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    Legge e obiezione di coscienza



    Rodolfo Venditti

    (NPG 1993-01-58)


    C’è un'immagine che esprime con plastica evidenza il senso e il valore della legge: l'immagine di un incrocio che sia privo di semafori e di vigili che regolino il traffico. Ognuno cerca di spingersi avanti, di guadagnare un metro, e nel giro di pochi minuti è il caos, la paralisi totale.
    Un'esperienza che tutti abbiamo fatto e che pertanto rende l'immagine viva e convincente. Vivere in società comporta l'osservanza di alcune regole di convivenza; la regola pone un limite alla libertà, ma al tempo stesso garantisce a ciascuno il suo spazio di libertà e di movimento. La mia libertà finisce dove comincia la libertà degli altri. Se io esercito la mia libertà senza rispettare la libertà degli altri, distruggo la mia stessa libertà e mi trovo in una trappola dalla quale non riescono più ad uscire.
    Cicerone ha espresso questa verità in una frase davvero lapidaria: «Servi legum sumus ut liberi esse possimus» («Siamo schiavi della legge - cioè osserviamo la legge - per poter essere liberi»). La legge non è schiavitù, ma garanzia di libertà.
    Dunque, la legalità è un valore importante, essenziale. Ma non è un valore assoluto, poiché non sempre la legalità realizza in sé il valore giustizia. Non sempre la legge è giusta. E ciò avviene non soltanto nelle società rette da sistemi dittatoriali; dove la legge è fatta dall'arbitrio del dittatore, ma anche nelle società che si reggono su princìpi democratici. Il metodo democratico è, certo, il metodo più consono ad una società di persone, poiché si fonda sul dialogo, sull'ascolto reciproco, sul formarsi di maggioranze e minoranze, su un confronto di idee che privilegia la ragione e che bandisce la violenza e la sopraffazione.
    Tuttavia anche una legge democratica può essere ingiusta. La «giustizia» di una legge non deriva automaticamente dal solo fatto di essere stata votata da una maggioranza. Ha detto drasticamente ed efficacemente Gandhi: «Nelle questioni di coscienza la maggioranza non c'entra».

    LEGGE, VALORI, GIUDIZIO DI FRONTE ALLA COSCIENZA

    Ed allora ecco emergere, di fronte alla legge, la coscienza. Che cos'è questa misteriosa realtà? È «il nucleo più segreto dell'uomo», risponde il Concilio Vaticano II («Gaudium et spes», n. 16).
    È la struttura portante della persona. È ciò che fa sì che io sia io e non un altro.
    Ognuno di noi è una realtà unica ed irripetibile: col suo modo di pensare, di agire, di reagire, di rapportarsi agli altri, di amare; con la sua tavola di valori, maturata attraverso la propria crescita e attraverso la propria adesione ad una determinata visione della vita. E la radice di ciò è la coscienza.
    Ogni persona è un valore in sé, ed ha il dovere di essere se stessa. Obbedire alla propria coscienza è un atto doveroso di coerenza con se stesso. La voce della coscienza non è la voce di un «altro da me»; è la voce del mio «io» più profondo.
    Certo, per me cristiano, quella voce esprime anche una presenza di Dio; ma ciò non rende il dettame della coscienza estraneo a me, perché Dio è colui che mi ha creato, che mi conosce nel profondo, che mi parla attraverso le leggi stesse del mio essere.
    L'infrazione del dettame della coscienza inquina la moralità di un atto, anche quando si tratta di un atto che di per sé sarebbe buono. Dalla coscienza dipende la qualità etica del comportamento. Cristo ha detto con grande chiarezza che ciò che inquina l'uomo è ciò che esce da lui, cioè l'intenzione con cui le sue azioni vengono compiute (Mt 5,27; Mc 7,14). La coscienza è dunque norma. Per mezzo' di essa percepisco il bene e il male, e li distinguo tra loro. La coscienza può anche essere erronea: ma non cessa, per tal motivo, di essere vincolante. Oltre a norma, la coscienza è anche giudizio. Kant la paragona a un tribunale, a un giudice. Essa è idonea non solo a farmi percepire il bene e il male, ma anche a consentirmi di stabilire che cosa è bene o male qui e oggi, cioè la corrispondenza della mia azione (da compiere o compiuta) alle norme della coscienza, cioè ai princìpi che la coscienza ha fatto propri.

    Primato dell'imperativo di coscienza sull'imperativo giuridico

    Obiezione di coscienza è il rifiuto di obbedire ad un imperativo giuridico, cioè al comando di una legge o a un ordine di un superiore, in nome di un altro imperativo (di natura etica, religiosa, filosofica, ecc.) che la mia coscienza ritiene superiore, vincolante.
    «Obiezione» deriva dal latino «obi- cere», che significa «gettare contro, con trapporre». Alla legge scritta (quella emanata dal potere politico) si contrappone talvolta la legge non scritta, cioè quella che attiene alla sfera etico-religiosa e ai convincimenti più profondi della coscienza del singolo.
    Il conflitto tra quei due tipi di legge ha accompagnato la storia dell'uomo ed ha caratterizzato i momenti più alti della vicenda umana. Esso è già presente nella antichità classica (si pensi alla tragedia «Antigone» di Sofocle o al grande insegnamento filosofico di Socrate), ma diventa particolarmente vivo e vasto con il Cristianesimo. «La legge è in funzione dell'uomo e non l'uomo in funzione della legge»: questa è la sostanza profonda del famoso detto di Gesù: «Il sabato è fatto per l'uomo e non l'uomo per il sabato»; la società, il potere, le leggi, le istituzioni sono a servizio dell'uomo, e non viceversa.
    In nome del primato della coscienza, proclamato dal loro Signore, i cristiani contestano la struttura sacrale e teocratica dell'impero romano e respingono la sua pretesa di dominare la loro coscienza e di imporre loro una fede religiosa che essi non accettano. Le persecuzioni che caratterizzano i primi secoli dell'era cristiana costituiscono la reazione dell'impero romano alla irriducibile intransigenza dei cristiani su tale punto essenziale.
    Tra le contestazioni sollevate dai cristiani c'è anche quella relativa al servizio militare nell'esercito romano, servizio che taluni di essi rifiutano sia perché espressione di quella struttura sacrale, sia perché istituzione finalizzata alla violenza e quindi in contrasto col messaggio di amore annunciato da Cristo. Gli obiettori cristiani al servizio militare si chiamano, in quei primi secoli, Massimiliano, Marcello, Giulio, Marino, ecc., e obiettano a costo della vita.
    Ma anche nei secoli successivi il primato della coscienza avrà i suoi forti assertori: basti ricordare Thomas More che, per non tradire la propria coscienza di cattolico, rifiuterà di prestare giuramento di fedeltà al re Enrico VIII di Inghilterra, autoproclamatosi capo della nuova chiesa anglicana, e con quel rifiuto rinuncerà alla propria brillantissima carriera e affronterà la morte con serena consapevolezza e con immenso coraggio.
    Specialmente nelle chiese cristiane separate (valdesi, luterani, anabattisti, quaccheri, mennoniti, ecc. ) verrà colti- vata e sviluppata una tradizione di non- violenza, che alimenterà un'obiezione di coscienza alla violenza, alla guerra, al servizio militare.
    Anche in campo «laico» vasti movimenti di pensiero svilupperanno con impegno e passione la tematica sull'obiezione di coscienza e della disobbedienza civile: basti pensare a Thoreau in America, a Gandhi in Italia, a Lev Tolstoj in Russia, ad Aldo Capitini in Italia.

    OBIEZIONE DI COSCIENZA E DEMOCRAZIA

    Dunque, ci può essere una legge che è stata votata dalla maggioranza e che ha tutti i crismi della legalità, ma urta contro la tavola di valori a cui si ispira la mia vita, e pertanto io sono posto nella necessità di negarle obbedienza.
    È un dramma secolare, che esiste da quando esiste l'uomo. Imperatività della legge e rispetto dei valori della coscienza: un rapporto in difficile equilibrio dinamico, perché, se da un lato è fondamentale interesse dello Stato l'obbedienza alla legge, dall'altro lato è interesse dello Stato democratico governare i processi sociali con il consenso dei cittadini; e il consenso è tanto più convinto quanto più le istituzioni siano vissute dai cittadini come non oppressive dei valori più intimi di ciascuno.
    Allora l'obiezione di coscienza è, in certo senso, un recupero della democrazia a livello più profondo. Se democrazia è centralità della persona umana e dei valori di cui essa è portatrice, qui davvero la democrazia tocca le sue radici. Al punto da potersi affermare che il problema dell'obiezione di coscienza è, forse, il problema tipico dell'ordinamento democratico; tant'è vero che molti Stati democratici hanno fatto un passo estremamente significativo: hanno riconosciuto talune forme di obiezione di coscienza, facendole uscire dall'ambito della illegalità e introducendole nell'ambito della legalità, cioè riconoscendole come legittime.
    In Italia, ad esempio, due sono le forme di obiezione di coscienza riconosciute espressamente dalla legge e quindi considerate lecite: l'obiezione di coscienza al servizio militare e l'obiezione di coscienza del medico e del personale sanitario alla interruzione volontaria della gravidanza.
    Ciò significa che il cittadino, il quale per imprescindibili motivi di coscienza rifiuti l'uso delle armi, in ogni circostanza può chiedere di essere ammesso a prestare un servizio civile invece del servizio militare che lo addestrerebbe all'uso delle armi; e un medico, il quale sia convinto che procurare volontariamente un aborto costituisce uccisione di un essere umano che già esiste con tutte le sue caratteristiche e le sue inconfondibili qualità di persona, può sollevare obiezione di coscienza ed ottenere di essere dispensato dal partecipare ad una interruzione volontaria della gravidanza.

    Stato, legalità, senso del limite

    Che la legge riconosca come lecita l'obiezione di coscienza alla legge può apparire contraddittorio. È stato detto che riconoscere l'obiezione di coscienza significa, per un ordinamento giuridico, confessare la propria insicurezza. Ma non è affatto negativo che uno Stato confessi la propria insicurezza. Dalla sicurezza degli Stati, dalla loro convinzione di essere portatori di verità assolute e indiscutibili sono sempre derivate calamità immense, dittature, assolutismi, oppressione, negazione dell'uomo. Ben venga dunque l'insicurezza, che è senso dei propri limiti, ascolto dei dissenzienti, attenzione all'uomo concreto e alla problematicità delle questioni che lo riguardano.
    Sotto questo profilo, il riconoscimento dell'obiezione di coscienza è un segnale che l'ordinamento giuridico esprime circa la possibilità di cambiamento della norma obiettata; la società proclama implicitamente che si tratta di una situazione transitoria, destinata ad essere superata mediante una crescita qualitativa della moralità comune.
    La Nota pastorale dei Vescovi italiani «Educare alla legalità», pubblicata il 4 ottobre 1991, esprime questo concetto dicendo che lo Stato, nel consentire al cittadino la possibilità di obiettare lecitamente a talune norme, «riconosce di non poter essere totalizzante, non solo perché non chiede un'adesione incondi zionata della coscienza del singolo alla legge, ma anche perché non esige da tutti e in tutti i casi lo stesso comportamento esteriore, quando questo dovesse costringere il soggetto a contravvenire a quei doveri ai quali si sente obbligato per motivi inalienabili di eticità». Sotto tale profilo l'obiezione di coscienza rettamente intesa «non diminuisce ma rafforza il senso della legalità: la legge civile non può essere un'imposizione violentatrice della coscienza; dev'essere, invece, uno strumento reale di crescita umana dei singoli e della società».
    È evidente, comunque, che la ammissibilità dell'obiezione di coscienza incontra dei limiti, per così dire, strutturali tutte le volte che la legge tutela dei beni di importanza essenziale e di rilevanza costituzionale.
    Per esempio, non c'è obiezione di coscienza che tenga di fronte alla norma giuridica che vieta l'omicidio. Così pure un obiettore al servizio militare che rifiutasse anche un servizio civile si porrebbe fuori del quadro costituzionale, poiché si sottrarrebbe all'adempimento del dovere di difesa che l'art. 52,1° comma della Costituzione pone a carico di ogni cittadino (come è noto, il dovere di difesa può essere adempiuto attraverso modalità di difesa armata o attraverso modalità di difesa non armata).

    EDUCARE ALLA OBIEZIONE DI COSCIENZA

    Ed allora appare innegabile che l'obiezione di coscienza è un fenomeno positivo e che educare all'obiezione di coscienza significa educare al senso critico, alla centralità della persona, ad una partecipazione democratica consapevole ed autentica.
    In particolare, poi, l'obiezione di coscienza al servizio militare costituisce segno del maturare di una cultura di pace che, opponendosi all'uso delle armi in ogni circostanza, conduca al rovesciamento di quella «cultura di guerra» che ha dominato per secoli, che ci ha portati a guardare la storia dell'umanità come una storia di guerre e a concepire la guerra come espressione di virilità, di costruttività, come molla dello sviluppo dell'umanità.
    Viviamo in una società che per secoli ha creduto nella verità di questo principio: «Si vis pacem para bellum» (se vuoi la pace prepara la guerra), cioè si è nutrita di una cultura di guerra, che si è espressa nella follia di una illimitata corsa agli armamenti. Fare obiezione di coscienza al servizio militare significa esprimere il segno di una cultura diversa, ispirata al principio «Se vuoi la pace, prepara la pace». Gandhi ha detto una cosa fondamentale: «Il fine sta nei mezzi come la pianta sta nel seme». Come è necessario che io pianti un seme di pesco (e non un seme di melo) se voglio ottenere una pesca, così è necessario che io compia opere di pace se voglio ottenere la pace. Se preparo alla violenza non produco la pace. Occorre dunque praticare la nonviolenza, abbattere la «ideologia del nemico», rifiutare l'uso delle armi in ogni circostanza, operare per il superamento dell'istituzione militare.
    Ciò non significa sottovalutare o disprezzare chi fa o chi ha fatto il servizio militare. L'obiettore, che rivendica il rispetto della propria coscienza, deve essere il primo a rispettare le scelte di coscienza altrui.
    Ma ciò non vuol dire trascurare che gli eserciti sono strutture che preparano e addestrano alla violenza, e che sono essi stessi portatori di violenza al loro interno.
    La storia della legge penale militare lo conferma con estrema evidenza: basti pensare che fino a poco tempo fa il codice penale militare di pace puniva gravemente la violenza e l'ingiuria dell'inferiore contro il superiore (la cosiddetta insubordinazione) e assai meno gravemente la violenza e l'ingiuria del superiore contro l'inferiore (il cosiddetto abuso di autorità); basti pensare alle inaudite violenze che sono state commesse con la pratica della decimazione e della coercizione diretta...
    Ma anche a livello di prassi quotidiana la violenza affiora in forme svariate: dal cosiddetto nonnismo ad un tipo di educazione che fa perno sull'obbedienza acritica.

    Educare all'obiezione e educare alla pace

    Il problema dell'obiezione di coscienza è, dunque, un aspetto del problema della pace. E la pace, cioè la convivenza e la solidarietà tra gli uomini e tra i popoli, è, a sua volta, l'espressione delle più profonde aspirazioni dell'uomo, cioè di quell'etica planetaria di cui ha parlato Ernesto Balducci: un'etica che trascende le singole culture e la cui esigenza emerge oggi ineludibile.
    Come educare all'obiezione di coscienza e alla pace?
    Le indicazioni possono essere molteplici. E in materia esistono oggi testi e sussidi educativi numerosi, preparati e collaudati da esperti. Cito, a titolo esemplificativo, le pubblicazioni di Daniele Novara (Edizioni Gruppo Abele, Torino) e le molte pubblicazioni in cui si insegna a riflettere sulla pace e sulla solidarietà, anche attraverso giochi di simulazione (per esempio: Ferracin, Gioda e Loos, Giochi di simulazione per l'educazione allo sviluppo e alla mondialità, Elle Di Ci, Leumann, 1990). Il superamento dell'eurocentrismo, la scoperta e l'apprezzamento delle culture diverse dalla nostra, la promozione di una mentalità e di una prassi volte alla comprensione e alla solidarietà tra i popoli costituiscono formidabili fattori di costruzione della pace.
    Se dovessi tracciare alcune linee di massima, direi:
    1. Esistono due livelli di pace: la pace internazionale (che chiamerei «macropace») e la pace interpersonale (che chiamerei «micropace»). L'educazione alla macropace comincia dall'educazione alla micropace: non lasciarsi condizionare dal clima di violenza, di sopraffazione, di ricerca del profitto ad ogni costo, di mercificazione imposti dai mass media e dalla società dei consumi nella quale viviamo; esercizio quotidiano a dialogare con l'altro, a capire le ragioni dell'altro, specialmente quando l'altro appartiene a categorie di persone che solitamente tengono considerate «diverse»; accogliere l'altro ed essere concretamente solidali con lui; educarsi a capire e stimare le culture diverse dalla nostra, convincendosi che la convivenza di popoli diversi è una grande ricchezza umana, come lo è la convivenza di persone diverse.
    2. Esistono oggi nella realtà ecclesiale molte scuole di formazione socio-politica. Partecipare a tali scuole può essere un mezzo molto efficace di maturazione ad una cultura di pace.
    3. Vivere il volontariato nelle sue varie forme costituisce un formidabile strumento di crescita nell'impegno di promozione della coscienza civile e politica, nell'impegno di denuncia delle ingiustizie di ogni tipo. Chi semina germi di comprensione e di solidarietà opera concretamente per la pace, sia facendo crescere se stesso nella cultura di pace, sia immettendo nella società fermenti di crescita in quella direzione.
    4. Esistono scuole di orientamento e di formazione per obiettori di coscienza al servizio militare. La Caritas Italiana li organizza in varie diocesi per venire incontro al bisogno di informazione, di orientamento, di approfondimento che molti giovani avvertono di fronte alla problematica dell'obiezione di coscienza e della pace.


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