traspare qui la sua fede, il suo essere certa che la condizione di dolore e la sofferenza causata dall’insensatezza umana, non possono riuscire a scalfire il valore e la ricchezza della vita considerata nella sua totalità, nel suo progredire verso un futuro, che va responsabilmente preparato fin d’ora, e che rispecchierà la pace interiore saldamente costruita. Ed è a partire da questa certezza che arriva a scrivere:
    «non ho neppure paura, non so, mi sento così tranquilla, (...). Mi sento in grado di sopportare il pezzo di storia che stiamo vivendo, senza soccombere. So tutto quel che capita e la mia testa rimane lucida. (...). Una volta che si comincia a camminare con Dio, si continua semplicemente a camminare e la vita diventa un’unica, lunga passeggiata. Com’è singolare tutto ciò».[7]

    Una risposta «singolare»

    Immagino che ogni lettore e lettrice rimanga fortemente colpito da queste righe e consideri la risposta di Etty come minimo «singolare», piuttosto oserei dire davvero sorprendente, perché è molto più automatico e semplice arrendersi, lasciare che la nostra speranza venga soffocata dal dolore dell’esistenza, che impegnarsi non solo a resistere quanto a re-agire, ricordando il senso che illumina la vita nonostante la sofferenza umana. Ma come è possibile far propria e acquisire come un’abitudine questa lucidità? Comprendendo che qui non è in atto solamente una lucidità della mente, ma soprattutto una lucidità che scaturisce dal cuore, da un cuore che ha incontrato Dio e l’ha sperimentato come Padre e Madre amorevole, che non si rassegna al male del mondo e che invece ci spinge a pensare, a vedere, a sentire e ad agire in modo responsabilmente «singolare».
    Ritengo sia importante specificare che con l’aggettivo «singolare» mi riferisco ad una duplice accezione. La prima ha a che fare con l’agire personale, perché l’azione che ciascuno di noi può e deve compiere è differente dall’azione di ciascun altro e non va dimenticato che il mio compito non può essere adempiuto da nessun altro se non da me stesso; il secondo significato rimanda invece al reagire in modo straordinario, sorprendente, inatteso e nuovo. Tanto sorprendente almeno quanto lo è la nostra unicità. La meta verso cui tendere sarà allora quella di far convergere le azioni responsabili del «singolo», e che rispecchiano la straordinaria unicità personale di ogni essere umano, con quelle di ogni altro, perché sia realizzabile il cambiamento radicale: solo se il nostro reagire alla sofferenza si unisce di concerto alla reazione singolare di tanti altri, vi sarà vera metanoia comunitaria.
    Riconoscere Dio come il compagno di passeggiata, lunga una vita, e non il colpevole spinge Etty a ripetere più volte che il suo compito, ancor prima del suo essere responsabile verso ogni altro, è quello di «aiutare Dio».
    «Una cosa diventa sempre più evidente per me, e cioè che Tu non puoi aiutare noi, ma che siamo noi a dover aiutare Te, e in questo modo aiutiamo noi stessi. L’unica cosa che possiamo salvare di questi tempi, e anche l’unica che veramente conti, è un piccolo pezzo di Te in noi stessi, mio Dio. E forse possiamo anche contribuire a disseppellirTi dai cuori devastati di altri uomini. Sì, mio Dio, sembra che Tu non possa far molto per modificare le circostanze attuali ma anch’esse fanno parte di questa vita. Io non chiamo in causa la Tua responsabilità, più tardi sarai Tu a dichiarare responsabili noi. E quasi a ogni battito del mio cuore, cresce la mia certezza: Tu non puoi aiutarci, ma tocca a noi aiutare Te, difendere fino all’ultimo la Tua casa in noi».[8]
    Salvare Dio in noi aiuta Lui nella misura in cui aiuta anche a salvare noi stessi, perché non ci permette di soffocare sotto il peso della disperazione, ma ci fa continuare a respirare nel desiderio della felicità. Tale atteggiamento trasparirà dalle nostre azioni e aiuterà a disseppellire lo stesso desiderio di pienezza, innato in ciascun essere umano, da chi ci è vicino. Di questo saremo, e fin d’ora siamo, responsabili di fronte a Dio, «più tardi» di questo Egli ci chiederà risposta: della luce che avremmo potuto diffondere e che, invece, non abbiamo osato spandere, poiché magari abbiamo preferito custodirla egoisticamente in noi o perché c’è mancato il coraggio di testimoniare il valore di quella Luce, in un periodo in cui sembra più semplice credere al buio assoluto.
    In conclusione, vorrei accennare al fatto che nelle primissime pagine del suo Diario la maggior parte delle questioni e riflessioni di Etty riguardano il suo mondo interiore, le sue preoccupazioni, i suoi ostacoli alla felicità e il suo bisogno di essere aiutata, ma in modo «singolare», pian piano, ogni problema solo personale viene trascurato, fino a venir dimenticato, per lasciare il posto al sentirsi costantemente responsabile di fronte a Dio della felicità di ogni altro. Questa grandezza d’animo è sintetizzata nell’ultima frase che chiude il suo XI quaderno, l’ultimo da lei scritto: «si vorrebbe essere un balsamo per molte ferite».[9] In questo senso, se non ci mancherà il desiderio di responsabilità e il coraggio allora, dopo essere rientrati in noi stessi, nel cuore della nostra vera realtà di persone (visto che disperazione ed egoismo ci spingono piuttosto a vivere in un delirio, fuori di noi), potremo contribuire ad alleviare ogni dolore, segno già di un nuovo inizio, di una rinascita reale. E l’essenza del «balsamo» non sarà molto differente da quanto raffigura Luigi Pintor in questa bellissima immagine: «non c’è in un’intera vita cosa più importante da fare che chinarsi perché un altro, cingendoti il collo, possa rialzarsi».[10]


    NOTE

    [1] D. Bonhoeffer, Resistenza e resa. Lettere e scritti dal carcere, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo 1996, p. 453.
    [2] E. Hillesum, Diario 1941-1942. Edizione integrale, Adelphi, Milano 2013 (II ed.), p. 633.
    [3] Ibidem, p. 726.
    [4] Ibidem, pp.791-792.
    [5] Ibidem, pp. 667-668. Il corsivo è stato da me inserito.
    [6] Ibidem, p. 702.
    [7] Ibidem, p. 717.
    [8] Ibidem, p. 713.
    [9] Ibidem, p. 797.
    [10] L. Pintor, Servabo. Memoria di fine secolo, Bollati Boringhieri, Torino 1991, p. 85.


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