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    Liberi di amare


    Il coraggio dell’aurora /3

    Un percorso di spiritualità per i giovani sulle tracce di Etty Hillesum

    Fabiola Falappa

    (NPG 2013-03-68)


    Noi che siamo stati nei campi
    di concentramento
    ricordiamo gli uomini che andavano
    da una baracca all’altra confortando
    i compagni e regalando l’ultima
    crosta di pane.
    Forse non erano molti, ma bastavano
    a ricordarci che tutto si può portare
    via a un uomo tranne una cosa: l’ultima delle libertà umane, che è quella di decidere
    la propria linea di comportamento in qualunque circostanza e di seguire la propria strada.
    (Viktor Frankl) [1]

    La scelta di essere liberi

    Nella tappa precedente abbiamo detto dell’importanza dell’ascolto, del silenzio e della solitudine, come forze creatrici di uno spazio accogliente e in grado di sostenerci in un cammino di spiritualità che non sia «vacillante», ma che al contrario veda passo passo la nostra casa spirituale saldamente costruita sulla roccia (Mt 7, 24-27), proprio sull’esempio di Etty Hillesum. Lì eravamo chiamati a rinascere dall’ascolto interiore («ascoltarsi dentro») per rispondere all’appello in modo maturo e sensato. In queste righe vorrei introdurre il successivo pilastro fondamentale, a mio avviso, per poter rispondere non solo con la coerenza delle nostre parole, ma con l’intera nostra esistenza: l’esperienza della libertà.
    Dalla vita di questa giovane testimone non emerge una chiarificante deduzione teoretica e teologica sulla categoria di libertà, quanto piuttosto una incarnazione del senso profondo della libertà stessa. Voglio dire che pur nel progredire della fragilità esteriore della sua esistenza, della esposizione agli eventi, all’ignoranza e alla violenza altrui, fino ad arrivare alla inevitabile morte fisica, non ci fu creatura umana che riuscì ad uccidere la sua anima. Ecco incarnata allora la sua libertà tanto fragile quanto potente: la sua scelta di mantenere immutato il suo «sentirsi» innanzitutto libera, fino a scegliere di donare la propria vita nell’accettazione amorevole, consapevole, quotidiana e appassionata di essa. Per amore, e seguendo l’Amore, Etty giunge ad accogliere liberamente il suo destino, proprio mentre apparentemente, e sotto uno sguardo solamente superficiale, sembra subirlo per colpa di altri.
    Così si nota ben presto che libertà e anima possiedono la medesima irriducibilità, che non riguarda circostanze storiche o culturali avverse, poiché piuttosto entrambe sono il segno di una originarietà che rimanda tanto alla provenienza quanto alla destinazione dell’essere umano. Quando si è bloccati entro le coordinate di una visione dell’uomo statica, e che in più vorrebbe essere conclusiva, iniziamo a stilare un elenco di aggettivi relativi alle nostre caratteristiche tipiche e finiamo puntualmente per pensare la libertà alla stregua di una facoltà quasi fisiologica, di un nostro potere specifico che si esprime in prestazioni e in funzioni. Quando, al contrario, l’essere umano è interpretato in ciò che lo costituisce sullo sfondo di un orizzonte aperto e nel riguardo per il suo mistero di valore, allora la libertà non è più soltanto e innanzitutto una facoltà tra le altre, che si può quindi rischiare di perdere. La libertà, piuttosto, acquista il volto della persona, coincide con la sua stessa unicità, insieme personale e relazionale, appassionata e tendenzialmente amorevole. Così scrive Etty nelle prime pagine del suo Diario:
    «non ci si può mai ricordare abbastanza che dobbiamo renderci veramente liberi dagli altri, ma che insieme dobbiamo lasciarli liberi, evitando di farcene un’idea predeterminata nella nostra fantasia».[2]
    La nostra libertà è direttamente «legata», paradossalmente, alla libertà che siamo allora capaci di donare, pur consapevoli della problematicità che si sperimenta nel vivere ciò, soprattutto tra persone che si amano: «oh, lasciar completamente libera una persona che si ama, lasciarla del tutto libera di fare la sua vita, è la cosa più difficile che ci sia».[3] Pur nella difficoltà, accettare, da un lato, liberamente il proprio destino e, dall’altro, la libertà del prossimo sono le due chiavi per giungere ad una ricchezza interiore che non potrà mai essere scalfita. Riporto qui di seguito un celebre passo, piuttosto lungo ma per me davvero esplicativo, scritto durante le pesanti politiche di privazioni e razionamento che colpirono la vita civile degli ebrei anche in Olanda, che ci aiuta a comprendere la trasformazione dell’anima realizzata da Etty, verso una libertà incondizionata e «immune» da ogni vincolo.
    «Per umiliare qualcuno si dev’essere in due; colui che umilia, e colui che è umiliato e soprattutto: che si lascia umiliare. Se manca il secondo, e cioè se la parte passiva è immune da ogni umiliazione, questa evapora nell’aria. Restano solo delle disposizioni fastidiose che interferiscono nella vita di tutti i giorni, ma nessuna umiliazione e oppressione angosciose. Si deve insegnarlo agli ebrei. Stamattina pedalavo lungo lo Stadionkade e mi godevo l’ampio cielo ai margini della città, respiravo la fresca aria non razionata. Dappertutto c’erano cartelli che ci vietano le strade per la campagna. Ma sopra quell’unico pezzo di strada che ci rimane c’è pur sempre il cielo, tutto quanto. Non possono farci niente, non possono veramente farci niente. Possono renderci la vita un po’ spiacevole, possono privarci di qualche bene materiale o di un po’ di libertà di movimento, ma siamo noi stessi a privarci delle nostre forze migliori col nostro atteggiamento sbagliato: col nostro sentirci perseguitati, umiliati e oppressi, col nostro odio e con la nostra millanteria che maschera la paura. Certo che ogni tanto si può essere tristi e abbattuti per quel che ci fanno, è umano e comprensibile che sia così. E tuttavia: siamo soprattutto noi stessi a derubarci da soli. Trovo bella la vita, e mi sento libera. I cieli si stendono dentro di me come sopra di me. Credo in Dio e negli uomini, e oso dirlo senza falso pudore. La vita è difficile, ma non è grave. Dobbiamo cominciare a prendere sul serio il nostro lato serio, il resto verrà allora da sé: e “lavorare a se stessi” non è proprio una forma di individualismo malaticcio».[4]
    La nostra esistenza può dirsi oggi veramente libera solo se la nostra anima non si lascia passivamente sopraffare dalle costrizioni e dai vincoli che vengono dall’esterno, ovviamente non solo fisici ma in massimo grado psicologici, affettivi e interiori. Il nostro peggiore oppressore è ravvisabile quindi nella mancanza di forza re-attiva, nel «sentirsi» schiavi piuttosto che nel riconoscere che possiamo continuare a «sentirci» liberi malgrado ogni impedimento.

    La libertà di reagire all’odio

    Ma come può bastare il sentimento della libertà dinanzi alle sciagure peggiori, come mantenere vivo un «sentirsi liberi» anche quando siamo immobilizzati da catene invisibili? A questa domanda si può rispondere con tutta la sfiducia umana, mescolata alla convinzione per cui l’uomo è soprattutto colui che fa, crea, agisce, ma nel contempo si può anche imparare a rispondere ascoltando l’eccedenza che sovrasta e che rende insufficiente ogni risposta solo umana. Intendo dire che Etty ci insegna a non trascurare il «sentire», a credere nella sua forza e a interpretarlo come il tratto fondamentale del nostro esistere, il motore stesso dell’azione. Per fare questo occorre impegnarsi, senza ricadere in un «individualismo malaticcio», anzi da questo iniziale ripiegamento su di sé germoglierà la forza che si oppone, per eccellenza, ad ogni visione egocentrica e autocentrata: l’amore per ciascuna creatura, per chi ci è prossimo e per chi non lo è.
    «Una pace futura potrà essere veramente tale solo se prima sarà stata trovata da ognuno in se stesso – se ognuno si sarà liberato dall’odio contro il prossimo, di qualunque razza o popolo, se avrà superato quest’odio e l’avrà trasformato in qualcosa di diverso, forse alla lunga in amore, se non è chiedere troppo. È l’unica soluzione possibile. E così potrei continuare per pagine e pagine. Quel pezzetto di eternità che ci portiamo dentro può essere espresso in una parola come in dieci volumoni. Sono una persona felice e lodo questa vita, la lodo proprio, nell’anno del Signore 1942, l’ennesimo anno di guerra».[5]
    Ciò che allora ci rende liberi, anche quando ci troviamo nelle «guerre» più atroci, è la capacità non solo di superare, quasi come fosse una forma di caduta in un dimenticatoio generale e generico, ma di trasformare, grazie alla forza re-attiva dell’amore, ciascun elemento di divisione che si frappone tra noi e gli altri. In fondo non c’è testimonianza incarnata in modo più pregnante di chi giunge in piena libertà interiore a trasformare un sentimento negativo in positivo: un esempio tra tanti può essere quello del perdono; considerato come libera risposta al male ricevuto, come bene che riscatta la negatività della colpa e ristabilisce un nuovo ordine, dove l’altro è accolto e ascoltato, dove la sua colpa è trasformata in riconoscimento di valore, del suo valere molto più del male commesso.

    La forza della trasformazione

    Trasformare l’odio in amore non è certo un meccanismo naturale e immediato, affinché riusciamo ad acquisirlo e farlo diventare nostro occorre essere in grado di ricominciare sempre da noi stessi, «ogni giorno da capo». La prima barriera nella trasformazione del nostro io profondo ritengo sia, nel mondo attuale, quella che vede nella realtà solo una concatenazione di cause ed effetti, ma non vede mai la libertà umana in quanto potere di dare inizio a qualcosa di nuovo e di farlo con un’espressione positiva di se stessi. In uno scenario in cui tutto accade per necessità, non c’è posto per la libertà del dono; ogni aurora giunge perché naturalmente sussegue la notte e non si coglie con stupore il suo darsi gratuito e sorprendente.
    Così più che accettare e accogliere fino in fondo la propria esistenza, sulla scia della testimonianza di Etty Hillesum, impegnandosi a trasformare il proprio scenario interiore per dare poi un nuovo corso alla realtà, oggi «accettare» significa piuttosto adattarsi, nel modo più flessibile e astuto, alle leggi del sistema impersonale del mercato globale e del suo sovrano, il denaro. In realtà chi fa questo letteralmente si schiavizza, perché si nega la possibilità di ascoltarsi e di essere davvero se stesso, di sperimentare forme di esistenza e logiche diverse, di cercare e accogliere una felicità condivisa e di esprimere una libertà concreta. Quella libertà che per gli esseri umani è libertà dal male, dalla colpa, dalle situazioni di morte e da quell’egoismo che si rivela puntualmente una prigione per l’esistenza di chi gli si affida.
    La svolta prefigurata da Etty si attua, al contrario, se si ha la pazienza e il coraggio di partire da se stessi, assumendo i diritti umani degli altri come un proprio dovere, avendo cura del bene comune, trovando forme di rispettosa convivenza, passando dall’irresponsabilità alla corresponsabilità etica, economica, politica. E nella sua vita tutto questo significa innanzitutto scegliere, appunto, liberamente di non fuggire di fronte alle difficoltà, perfino a quelle più atroci, ma affrontarle, accogliendole con la certezza di chi sa di non poter perdere il tesoro più grande: la propria anima.
    Nel 1942, lavorando come dattilografa presso una sezione del Consiglio Ebraico, avrebbe infatti avuto la possibilità di salvare la sua vita e invece sceglie di non sottrarsi al destino del suo popolo e arriva al campo di sterminio con gli altri ebrei prigionieri.
    È sicura che l’unico modo per render giustizia alla vita è quello di non abbandonare altre persone in pericolo e di porre la propria forza interiore al servizio di altri, portando la propria luminosità al centro della disperazione più buia. Così scrive in una lettera del 3 luglio 1943 dal campo di Westerbork:
    «la miseria che c’è qui è veramente terribile – eppure, alla sera tardi, quando il giorno si è inabissato dietro di noi, mi capita spesso di camminare di buon passo lungo il filo spinato, e allora dal mio cuore s’innalza sempre una voce – non ci posso far niente, è così, è di una forza elementare –, e questa voce dice: la vita è una cosa splendida e grande, più tardi dovremo costruire un mondo completamente nuovo. A ogni nuovo crimine o orrore dovremo opporre un nuovo pezzetto di amore e di bontà che avremo conquistato in noi stessi. Possiamo soffrire ma non dobbiamo soccombere. E se sopravviveremo intatti a questo tempo, corpo e anima ma soprattutto anima, senza amarezza, senza odio, allora avremo anche il diritto di dire la nostra parola a guerra finita. Forse io sono una donna ambiziosa: vorrei dire anch’io una piccola parolina».[6]
    Senza alcun dubbio la sua anima si è rafforzata nel dolore e nella sofferenza, senza soccombere, e le sue parole, ricche di umiltà, sono tutt’ora convincenti perché sinceramente libere da ogni odio e amorevoli verso ciascuna creatura umana. Continuare ad ascoltare le sue parole e lasciarsi trasformare dai suoi insegnamenti è il modo migliore per far sì che il messaggio sussurrato dalla sua «voce» interiore continui ad amplificarsi, incarnandosi nella vita di tutti coloro che, con fiduciosa speranza, lavorano e si impegnano alla costruzione di un mondo completamente rinnovato, finalmente costruito sulla roccia.


    NOTE

    [1] Frankl V.E., Lettere di un sopravvissuto. Ciò che mi ha salvato dal lager, a cura di Eugenio Fizzotti, Rubbettino, Soveria Mannelli (Cz) 2008, p. 105.
    [2] Hillesum, Diario 1941-1943, Adelphi edizioni, Milano 2005, p. 76.
    [3] Ibidem, p. 147.
    [4] Ibidem, pp. 126-127.
    [5] Ibidem.
    [6] Ibidem, p. 245.


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