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    Una spiritualità che “chiede” missionari credibili



    Giorgio D’Aniello e Agnese Bruna

    (NPG 2013-06-76)


    Come ogni mattina, nella baraccopoli di Dwarzark a Freetown (Sierra Leone), Joseph si sveglia nel caldo delle quattro lamiere che sono la sua casa. Ha cinque anni. Vive, e dorme, nella stessa stanza con altre quattro persone, non tutte strettamente consanguinee: i suoi nonni, con cui condivide il letto, più un fratello, di nome Hassan, e una zia, Abibatu: lui li chiama così, ma in realtà sono semplici coinquilini. I suoi genitori, Joseph, non li ha mai conosciuti.

    Un giorno qualunque

    Infilate le ciabattine, Joseph può finalmente uscire di casa e, insieme alla zia, recarsi al mercato per vendere banane. Oggi la scuola può attendere, anche perché senza l’uniforme pulita (siamo nella stagione secca, ed è meglio risparmiare sull’acqua) le maestre non farebbero entrare Joseph in classe.
    Per pranzo, con i pochi leoni raccolti (il leone, oltre al maestoso re della foresta, indica anche la moneta sierraleonese) Joseph riesce a condividere con suo “fratello” un piatto di riso, condito con foglie di cassava e tanto, tanto peperoncino. Quando lo stomaco è pieno, è grande la soddisfazione di aver mangiato, oggi, e non doverci pensare fino a domani.
    Con il pomeriggio alle porte, il lavoro terminato e la pancia piena, Joseph prende due di quelle belle taniche gialle con il tappo rosso, per andare a pompare un po’ d’acqua al pozzo. Il pozzo più ambito (per quanto ce ne siano di più vicini) si trova dall’altro lato del fiume, dove si staglia quell’unica casa colorata di bianco e blu, e dove l’enorme disegno di quella faccia amica domina la valle: Joseph non lo sa, ma quello stesso volto, quegli stessi occhi guardano bambini e giovani in ogni continente.
    Lui non sa bene chi sono quegli strani personaggi, generalmente dal colore della pelle diverso dal suo. Sa che alcuni si chiamano salesiani, altri vengono chiamati volontari, e hanno nomi difficili da imparare. Ma sa che ogni pomeriggio, mentre va a prendere l’acqua per la sua famiglia, può passare del tempo finalmente a giocare in un posto dove non importa se sei piccolo o grande, cristiano o musulmano, povero o ricco. Lì Joseph sa di non essere giudicato e di essere accolto, si accorge di essere importante, sente di essere amato.

    Come la Torino dell’Ottocento

    Se Don Bosco potesse rinascere oggi, sceglierebbe sicuramente la periferia di una metropoli africana, non così diversa dalla Torino di metà Ottocento. Forse si recherebbe in uno dei paesi più poveri dell’intero continente. La capitale della Sierra Leone, dal beffardo nome di Freetown, potrebbe essere un terreno fertile. Uno dei suoi polverosi quartieri ha un nome quasi impronunciabile: Dwarzark.
    Dwarzark si presenta agli occhi dei visitatori come un’enorme baraccopoli arroccata lungo i fianchi di due colline, poste l’una di fronte all’altra. È una delle zone più povere e densamente popolate dell’intera città. Benché Freetown si affacci sull’Oceano Atlantico, gran parte della gente di Dwarzark non ha mai bagnato i piedi nel mare.
    La prima cosa che si nota camminando per le sue vie, dopo la povertà e la sporcizia, è l’esercito di bambini e giovani che vaga senza meta, non va a scuola, è lasciato a se stesso. Balza soprattutto agli occhi di chi, come noi, viene dalla vecchia Italia, magari da una piccola città del nord come Cuneo. E per chi, come noi, è cresciuto in oratorio nutrendosi delle storie della vita di Don Bosco, non è stata una grande sorpresa scoprire che Dwarzark è il luogo scelto per il sogno sierraleonese di Don Bosco.

    Noi due, “mandati”

    Quando scriviamo “noi”, intendiamo “noi due”, Giorgio e Agnese. Che prima di essere volontari siamo una coppia di sposi. L’esperienza fatta insieme in Sierra Leone non avrebbe avuto lo stesso significato fuori dal matrimonio. La nostra testimonianza comincia da questo, da una scelta che al giorno d’oggi è ancora più controcorrente e difficile da spiegare che non la partenza per l’Africa: quella di sposarci, e di farlo all’età, rispettivamente, di 26 e 23 anni.
    Diamo alle cose il loro nome: se il matrimonio è per noi una vocazione, la scelta di partire per la Sierra Leone, due mesi dopo, è stata una vocazione nella vocazione. Scelta maturata negli anni, nel nostro percorso di vita e di crescita umana e spirituale, scaturita quasi spontaneamente (ma non senza sofferenze!) dopo esperienze missionarie in Ucraina e Burundi, sempre insieme, e l’anno di Giorgio come volontario a Goma, nella Repubblica Democratica del Congo.
    Continuiamo a dare il proprio nome alle cose: se scelta è stata la disponibilità a partire, nella missione salesiana di Freetown siamo stati “mandati”. Non è una piccola differenza. Come i primi missionari salesiani diretti in Argentina, noi non siamo andati, ma siamo stati “mandati”. Il segno tangibile di tale differenza è stata la consegna della croce dalle mani del Rettor Maggiore, che ci ha inviato, da parte della Chiesa e della Famiglia Salesiana, dove vi era necessità e richiesta di aiuto.
    Per questo, più che volontari, ci siamo sentiti a tutti gli effetti “missionari”.

    La vita interiore

    Essere missionari con lo stile di Don Bosco significa innanzi tutto essere credenti. Essere, con le parole di Paolo VI, “uomini spirituali, uomini di fede, sensibili alle cose di Dio e pronti all’obbedienza religiosa nella ricerca del meglio”. Il tutto da declinare nella nostra specifica vocazione di coppia sposata in terra di missione.
    Il primo aspetto di questa spiritualità salesiana per un missionario non può essere altro che la fede. E l’incontro-scontro con la propria fede è la prima cosa con cui abbiamo dovuto fare i conti una volta sbarcati in Sierra Leone. Abbiamo capito che senza una fede forte, profondamente radicata, è difficile resistere ad un anno intero in un posto come Freetown, dove i dubbi e le domande tolgono il sonno. Abbiamo scoperto che senza curare la nostra vita interiore non saremmo stati credibili nella nostra missione, nel nostro lavoro con i poveri.
    La fede che si scopre di avere in missione è scarna, ridotta all’osso, senza fronzoli: via tutti quei begli esercizi spirituali, la condivisione con gli amici, l’emotività di certi momenti. Non c’è niente di tutto ciò. C’è la fede del posto, che si esprime in maniera diversa, anche in una lingua diversa. Se scopri, dunque, che sotto quel velo di emotività non ci sono mani forti a tenerti, cadi. Freetown, però, ci ha mostrato una fede più salda di quanto immaginavamo. E, con la consapevolezza di far parte di un grande sogno comune, tutto ha assunto un senso più ampio. Lo scopo di Don Bosco, a Freetown come a Cuneo, è la salvezza delle anime. E la prima anima da salvare è la nostra!
    La cura della vita interiore, naturalmente, da sola non poteva bastare. Vivere la spiritualità salesiana, nella nostra specifica vocazione di coppia sposata in terra di missione, ha compreso molti aspetti e la fede è stata il fondamento su cui “ricamare” uno stile di vita e di lavoro. In Sierra Leone come in Italia. Ma in missione è stato, paradossalmente, più facile.

    Uno stile di vita, di lavoro

    Una prima parola chiave è “allegria”. Camminare nella santità, secondo l’insegnamento di Don Bosco, significa innanzi tutto essere gioiosi, manifestare gioia fino al contagio. Nonostante le evidenti difficoltà che abbiamo dovuto affrontare trapiantandoci in Sierra Leone, il sorriso nei confronti di tutti oltre a essere segno di buona educazione è stato per noi il primo passo in ogni relazione con l’altro, dal primo all’ultimo giorno.
    Un altro aspetto importante è la “sobrietà”. Nei consumi, prima di tutto. Sia per evidenti necessità, sia per rispetto a chi, tra chi incontravamo ogni giorno, viveva in condizioni di povertà estrema. Essere sobri a Freetown è stato dunque relativamente facile. Ripeterlo a casa nostra, oggi, è estremamente più difficile. La tentazione di lasciarsi andare al superfluo e allo spreco è alta, nella nostra società. Noi ci proviamo, con risultati alterni, con un piccolo trucco: immaginare di avere accanto a noi, come consulente delle piccole scelte quotidiane, uno dei “nostri” bambini di Freetown, pronto a ricordarci di spegnere la luce, di chiudere il rubinetto, di non comprare tutte quelle cose inutili.
    Lo spirito di Don Bosco ci ha portato poi a uscire ripetutamente dalle nostre mura domestiche e andare incontro all’altro. Freetown, con la sua relativa sicurezza e tranquillità, permette un incontro continuo con la gente, per le strade, al mercato, in oratorio. A volte l’incontro è difficile, perché si è subito catalogati; il colore della pelle, che per anni hai ignorato, si fa subito sentire: o ti fa soffrire, o ti mette in condizione di superiorità. Non puoi scrollartela di dosso.
    Come dicevamo, stile di vita e di lavoro. Lavoro caratterizzato da aspetti tipicamente salesiani, lavoro concentrato sull’educazione dei giovani, specialmente dei più poveri e bisognosi: oltre all’oratorio quotidiano, le nostre attività comprendevano l’organizzazione di doposcuola e gruppi di studio per bambini e ragazzi dai 3 ai 17 anni, il tutto congiuntamente a un programma di borse di studio (totalmente finanziato da raccolte fondi di privati italiani) attuato in collaborazione con le numerose scuole locali. Scuola e oratorio, come luoghi primari per l’attuazione del sistema preventivo, che prima di essere un metodo educativo, è una grande occasione di crescita spirituale per noi educatori. Nel lavoro di educazione, un’attenzione particolare è stata riservata agli animatori locali, nelle cui mani è poi il futuro educativo dei bambini e ragazzi di Freetown. Educare chi educherà è stata una delle priorità.

    L’ecumenismo e la preghiera

    Mai i non cattolici sono stati esclusi dalle nostre attività. Bisognava guardare in faccia la realtà e la realtà ci diceva che la Sierra Leone è un paese musulmano, che i cristiani sono una minoranza, a loro volta molto divisi tra loro: ma l’esperienza spirituale è per tutti, come spazio per l’interiorità, il silenzio, il dialogo con Dio, qualunque fede si professi. L’esperienza di Freetown ci ha insegnato, come mai nient’altro prima e a poca distanza dalle persecuzioni della Nigeria, la pacifica convivenza di confessioni differenti. La preghiera quotidiana in oratorio, aperta, anzi obbligatoria per tutti, ha sempre riservato del tempo per la preghiera musulmana, dal momento che musulmani erano quasi tutti i giovani che frequentavano l’oratorio.
    La preghiera è stata sempre un momento di unità e un mezzo per avvicinare. Per esempio, nella devozione a Maria. La preghiera del rosario nel mese di maggio ci ha visto passare di casa in casa. Povera o ricca che fosse, ogni sera una famiglia diversa ha accolto tutta la comunità cristiana (e non solo) di Dwarzark per la recita insieme. Il primo passaggio in una terra di relativamente recente evangelizzazione (e di ancor più recente “salesianizzazione”) è andare per primi verso la gente, e non aspettarla. Le porte sempre aperte e lo spirito di collaborazione che permea i quartieri poveri di Freetown lo hanno reso ancora più facile.
    Un’altra grande esperienza di preghiera è stata vissuta in quaresima: la via crucis del venerdì. Una via crucis particolare, su e giù per le strade e i colli del quartiere, un’ascesa settimanale verso un Golgota diverso, con mille bambini curiosi e attenti a ripetere i gesti degli adulti nel seguire la croce portata a turno dai fedeli. Nella polvere, tra l’immondizia e gli animali. E passando tra quelle case, in Quaresima come per tutto il corso dell’anno, ci siamo accorti di come la vita di questa gente sia davvero una croce, una fatica, un tormento che tuttavia sopporta con incredibile serenità e resistenza.

    Una palestra particolare

    La prima cosa che ci siamo sentiti di fare, in quanto volontari mandati dalla Chiesa e dalla Famiglia Salesiana, è stata dunque quella di provare a condividere, per quanto possibile, la vita di questo popolo, farci vicini, dimostrare che non erano abbandonati a loro stessi, che non erano solo volti per un telegiornale o una pubblicità, testimoniare che non è una colpa per loro essere nati lì, né per noi essere nati nel “Primo Mondo”. Se c’è qualcuno che soffre, anche noi soffriamo. E, dopo che abbiamo visto, non possiamo dormire sogni tranquilli sapendo che qualcuno, che abbiamo imparato a conoscere, rispettare ed amare, non mangia, mentre noi, sulla stessa terra, mangiamo più del dovuto.
    Infine, Freetown è stata, per noi due, una palestra particolare. Tutti i bambini che correvano verso di noi, arrivando ogni giorno in oratorio, ci hanno fatto sperimentare delle forme speciali di maternità e paternità. Essere madre e padre, essere educatori, essere loro aiuto. Provare a essere davvero come Don Bosco in Africa, lui che è padre, maestro e amico dei giovani più poveri e bisognosi, anche nella culla bistrattata dell’umanità.


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