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    Non condanniamo globalmente la modernità



    Paul Van den Berghe

    (NPG 1993-02-29)


    Molti interventi sinodali hanno testimoniato una certa paura se non una certa avversione verso la cultura moderna occidentale o - diciamo - verso la modernità. È certamente comprensibile, perché la nostra cultura attuale non è cristiana e porta anzi in sé molti mali e pericoli non solo per la fede cristiana ma per l'umanesimo in generale.
    Nonostante ciò ho l'impressione che ci si spinga un po' troppo avanti.
    Dal punto di vista della fede, ogni cultura o aspetto di una cultura deve essere considerato come ambiguo, ambivalente. Ciò che appare una possibilità, può diventare un ostacolo. Ciò che appare come un ostacolo, può diventare una possibilità. Né l'ottimismo ingenuo né il pessimismo distruttivo hanno ragione. Solo il difficile e faticoso discernimento degli spiriti ci apre la buona via.
    Mi sembra dunque avventato condannare in modo globale la modernità, e in modo unilaterale contare nella propria strategia pastorale sulla post-modernità, come taluni tendono a fare. Perché, senza dubbio, anche la post-modernità ci deluderà, mentre la modernità, sotto certi aspetti, può aiutarci anche in questo momento storico. Così pure, io credo, restano sempre dei valori della modernità che non dobbiamo condannare, ma piuttosto accettare, anche se questo riconoscimento giunge forse un po' tardi.

    Est, Ovest e la croce

    Di frequente si è opposta una theologia crucis delle Chiese dell'Est a una teologia libresca o sofisticata dell'Ovest, e si è suggerito che la Chiesa dell'occidente cristiano avrebbe bisogno di una purificazione attraverso la Croce.
    La teologia della Croce accetta la prova della Croce: io ne ho paura, ma so di averne bisogno. Ma se da una parte credo che Dio abbia il diritto di confrontarci con la Croce, dall'altra non credo però che io, in quanto vescovo, abbia il diritto di «organizzare» la Croce per gli altri. Devo predicare lo scandalo del Cristo Crocifisso, ma devo esaminare con attenzione se metto la Croce proprio là dove il buon Dio ha voluto collocarla.
    Quanto alla teologia occidentale non credo che essa sia puramente libresca o senza impatto per la vita, bensì il contrario: ho piuttosto l'impressione che essa abbia saputo formulare in tal modo i problemi della fede da essere divenuta in qualche caso drammatica. Se i teologi di tanto in tanto si smarriscono e a volte diventano perfino un problema per noi vescovi, dobbiamo pur sempre ricordare che è una gloria della nostra fede cristiana il fatto che essa sostenga o provochi addirittura una ricerca umana della verità della fede.
    Non è giusto dire che la Chiesa Occidentale non ha una spiritualità, al contrario ne ha diverse. Ci sono sempre preti e laici, religiosi e religiose che vivono una spiritualità in cui dominano l'impegno per i poveri, la rinuncia ai privilegi clericali, una kénosis di ogni genere di potere.
    Questi preti-operai, questi religiosi che s'incorporano nelle comunità di base, questi diaconi permanenti, questi operatori pastorali sarebbero offesi e - a ragione - se si dicesse loro che non hanno spiritualità.
    Come già all'incontro ecumenico di S. Giacomo di Compostela, ho sentito anche qui ritornare più volte l'idea che l'evangelizzazione dell'Europa necessiti della cooperazione ecumenica di tutte le chiese europee, non solo perché il lavoro da fare è molto, ma soprattutto perché le nostre divisioni e litigi costituiscono una controtestimonianza.
    Sono d'accordo con questa tesi e sono contento che sia stata espressa così chiaramente. Ma l'ascolto attento di tanti interventi ha anche aumentato le mie domande. Come evangelizzare insieme quando è chiaro che ogni evangelizzazione va di pari passo con l'impiantazione o l'estensione della Chiesa, di una Chiesa? Una evangelizzazione ecumenica comune non dovrebbe per logica conseguenza condurre alla fondazione di una nuova Chiesa ecumenica? Ma non è certamente questo il fine del movimento ecumenico!
    La fede ci obbliga a evangelizzare, ma non possiamo cercare noi stessi attraverso questa evangelizzazione! Allora dobbiamo evangelizzare la gente e rinviarla alle proprie Chiese? Ma se esse stesse non lo vogliono?
    Le Chiese maggiori hanno sempre delle difficoltà con le Chiese minori, almeno quando queste ultime sono attive e missionarie. Ciò disturba maggiormente quando le Chiese minori riprendono dalle Chiese maggioritarie quei contenuti, quegli elementi che queste ultime considerano fondamentali, essenziali alla loro identità.
    È questo, io credo, il problema delle Chiese ortodosse, ed è anche talvolta un nostro problema (per esempio con le Chiese vetero-cattoliche).
    In tutti i casi sono colpito dal fatto che dietro le nostre domande sull'evangelizzazione sorgano continuamente domande ecclesiologiche, che non sono solamente questioni puramente teoriche bensì di grande importanza pratica: quali sono i rapporti fra la Chiesa (una Chiesa) e una nazione o nazionalità? Fra una Chiesa e il territorio?
    Bisognerebbe studiare questi interrogativi più da vicino.

    L'uomo e Dio

    Sono del tutto d’accordo con ciò che è stato detto più volte: bisogna annunciare tutto il messaggio, bisogna predicare il vangelo integrale. Di fronte all'effettivo pericolo di una riduzine della fede a semplice «umanesimo», bisognerebbe giurare di non parlare più dell'uomo se non in riferimento a Dio, e di non parlare più di Dio se non in riferimento all'uomo. Bisogna salvare la trascendenza di Dio, ma non si riuscirà in questo compito se non parlando di Dio in modo che ciò implichi l'uomo e la sua salvezza. Teologia e antropologia vanno necessariamente legate.
    Una chance per l'evangelizzazione in Europa sta nella possibile convergenza dei grandi sogni europei (libertà, fraternità, giustizia, salvaguardia del creato, ecc...) con i valori evangelici. D'altra parte ciascuno di quei valori è segnato da una grave ambiguità, che costituisce un reale ostacolo all'evangelizzazione. Un esempio molto chiaro al riguardo è il concetto di libertà, a cui i nostri contemporanei danno quasi tutti un contenuto ben diverso da quello che viene dato dal Nuovo Testamento.
    È necessario testimoniare il Vangelo della libertà dei figli di Dio in tutto il suo senso originale e ricco. Se la filosofia ci è indispensabile per elaborare un buon concetto della libertà umana, bisognerà ispirarsi prima di tutto al vangelo della libertà quale gli apostoli Paolo, Giacomo e Giovanni lo presentano. Della ricca dottrina di San Paolo sulla libertà dei figli di Dio è importante valorizzare non soltanto ciò che egli dice della libertà in rapporto al peccato e ai piaceri, ma anche ciò che egli insegna sulla libertà rispetto alla legge.
    La libertà in relazione alla legge (non soltanto alla Legge di Mosè ma a tutte le leggi) non vuol dire senza legge alcuna (anomia), ma una conversione radicale del cuore, realizzata attraverso lo Spirito, mediante la quale l'uomo fa spontaneamente ciò che è buono nella legge: la volontà santa di Dio. «Per quelli che si lasciano condurre dallo Spirito non c'è più legge». Noi sappiamo che è possibile abusare di questo principio e San Paolo stesso ha dato alle sue chiese delle regole e delle leggi. Ma, d'altra parte, noi abbiamo spesso troppa paura della libertà dei nostri fedeli e pensiamo sovente a torto che la legge ci salverà. Per l'evangelizzazione dell'Europa è davvero molto importante che prendiamo più sul serio ciò che l'Apostolo ci insegna sulla libertà in rapporto alla legge.

    I credenti «altri»

    Nel mio paese, e soprattutto nella mia città, siamo messi duramente a confronto con il problema degli immigrati mussulmani. Abbiamo optato per il rispetto reciproco e per una integrazione positiva degli stranieri nella nostra società. Rifiutiamo il razzismo e cerchiamo di prevenire la xenofobia. Preti, religiosi e laici impegnati lavorano per un'integrazione positiva. Ma la popolazione reagisce in altro modo. E allora cosa bisogna fare?
    Nella nostra città vivono anche poco meno di 20.000 ebrei. La convivenza con questa comunità ebraica molto credente è buona, ma a condizione di rinunciare chiaramente a ogni genere di missione fra di loro. È lecito presumere che succederà la stessa cosa nella relazione con la comunità mussulmana. Siamo pronti a lavorare per una buona co-esistenza con i mussulmani, ma di missione e conversione non osiamo parlare. Anche tra i nostri stessi fedeli, soprattutto tra i giovani, c'è una certa resistenza all'idea di missione. Ho l'impressione che essi pensino che la missione non solo non è necessaria ma addirittura cattiva. Personalmente trovo questa mentalità dannosa e la combatto, ma la domanda resta: come annunciare il Cristo a ebrei e mussulmani? Cosa possiamo lasciare cadere delle nostre tradizioni e cosa è necessario salvaguardare a tutti i costi? È possibile credere in Gesù Cristo e restare ebreo o mussulmano? Credo che queste diventeranno via via domande centrali per l'evangelizzazione in Europa.
    Noi crediamo che l'impegno per la giustizia è essenziale per la missione della Chiesa. Certo, la Chiesa deve proclamare la giustizia del Regno, e questa non può essere ridotta alla semplice giustizia socia le, ma la vera religione non può esserne separata. Naturalmente anche la ricerca della giustizia sociale ha bisogno di essere evangelizzata, sennò rischia di diventare una lotta di classi senza risparmio.
    Sappiamo che la ricerca della giustizia non è autentica se non la si cerca per tutti e dovunque. Il dovere di solidarietà fra i paesi occidentali dell'Europa e quelli dell'Europa centrale e orientale non ci dispensano dall'impegno per lo sviluppo del Terzo Mondo. Questo resterà ancora a lungo la grande questione sociale dei nostri tempi e potrebbe costituire un grande progetto per la gioventù europea.
    Con la seconda guerra mondiale i paesi dell'Europa occidentale hanno saputo costruire una prima comunità europea. Oggigiorno si sta costruendo una nuova comunità fra l'Europa occidentale e quella dell'Est. Domani costruiremo una comunità con l'Africa e il vicino Oriente.

    (Traduzione dal francese di Vittorio Paravani)


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