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    I giovani: discepoli e missionari


    GMG 2013 - «Andate e fate» /6

    Giuseppe De Virgilio

    (NPG 2013-07-41)


    Poiché il messaggio della Giornata Mondiale della Gio­ventù 2013 è affidato principalmente ai giovani, approfondiamo la dimensione «giovanile» del discepolato e della missione della Chiesa. Sono i giovani chiamati a vivere la «profezia» dell’annuncio e a portare a compimento la «speranza» della Chiesa a servizio dell’umanità.
    Attraverso una rilettura dei racconti evangelici è possibile cogliere alcuni aspetti della dinamica del discepolato e della missione in cui i giovani sono coinvolti.
    Tale dinamica può essere sintetizzata in cinque «atteggiamenti» che emergono dalle relazioni di Gesù e che sono indicativi dello stile missionario della comunità cristiana.

    Le figure giovanili nei racconti evangelici

    Ripercorrendo le scene evangeliche, oltre al noto episodio dell’uomo ricco (il ricco è definito «giovane» solo in Mt 19,16-22) che non accoglie l’invito alla sequela rivoltogli dal Signore, dobbiamo ritenere che ci fosse un nutrito gruppo di giovani tra gli apostoli (Giovanni) e più estesamente tra i discepoli che si erano posti alla sequela del Maestro. Tra i vari personaggi «anonimi», possiamo ricordare i due giovani sposi di Cana di Galilea, la figlia di Giairo (di dodici anni), il figlio della vedova di Nain, il giovane che dona i pani della moltiplicazione in di Gv 6,1-13 e il giovane che fugge all’arresto in Mc 14,51-52; mentre il «giovane vestito di una veste bianca» in Mc 16,5 visto dalla donne la mattina di Pasqua è una figura angelica inserita nel contesto della risurrezione di Cristo. È interessante approfondire «come» i giovani diventano «discepoli e missionari», incontrando il Signore che apriva con loro un «dialogo nuovo». Si possono individuare cinque aspetti che descrivono la singolarità del rapporto tra Gesù e i giovani: a) lo sguardo amorevole; b) la parola autorevole; c) la capacità di farsi «prossimo»; d) la scelta di «camminare accanto»; e) la testimonianza di autenticità. Rileggendo questi cinque aspetti evangelici, scopriamo il volto giovanile della Chiesa e la forza della sua missione.

    Lo sguardo amorevole

    Una prima importante icona «giovanile» è posta all’esordio del ministero del Signore nel Quarto Vangelo. Dopo l’episodio del battesimo «presso Betania, al di là del Giordano» (Gv 1,28), viene narrata la prima esperienza dell’incontro di Gesù con due discepoli. L’evangelista mostra di conoscere alcuni particolari che rendono questo momento affascinante. È per primo il Battista a «fissare lo sguardo» su Gesù che passava e ad additarlo come «agnello di Dio» (Gv 1,29.36). Questa testimonianza è ascoltata da «due discepoli» che decidono di seguire Gesù, desiderosi di conoscerlo, ma senza fermarlo frontalmente sulla strada. Il narratore trascrive l’inizio del dialogo in modo semplice ed essenziale. Accoltosi di essere seguito, Gesù si volta e domanda: «Che cercate?». Essi rispondono: «Rabbì, dove abiti?» e Gesù rivolge loro l’invito: «Venite e vedrete». Il dialogo è preparato dall’accoglienza, dall’invito a entrare in una dimora e a costruire una relazione semplice, familiare, dove i due giovani possano trovare le condizioni per «vedere» con gli occhi e con il cuore l’uomo che li ha attratti a sé. Lo «sguardo amorevole» del Signore si posa per primo su Simone, il fratello di Andrea che aveva seguito il Cristo. In Gv 1,41-42 è descritta la scena del «giorno dopo»: Andrea va dal fratello Simone e gli annuncia di aver incontrato il Messia (Gv 1,41) e dopo averlo condotto da Gesù, l’evangelista annota che «fissò lo sguardo su di lui» (emblepsas) e gli donò un nome nuovo: Cefa, che significa Pietro. Così lungo il ministero pubblico, Gesù fissò allo stesso modo i discepoli (Mt 19,26) e il giovane ricco (in Mc 10,21). Lo «sguardo amorevole» indica la capacità di «guardare dentro» il cuore di un giovane, di invitarlo a vivere nella libertà e nella disponibilità una relazione profonda, che apre ad un futuro di speranza. Non si tratta di uno sguardo di «giudizio» né di «superiorità», ma di accoglienza e di rassicurazione, che invita i giovani al dialogo e alla ricerca sincera del senso della propria vita.

    La parola autorevole

    Un secondo aspetto della relazione tra Gesù e i giovani è dato dalla «parola autorevole» del Signore. Nei racconti evangelici sovente la gente rileva l’autorità (exousia) delle parole di Gesù a differenza di quelle degli scribi e dei farisei (cf. Mc 1,22.27). La «parola autorevole» con cui il Maestro insegna nelle sinagoghe (Lc 4,32) e nelle piazze compie miracoli, spalanca i cuori dela gente, convince gli interlocutori più intransigenti. È la storia della vocazione di Simon Pietro sulle rive del lago a rivelare la «forza» della parola del Signore. Dopo una notte di pesca infruttuosa, Pietro e i suoi compagni ascoltano la predicazione di Gesù sulla riva del lago. Terminata la predicazione Gesù invita il pescatore di Galilea a «tornare dentro e a pescare». La «parola autorevole» fa sì che Simone riprenda il largo affermando: «Sulla tua parola getterò le reti» (Lc 5,5). In modo particolare questo accade nell’incontro con i giovani. È ancora un centurione a rivelare una fede straordinaria nella «sua» parola, a favore del suo servo in fin di vita: «… comanda con una parola (epi to logo-) e il mio servo sarà guarito» (Lc 7,7). L’autorevolezza della sua Parola si rivela nel terribile momento della tempesta del lago (Lc 8,25). Sarà soprattutto Simon Pietro a riconoscere l’autorevolezza della parola del Signore, dopo la moltiplicazione dei pani e il «discorso» pronunciato da Gesù a Cafarnao.
    Alla fine del discorso sul «pane di vita», il Signore aveva affermato: «È lo Spirito che dà la vita, la carne non giova a nulla; le parole che vi ho dette sono spirito e vita» (Gv 6, 63). Di fronte a tale affermazione Pietro risponde con una dichiarazione comunitaria di fede: ««Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna; noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio» (Gv 6,68-69). Unita allo sguardo, la «parola autorevole» del Cristo è capace di toccare il cuore di coloro che egli incontra, di entrare nel loro intimo e produrre una profonda riflessione sul senso della vita e sulle scelte più importanti dell’esistenza.

    La capacità di farsi «prossimo»

    La nota parabola del buon Samaritano (Lc 10,25-37) pone in evidenza come l’amore debba concretizzarsi nella logica della «prossimità».
    Gesù inaugura nel suo ministero nel «farsi prossimo» dei piccoli, dei poveri e degli ultimi e tra questi vi sono i giovani (cf. Lc 7,14). «Farsi prossimo» significa scegliere di «stare accanto» all’altro, di condividere le sue attese e le sue sofferenze, riconoscendolo nel «più piccolo» (Mt 25,40.45). La scena giovannea delle nozze di Cana (Gv 2,1-12) rivela come la madre di Gesù inviti il Figlio a considerare l’improvvisa necessità di una coppia di giovani sposi che «non hanno più vino» (Gv 2,3). Se il Signore non fosse intervenuto in quella situazione facendosi «prossimo» di quei giovani, il giorno più bello di quella nuova famiglia si sarebbe trasformato in un’umiliante situazione di vergogna. Ancora più toccante è l’episodio di Giairo (Mc 5,21-43), il capo della sinagoga che non facendosi riguardo per il suo grado sociale, come un servo «si getta ai piedi» di Gesù per implorare la guarigione della sua figlia morente (Mc 5,22-23). La risposta del Signore consiste nel partecipare alla sofferenza dell’uomo, nel «camminargli accanto», nel condividere la strada piena di fede e di speranza per la salvezza della figlia. Dopo aver incontrato sulla stessa via, la donna emorroissa e averla definitivamente riabilitata, Gesù «entra» nella casa e si fa prossimo della famiglia, «prendendo con sé il padre e la madre» (Mc 5,40) e risuscitando la ragazza.
    Il motivo della prossimità che implica l’apertura di una relazione di aiuto e di salvezza, è ben evidenziato dal gesto di «prendere per la mano» le persone bisognose: la suocera di Simone (Mc 1,31), il lebbroso (Mc 1,41). Il cieco di Betsaida (Mc 8,23). È ancora Simon Pietro a fare l’esperienza della salvezza nel lago di Genezaret, mentre sta per essere risucchiato dalle acque e Gesù «stendendo la mano» lo afferra e lo salva (Mt 14,29). Il farsi prossimo di Cristo rivela la scelta di amare gratuitamente gli altri, la capacità di saper condividere il dolore e la speranza della guarigione e della vita. Il segno della lavanda dei piedi è forse il gesto più eloquente della «prossimità del maestro che si fa servo di tutti» (Gv 13,3-11).

    La scelta di «camminare accanto»

    Un nuovo aspetto dello stile relazionale di Cristo che evoca il motivo della missione l’immagine del «camminare insieme». Ad alcuni che gli chiedevano di seguirlo per la strada, Egli dichiara: «Le volpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo» (Mt 8,20). Oltre all’interpretazione letterale, la strada indica uno stile relazionale, che apre il cuore dei giovani all’avventura, alla conoscenza di altri luoghi e di nuove esperienze. Nei racconti evangelici il Battista viene definito «colui che prepara la strada» (Mt 3,3; cf. Is 40,3). Soprattutto nel Vangelo lucano la strada rappresenta il luogo dell’evangelizzazione dei poveri (Lc 4,18.30) e sono proprio i primi discepoli a ricevere il mandato di «fare la strada» evangelizzando (Mt 10,7; cf. Lc 10,9). In modo ancora più sorprendente la metafora della «via» rivela il Cristo agli apostoli nei discorsi di addio: «Gli disse Tommaso: “Signore, non sappiamo dove vai e come possiamo conoscere la via?”. Gli rispose Gesù: «Io sono la via, la verità e la vita. Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me» (Gv 14,5-6).
    Conoscere Gesù per i giovani significa fare l’esperienza del Dio che si fa pellegrino, compagno di strada e amico di un cammino.
    La comunità cristiana fin dagli inizi ha ricordato questa verità e ha cercato di incarnarla nella quotidianità, avendo come icona l’esperienza pasquale dei discepoli di Emmaus (Lc 24,13-35). Far sentire ai tanti giovani che cercano la vita e spesso restano delusi nel cammino, che Gesù risorto «cammina» sulla stessa strada ed è «accanto» alle loro domande e alle loro tristezze che si cambiano in speranze.

    La «testimonianza di autenticità»

    Un ultimo tratto è dato dalla «testimonianza di autenticità». Questa condizione riassume l’intero percorso e definisce la dimensione giovanile della missione: lo sguardo, la parola, la prossimità e il cammino comune non potranno incidere nella vita e nelle relazioni con gli altri se non si realizza una «testimonianza di autenticità». Nei racconti evangelici Gesù si presenta ai giovani e alle folle come un «testimone autentico» di Dio e della sua Parola di salvezza.
    La forza di questa testimonianza è messa in evidenza negli incontri con diverse figure del vangelo: a Simone il fariseo egli rimprovera l’incapacità di vivere l’amore misericordioso (Lc 7,44-46); a Marta rivolge l’invito a ricominciare dall’accoglienza della Parola (Lc 10,41-42); non teme di compromettersi entrando nella casa di Zaccheo il pubblicano che si converte (Lc 19,5); illumina il cuore di Nicodemo aprendolo alla luce di una nuova sapienza (Gv 3,1-21) e disseta la ricerca interiore della donna samaritana (Gv 4,4-42). Gesù ha prediletto i piccoli e ha accolto i giovani senza frenarne l’entusiasmo e la forza della vita; mai si è chinato davanti ai potenti e non è sceso a compromessi con i suoi accusatori.

    Come Gesù, fino alla fine

    Nell’ora della prova, il Signore non ha giudicato i suoi discepoli, ma ha pregato per loro e li ha difesi offrendo se stesso (Gv 18,8). La scena misteriosa del «giovane vestito di una veste bianca» è indicativa nella fragilità e della paura dei giovani di affrontare con coraggio le prove decisive della vita (Mc 14,51-52). Nel giudizio subito, il Signore non ha ceduto di fronte alle menzogne e alle accuse, confidando nell’amore del Padre (Mt 27,64).
    Il dialogo con Pilato conferma la testimonianza coerente del Cristo che ama «fino alla fine» e annuncia la verità. Rimasto solo e prigioniero Cristo rivela al procuratore romano: «… sono venuto nel mondo per rendere testimonianza alla verità. Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce» (Gv 18,37). Il compimento di questa testimonianza è la glorificazione della croce, ai cui piedi rimane la Madre e il «discepolo che egli amava», il più giovane secondo la tradizione (Gv 19,25-27). Ed è proprio al giovane discepolo che il Figlio affida la Madre, perché da quell’ora possa esercitare la sua maternità sulla comunità. Con due giovani sposi è iniziata l’ora della Madre e del Figlio a Cana di Galilea, con il giovane discepolo accanto alla Madre, nell’ora della croce, ci porta a compimento il progetto del Padre (Gv 19,30). È in questa tradizione che la «testimonianza di colui che ha visto» diventa consegna della Scrittura e attestazione della sua verità (cf. Gv 20,30-31; 21,24).
    La dimensione giovanile del discepolato e della missione costituisce la realtà della comunità cristiana che diventa messaggera di speranza nell’evangelizzazione dei popoli con gli stessi tratti di Cristo. Nel cuore della Chiesa i giovani sono in cammino verso gli estremi confini della terra, amando come Gesù fino alla fine (Gv 13,1).


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