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    Educazione sociale e morale pubblica



    Guido Gatti

    (NPG 1993-01-32)


    L’impressione che il livello medio della moralità pubblica in Italia sia pericolosamente basso è talmente diffusa che non ha bisogno di molte parole per essere dimostrata. «In Italia - dice Alberoni in un suo celebre libretto [1] - quando una cosa è di tutti, la res publica, non è di nessuno. Se non c'è un referente concreto, individuale o collettivo, l'italiano non pensa a nulla. È questo il motivo per cui gli italiani buttano il biglietto della metropolitana per terra, la lattina di Coca-Cola sul ciglio della strada e le immondizie in un luogo dove nessuno li vede... L'abitudine di non curarsi di ciò che è di chiunque produce, di riflesso, dei servizi privati o pubblici che non sono stati ideati pensando al 'chiunque'. La struttura dell'amministrazione pubblica in Italia sembra essere modellata per strani fini, indipendenti dal bisogno concreto della gente. E tutti gli sforzi di riforma sembrano scontrarsi con una incapacità a mettere al primo posto lo studio concreto, meticoloso, accurato dei bisogni dei cittadini».

    Una situazione di degrado sociale

    «Questo fenomeno è stato descritto in molti modi. Come mancanza di senso civico, come tendenza al 'particolare' come `familismo amorale'. Quasi sempre però vi è stata vista una carenza del pubblico, una mancanza del senso di solidarietà sociale».[2]
    I sintomi di una simile mancanza sono innumerevoli e sotto gli occhi di tutti: nel nostro paese, molto di più che in altri paesi di analoga collocazione internazionale, le solidarietà di corto raggio, maggiormente legate agli interessi immediati dell'individuo, come quelli familistici o di categoria, prevalgono sempre su quelle di raggio più ampio, dando luogo a comportamenti particolaristici, corporativi, che creano disagi generalizzati, difendono privilegi ingiusti, mantengono forme di prepotenza arbitraria in chi ha ruoli pubblici e di frustrazione umiliante negli utenti dei servizi relativi.
    La gestione politica del paese riveste un carattere particolaristico e incontrollato, che trova espressione concreta nella cosiddetta «partitocrazia» e nel clientelismo, favoriti da un'amplissima gestione diretta di attività economiche da parte dello stato. La burocrazia statale, difesa dal garantismo oltranzista delle rispettive organizzazioni sindacali, ha un livello di inefficienza senza pari nel mondo occidentale.
    L'evasione fiscale e l'incapacità dell'amministrazione statale di porvi un qualche argine hanno raggiunto livelli insostenibili, con la conseguente ingiusta ricaduta di tutti gli oneri delle spese pubbliche sulle categorie dei lavoratori dipendenti, che alle tasse non possono comunque sfuggire.
    Potremmo aggiungere infine a tutto questo l'omertà e perfino i preoccupanti sintomi di consenso e di appoggio da parte della gente comune di cui godono, in non poche regioni del paese, le organizzazioni malavitose, che vengono a costituire una specie di stato dentro lo stato, controparte «morale» dello stato di diritto.

    Una società che diseduca

    Alla base di una simile situazione ci sono cause molto diverse, profondamente radicate nella storia del nostro paese. Certo è che questa situazione tende a riprodursi indefinitamente e perfino ad aggravarsi ulteriormente, attraverso l'influsso educativo esercitato sulle nuove generazioni dalla società stessa.
    Allo stesso modo che una società giusta ed efficiente tende a creare nei cittadini il consenso alle sue istituzioni, la fiducia reciproca, la consapevolezza della solidarietà oggettiva che lega il bene di ognuno al bene di tutti e perciò il senso della responsabilità sociale, una società inefficiente e perciò stesso ingiusta tende a creare nei cittadini la sfiducia nel sociale, la convinzione che si può realizzare il proprio bene solo indipendentemente da, e magari a spese del bene di tutti, e quindi una generale carenza di senso della responsabilità. Questi atteggiamenti, largamente diffusi, tendono a loro volta a perpetuare le ingiustizie e le inefficienze della società, alimentando un circolo vizioso che non si vede come possa essere interrotto.
    Nel caso dell'Italia, l'influsso negativo della società, operante come agenzia educativa globale, non trova per ora all'interno del sistema scolastico del pae se sufficienti elementi di correzione o forza di resistenza.
    La scuola italiana, attardata da una tradizione di estraneità rispetto ai problemi sociali del paese, solo da poco interrotta da sforzi, lodevoli ma isolati e non sempre illuminati, ha sempre prestato poca attenzione ai problemi dell'etica pubblica. Il sistema scolastico, inibito forse dal carattere pluralistico della nostra società che sottrae il problema morale al dominio del pubblico consenso e lo affida esclusivamente alle opzioni insindacabili dei singoli, non prevede nessuna forma di insegnamento morale. Una simile assenza di una trattazione esplicita e tematizzata del problema morale in quanto tale, priva della sua fondazione, e quindi di giustificazione interna e di efficacia educativa, il discorso specifico dell'etica sociale attuato, in maniera necessariamente parziale, attraverso l'insegnamento dell'educazione civica.
    Ma forse ancora più diseducativo di queste carenze curricolari è il carattere caotico, incivile, irrazionale del tipo di convivenza, di disciplina, di rapporti personali che non raramente vige di fatto all'interno di troppi settori della scuola italiana.
    Gli sforzi, anche esemplari e molto meritevoli compiuti da singoli operatori scolastici ed anche dall'istituzione scolastica nel suo insieme per superare una simile situazione di disarmo educativo, meritano il più incondizionato appoggio, ma hanno bisogno di ritrovarsi alle spalle il sostegno e la guida di una riflessione adeguata sui problemi morali in generale e su quelli dell'etica pubblica in particolare.

    LA CARENZA DI UN'ETICA PUBBLICA

    Ma proprio qui si rivela una delle carenze culturali più gravi del nostro paese.
    Pensiamo infatti che, a monte di questa insufficiente politica educativa si trovi, più ancora che una carenza di tipo organizzativo, una vera e propria assenza, in tutto il panorama culturale del paese, di un consistente filone di pensiero sull'etica pubblica, anzi una quasi totale mancanza di interesse per l'argomento in se stesso. Una tale assenza di interesse contrasta fortemente con la vivacità del dibattito che, su questo argomento, ha luogo negli altri paesi del mondo occidentale, soprattutto di lingua inglese, dibattito di cui al nostro mondo culturale arrivano soltanto echi affiochiti.
    Per etica pubblica si intende quella parte della morale che si occupa dei rapporti interpersonali e sociali in quanCi to mediati da strutture economiche, sociali e politiche e dall'esercizio di determinate funzioni pubbliche, contrassegnate dall'impersonalità e dall'efficienza burocratica.
    È quindi l'etica che studia quei doveri verso gli altri e quelle virtù sociali cui si ottempera o che si esercitano con i propri comportamenti dentro le istituzioni sociali, e attraverso il contributo al loro funzionamento e alla loro efficienza in termini di «bene pubblico».
    Il problema principale di ogni etica pubblica non è tuttavia prima di tutto un problema di efficienza (di natura più tecnica che propriamente morale), ma ancora più a monte, un problema di conciliazione etica. Si tratta di mettere d'accordo (a livello di «dover essere» naturalmente, perché questo è il campo dell'etica) il privato (e quindi gli interessi, le preferenze, i diritti vantati dai singoli) con il pubblico (gli interessi degli «altri», il bene degli altri in quanto «bene comune», diverso, anche se non contrapposto, rispetto al mio bene).
    In un contesto di pluralismo, si tratta di coniugare la tolleranza della società democratica nei confronti delle libere opzioni dei singoli, della loro personale visione della «vita buona», della legittima difesa che essi fanno dei loro interessi particolari, con le esigenze di collaborazione ordinata e di scelte universalmente vincolanti, imposte dalla necessità di massimizzare il benessere collettivo.

    Etica pubblica come determinazione del giusto e dell'ingiusto

    Questa esigenza di conciliazione (a livello di pensiero morale) tra privato e pubblico, e in genere tutta la ricerca e il dibattito relativo all'etica pubblica è largamente assente dal nostro panorama culturale.
    Negli altri paesi del mondo occidentale, invece, l'etica pubblica assume tanta importanza da diventare praticamente l'unica vera forma di etica. Di fatto, molte forme di filosofia morale riducono oggi tutta la moralità alla morale sociale. Si tenta in questa modo di aggirare il pluralismo religioso e ideologico presente nella nostra società, elaborando una morale minimale, che possa godere del consenso di tutti. Si parte da una premessa estremamente ovvia e poco impegnativa: tutti gli uomini hanno bisogni, desideri, interessi fondamentalmente uguali, ma molto spesso reciprocamente concorrenti. Quando questi bisogni non interferiscono a vicenda non sorge nessun problema morale: ognuno persegue i suoi bisogni e i suoi desideri come meglio crede, guidato unicamente dalla sua prudenza e quindi da una forma di egoismo legittimo e razionale.
    La morale, secondo questa concezione, interverrebbe soltanto là dove le pretese e gli interessi dei singoli o dei gruppi contrastassero a vicenda; toccherebbe appunto alla morale decidere quali di questi bisogni debbano essere considerati prevalenti e trasformati in diritti.
    In una simile concezione della morale, per decidere che cosa è giusto o ingiusto, bene o male, non sarebbe necessario condividere una visione determinata della realtà profonda dell'uomo, del senso della sua vita e del suo destino finale; queste cose sono lasciate alla libera scelta dei singoli; sarebbe sufficiente invece riconoscere la fondamentale parità di ogni uomo in quanto essere del bisogno, della fragilità e della sofferenza.
    Una simile concezione ristretta della morale avrebbe il pregio di poter essere accettata da tutti, anche a prescindere dalle differenti scelte religiose, filosofiche e ideologiche, esistenti di fatto in una società pluralistica.

    Utilitarismo e neokantismo

    È nel tentativo di dare una risposta a questa problematica minimale, ma di fatto largamente condivisa, che sono state elaborate, negli ultimi secoli, le diverse «teorie morali» oggi più in voga, almeno a livello accademico: ognuna di esse si presenta come una particolare soluzione del problema della determinazione di ciò che va ritenuto giusto e di ciò va ritenuto ingiusto, nell'ambito delle pretese concorrenti avanzate dalle diverse parti sociali.
    Nessuno pensa naturalmente a una decisione arbitraria e casuale: per l'utilitarismo il giusto e l'ingiusto sono determinati in funzione della massimizzazione del benessere collettivo («the greater happiness for the greater number»). È a questo calcolo di massimizzazione che si ispira la morale privata come quella pubblica; è essa che misura la razionalità e la funzionalità delle istituzioni pubbliche.
    Per Kant e per le diverse forme di etica neokantiana (Kohlberg, Rawls, Apel e Habermas), il giusto e l'ingiusto sono determinati in base al cosiddetto «principio di universalizzabilità»: è giusto per me solo ciò che sono disposto a riconoscere e a rispettare come tale per chiunque altro si trovi nella mia stessa situazione: è la «regola d'oro del vangelo»: Kohlberg parla di principio di reciprocità; Rawls di una valutazione contrattata da dietro il «velo dell'ignoranza» nella «situazione originaria».
    Si presuppone che il giusto e l'ingiusto, proprio perché fondati sulla radicale uguaglianza di ogni uomo, debbano poter essere riconosciuti come tali da chiunque sappia guardare al conflitto di interessi, in modo imparziale, cioè mettendosi nei panni di tutti gli interessati, confrontando senza prevenzioni i contrastanti punti di vista. La valutazione del giusto e dell'ingiusto che emerge da questo complesso e simultaneo «mettersi nei panni degli altri» è quella che ha la più alta probabilità di essere vera, cioè appunto imparziale, rispettosa dell'uguaglianza di tutti.
    Naturalmente nessuna di queste teorie etiche ha ottenuto lo scopo che si prefiggeva, cioè quello di offrire all'etica in generale e alla morale pubblica in particolare il punto archimedeo su cui poter fondare il consenso universale di tutte le parti sociali e di tutte le province culturali della nostra società.
    E hanno probabilmente più d'una ragione quanti pensano che il motivo vada cercato in una impostazione sbagliata del problema: fondare l'etica sociale e, a maggior ragione, l'etica in generale, è molto più che trovare dei criteri per decidere tra le pretese concorrenti nell'arena sociale.

    Un interrogativo aperto

    Ma l'interrogativo cui esse hanno cercato di dare una risposta resta un interrogativo reale. Anche se la determinazione del giusto e dell'ingiusto, dei diritti e dei doveri, non è tutta la morale, e soprattutto non ne è il fondamento, resta vero che tale determinazione ne costituisce un elemento insostituibile. E la povertà del dibattito su questi temi del nostro paese [3] va vista come un sintomo e una prova del persistere di una situazione di sottosviluppo culturale in tema di etica pubblica.
    È forse anche per questo che da noi continua a prevalere una proclamazione retorica di tutti i possibili diritti da parte di tutti, in un contesto comunicativo in cui nessuno si preoccupa di coordinare le pretese concorrenti, di discutere e concordare le inevitabili preferenze, selezioni e rinunce, di accettare i doveri corrispondenti ai diritti, e di farsi carico delle responsabilità correlative.
    «I tuoi diritti!» proclama enfaticamente un manifesto di questi tempi, chiedendo l'adesione a un'organizzazione sindacale, e motivandola esclusivamente con questo facile richiamo ai «propri» diritti, carico di promesse tanto più illusorie, quanto più destinate indeterminatamente a persone, che avanzano in realtà pretese per molti aspetti contraddittorie.
    Lo slogan «vietato vietare» potrebbe essere un po' il simbolo di questa insignificanza di una proclamazione dei diritti, che resta viziata proprio dalla contraddizione interna che le viene dal rifiuto di dare ad essi determinatezza ed efficacia, attraverso il riconoscimento dei loro limiti e delle responsabilità che li accompagnano.
    In un simile contesto, la proclamazione dei diritti viene ad assumere un carattere esclusivamente retorico, e non impedisce perciò la guerra in cui alla fine, a essere sconfitto è il bene comune, proprio in quanto bene di tutti.
    La chiamata in causa delle responsabilità di uno stato, tanto più impotente quanto più sovraccarico di compiti e di responsabilità, assume in questo caso l'aspetto di una evasione generalizzata dalle proprie responsabilità e di un oppio della propria coscienza.
    Essa è solo un momento del più generale sottrarsi di tutti alle proprie responsabilità sociali, per scaricarle, in una progressione indefinita verso l'alto, su un responsabile di livello superiore, che assume alla fine il significato di una figura puramente mitica, capace di offrire un alibi ai comportamenti irresponsabili di chiunque.
    In una situazione del genere ci sembra urgente rimettere al centro del dibattito sociale il problema della coordinazione dei diritti di ognuno con quelli di tutti, e quindi dei diritti con i doveri e le responsabilità correlative.
    Tale dibattito aprirebbe agli intellettuali del nostro paese un compito di ricerca, ma anche una missione educativa, cui purtroppo non sono sempre stati fedeli, paralizzati da una specie di curioso «rispetto umano».

    UN NUOVO ORIZZONTE DI RESPONSABILITÀ

    Ma non sarebbe sufficiente: occorrerebbe un'opera di più puntuale coscientizzazione dell'ambito e della profondità delle responsabilità connesse con l'agire sociale dei singoli e dei gruppi.
    In questi ultimi anni, un libro di H. Jonas, diventato abbastanza famoso al punto di essere tradotto anche in italiano,[4] ha avuto il merito di dare voce autorevole a un processo di sensibilizzazione, in atto già da anni nella nostra società, nei confronti delle responsabilità sconosciute e inavvertite, comunque non calcolate o più o meno consapevolmente eluse che pesano sulle nostre scelte individuali e collettive, in forza delle conseguenze, spesso irreversibili, che esse avranno sul futuro dell'umanità.
    Meno rilievo ha avuto e ha tuttora da noi un altro livello di responsabilità, cui la cultura etica del nostro paese si dimostra incapace di prestare l'attenzione debita. È il mondo di quelle responsabilità verso il nostro prossimo che sono mediate dalle strutture e dal funzionamento della macchina sociale.
    Il carattere complesso e anonimo della società industriale rende più difficile la percezione del carattere decisivo delle solidarietà oggettive di lungo raggio, che passano attraverso le strutture pubbliche e la loro funzionalità. Si direbbe che l'ingranaggio indecifrabile dell'organizzazione tecnocratica della società sia fatto apposta per oscurare la trasparenza delle conseguenze oggettive che i comportamenti sociali dei singoli e dei gruppi hanno sugli altri membri della società, soprattutto sui più deboli, proprio mentre i vincoli della solidarietà oggettiva di tutti con tutti si fanno sempre più forti ed estesi, in un mondo che diventa sempre più piccolo e sempre più assediato dagli stessi problemi di carattere globale.
    Ma nel nostro paese, a queste difficoltà di carattere strutturale si aggiungono quelle, già viste, di carattere storico-culturale.
    Da una parte, le lontane radici cattoliche della nostra cultura tendono a enfatizzare in modo unilaterale i rapporti sociali brevi, di tipo interpersonale o comunitario, per relegare in secondo piano i legami sociali indiretti, mediati dalle istituzioni e dalle funzioni pubbliche della società civile, dimenticando troppo spesso la loro decisività ai fini del benessere comune.
    Dall'altra parte, un certo radicato dissenso ideologico globale nei confronti delle istituzioni sociali di fatto esistenti, che vede in una società «totalmente altra» l'unica soluzione accettabile del problema sociale, diffonde e mantiene la convinzione ingenua e irresponsabile che l'unico servizio che si possa rendere al prossimo sia quello di preparargli una struttura sociale completamente diversa, capace di risolvere da sé sola, in quanto struttura ideale, tutti i suoi problemi.
    Ci sembra sia presente nella nostra cultura una particolare commistione perversa tra carica utopica e mistificazione ideologica, che ostacola la percezione delle concrete responsabilità inerenti alla vita sociale.
    Dopo Mannheim, utopia e ideologia sono generalmente concepite come forme opposte ed autoescludentisi di coscienza sociale. L'ideologia è vista come una legittimazione dell'ordine costituito e quindi dei privilegi e delle contraddizioni che esso determina; l'utopia sarebbe invece una forma di pensiero che, prendendo posizione contro il presente e il dato di fatto, di cui denuncia le contraddizioni, aspira ad anticipare un futuro diverso, di cui contribuisce a mantenere aperta l'attesa e a creare, magari da lontano, la possibilità. Nella cultura politica italiana, contrassegnata da una tradizione di radicale dissenso emotivo nei confronti dello stato, la coscienza utopica, diventata pensiero ufficiale di movimenti politici di massa, subisce un processo di istituzionalizzazione e di ideologizzazione (in senso deteriore) che porta a una presa di distanza radicale nei confronti di tutto l'esistente e quindi a forme di deresponsabilizzazione devastante nei confronti delle strutture che mediano i rapporti sociali.
    In questa visione, ogni dovere morale verso la società si riduce a quello di una dissociazione globale nei confronti dell'esistente e di un rifiuto (naturalmente solo velleitario e proprio per questo «ideologico») di ogni mediazione e di ogni soluzione intermedia, per stare dalla parte di un futuro assoluto, tanto più immaginario quanto più totalizzante.
    Ogni impegno per garantire un migliore funzionamento della società attuale risulterebbe inutile, quando non addirittura nocivo, dato che rischierebbe solo di ritardare la «soluzione finale», addormentando la consapevolezza delle contraddizioni insanabili del presente.
    La recente caduta di questa tensione utopica non ha portato finora a una nuova responsabilizzazione: non potendo contare su un adeguato retroterra di moralità sociale diffusa e non essendo stata accompagnata da una seria azione educativa, essa ha prodotto più che altro delusione e cinismo; al punto di dare spesso l'impressione che l'esasperazione dei comportamenti individualistici e corporativi provenga proprio da quegli strati sociali e generazionali che più erano stati coinvolti nell'esaltazione utopistica del passato.

    Urgenza di una riscoperta

    In una situazione di questo tipo, ci sembra che tanto gli irriducibili cultori dell'utopia radicale, quanto i loro transfughi nelle file dei rassegnati e degli opportunisti, abbiano bisogno di scoprire che, accanto ad una lealtà verso le istituzioni che si risolve in una forma di connivenza e di complicità con gli aspetti negativi che ancora le caratterizzano (e in un certo senso sempre le caratterizzeranno, perché la giustizia assoluta sarà sempre solo davanti a noi), c'è una forma di lealtà verso le istituzioni che, al di là delle loro imperfezioni, e senza trascurare di lottare per correggerle, è di fatto rivolta alle persone concrete che esse bene o male continuano a servire e che rischiano di diventare vittime innocenti di una dissociazione, che diventa in realtà una forma di sabotaggio irresponsabile.
    La cultura cattolica (e qui penso soprattutto alle istituzioni educative che la esprimono e la riproducono) ha invece bisogno di scoprire che, accanto al «prossimo» che è tale in forza di una vicinanza immediatamente percepibile ed emotivamente coinvolgente, esiste un «prossimo» che è tale perché posto al terminal di una funzione sociale, come fruitore obbligato di un servizio sociale di cui qual cuno è responsabile in forza della carità fraterna, ma spesso prima ancora per esigenze di giustizia stretta e per dovere professionale.
    In questo senso il malato è prossimo del funzionario del sistema sanitario nazionale, per quante riserve si possano avere nei suoi confronti; il pensionato è prossimo del funzionario della sicurezza sociale; l'operaio è prossimo del burocrate che lavora alla gestione dei servizi statali che condizionano la competitività della sua impresa; l'esercente o il professionista è prossimo del bisognoso che lo stato può assistere in modo adeguato solo se essi non si sottraggono al dovere di pagare le tasse; e su ognuno incombono precise responsabilità morali a prescindere dal grado occupato nelle rispettive gerarchie sociali: si tratta di una responsabilità «in solidum» , da cui non esentano né le inadempienze degli altri, né le deficienze del sistema.
    E tutti hanno bisogno di prendere atto che, accanto alle responsabilità sociali, legate a una consapevole e coraggiosa partecipazione alla gestione democratica della cosa pubblica, all'azione politica volta a trasformare le strutture della società per rendere più giusta la convivenza umana, forse troppo unilateralmente enfatizzate nel passato, ci sono altre responsabilità sociali, più umili e quotidiane, ma più dirette ed urgenti, legate all'espletamento, sollecito e onesto, dei compiti che a ognuno sono affidati all'interno di «questa» società, non ancora perfetta, ma già da sempre luogo e strumento di forme decisive di solidarietà tra tutti i suoi membri, carica di conseguenze per la qualità della loro vita.

    Un compito educativo

    Rendere trasparente la trama fittissima ed inestricabile di questi legami di solidarietà oggettiva tra tutti i suoi membri e delle responsabilità morali da essa innescata, è anzitutto compito della cultura dotta, degli intellettuali che elaborano «alla fonte» il pensiero morale e le opinioni sociali del paese.
    Ma anche per gli educatori (e pensiamo qui in modo particolare agli educatori della fede), più vicini ai giovani e alla gente in genere di quanto non siano gli intellettuali di professione, questa opera di coscientizzazione rappresenta uno dei contributi più decisivi che essi possono rendere alla formazione morale delle persone e alla qualità umana della convivenza sociale.
    Per il credente si tratta soltanto, come si è visto, di trarre tutte le conseguenze del messaggio evangelico sull'amore del prossimo e di declinare in maniera credibile la fedeltà al regno di Dio con la lealtà nei confronti dell'uomo che di questo regno è cittadino e destinatario.
    A questa coscientizzazione vanno intenzionalmente orientate tutte quelle forme di volontariato caritativo, che sono di loro natura volte non tanto a risolvere in modo esauriente e definitivo problemi che possono essere risolti solo attraverso forme istituzionali di solidarietà collettiva, quanto a mettere le persone e soprattutto i giovani a contatto diretto con il bisogno, la sofferenza, la vulnerabilità degli anziani, dei malati, degli emarginati.
    Vivificata da questo contatto diretto, la necessaria informazione e diffusione del pensiero morale potrà creare una maggiore consapevolezza delle conseguenze negative che hanno su tutti i cittadini le disfunzioni della macchina sociale, dovute alle colpevoli omissioni o trasgressioni di troppi altri cittadini e alla generale carenza di senso di responsabilità sociale e di etica pubblica che stanno alla loro base.
    Non ci illudiamo che le cose possano cambiare da un giorno all'altro, ma pensiamo che questa sia l'unica strada per camminare nella direzione giusta.

    (Da «Orientamenti pedagogici», 38 (1991), pp. 779-789.)


    NOTE

    [1] E Alberoni-S.Veca, L'altruismo e la morale, Milano, Garzanti, 1988, 9.
    [2] Ibidem, 8.
    [3] Potrebbe esserne una prova l'assenza nel nostro paese di una traduzione delle opere di L. Kohlberg.
    [4] H. Jonas, Il principio responsabilità. Un'etica per la civiltà tecnologica, Torino, Einaudi, 1990.


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