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    Un annuncio narrativo



    Narrare per la speranza /4

    Riccardo Tonelli

    (NPG 2006-08-38)


    I modelli denotativi (quelli dell’ambito educativo) e quelli evocativi (che ho raccolto attorno alla scelta della narrazione) hanno le proprie regole comunicative. Solo il rispetto pieno di queste regole permette una comunicazione corretta, capace di farsi propositiva verso la decisione personale sulla realtà che il segno evoca.
    Nell’armonia e nella distinzione modelli comunicativi denotativi ed evocativi costruiscono l’evangelizzazione, come espressione di una competenza comunicativa al servizio della potenza di Dio che chiama e si fa vicino ad ogni uomo attraverso la mediazione della vita quotidiana e della comunità ecclesiale.
    La riflessione si farebbe lunga se volessi analizzare, con la calma necessaria, l’ambito educativo e quello della narrazione in ordine alla evangelizzazione. Come ho già anticipato nella introduzione a questa rubrica, mi fermo solo sulle note che riguardano quella dimensione dell’evangelizzazione che ho, anche in altri contesti, indicato con l’espressione «narrazione».[1] Studio soprattutto le esigenze che dovrebbero essere osservate nel momento in cui l’evangelizzatore, con timore e tremore, spalanca l’abisso del mistero per consegnare ad un senso e ad una speranza, che è prima di tutto e fondamentalmente dono prezioso da accogliere, l’incontro con le due mani robuste che afferrano le nostre braccia alzate. Le chiamo «regole di sintassi comunicative», in sintonia con quelle regole che ogni buon discorso è sollecitato a rispettare, se vuol rendersi comprensibile. In questo caso, riguardano soprattutto le esigenze che nascono dall’evento che annunciamo per la vita e la speranza.
    Le cose che desidero sviluppare sono proposte… in quattro puntate: l’attuale e i tre contributi che seguiranno nelle pagine della rivista.

    Rapporto tra racconto e messaggio

    Una abitudine diffusa utilizza il racconto per concentrare l’attenzione degli ascoltatori e poi, assicurata l’attenzione e catturato l’interesse, viene richiamato in modo esplicito il messaggio che sta a cuore comunicare. Il racconto funziona quasi come semplice occasione, dal momento che i «contenuti» sono poi comunicati attraverso spiegazioni, interpretazioni, raccomandazioni successive.
    La prima regola di sintassi comunicativa propone qualcosa di profondamente diverso: il racconto deve diventare messaggio. Il messaggio, in altre parole, deve scaturire «naturalmente» dal racconto. Non ha senso terminare il racconto con una sua spiegazione e interpretazione, per tirare la «conclusione». Un racconto, che ha bisogno di eccessive spiegazioni, non è un buon racconto, come un segno che ha bisogno di una lunga spiegazione… non è un segno, almeno per coloro a cui è proposto.
    Di conseguenza, vanno scelti quei racconti che più facilmente possono diventare messaggio, narrandoli in modo da facilitare la loro interiorizzazione come messaggi.
    Una cosa va chiarita.
    L’adesione e la decisione personale non va consegnata al racconto, ma al messaggio in esso contenuto e all’evento che racconto e messaggio vogliono evocare. Di conseguenza, non può di certo essere esclusa l’attenzione e la rilevanza del messaggio. Voglio solo ricordare che questo messaggio non va aggiunto al racconto, ma deve scaturire dal racconto stesso.
    Il narratore non «spiega» ma racconta. Il destinatario invece spiega a sé il racconto, per coglierne il significato oltre la storia narrata. È impegnato a «lavorare con le parole» il racconto stesso, per farlo diventare messaggio-per-sé. Quando il messaggio è contenuto nel racconto stesso, viene affidato alla fantasia e alla passione dell’ascoltatore (sostenuta e incoraggiata dal racconto) il compito di tirare le sue conseguenze sul piano dei contenuti.
    Per favorire l’interiorizzazione del messaggio, il narratore introduce nella narrazione le espressioni della fede cristiana. Lo fa però secondo lo stile narrativo, evitando di ridurre il racconto ad occasione per diffondere informazioni, svuotandolo così della sua capacità evocativa.
    Nello sviluppo del racconto sono messi in rilievo particolari, scorre qualche battuta di commento, sono riprese, in dialogo diretto, espressioni e testimonianze... Questi passaggi narrativi non sono neutrali rispetto al contenuto della fede. Al contrario, in qualche modo, lo traducono in stile narrativo.
    Per questo, vengono preferibilmente narrati fatti capaci di coinvolgere anche persone distratte e deconcentrate come sono molti giovani di oggi. La condizione è la capacità di intrecciare, in un unico racconto, le differenti storie che fanno l’esistenza di una persona: la vita quotidiana e i fatti impegnativi del Vangelo e della Bibbia.
    È facile constatare il rischio insito in questo orientamento. Ma si tratta di una scelta tipica della narrazione, prevista e ricercata con attenzione e preoccupazione. La narrazione, infatti, vuole coinvolgere narratore e referenti in un grande evento salvifico, che trascina il narratore e coloro cui la narrazione è offerta verso decisioni personali, da maturare e vivere in libertà e responsabilità.

    Quali «fatti» raccontare?

    Chi evangelizza narrando, racconta storie vissute.
    Non possiamo però ignorare che la fede nasce da «fatti» specialissimi, che non sono sicuramente solo gli avvenimenti della nostra vita quotidiana. I credenti se li tramandano, di generazione in generazione, perché riconoscono in essi il fondamento della loro fede e della loro speranza. Nemmeno possiamo dimenticare che l’autentica «dottrina della fede» non rappresenta un momento alternativo ai fatti, quasi si potesse contrapporre «fatti salvifici» a «messaggi teologici». Le verità della fede sono l’interpretazione degli eventi di salvezza, secondo formulazioni culturali che li rendono comunicabili e che ne facilitano l’interiorizzazione personale.
    Chi sceglie la narrazione non rifiuta la dimensione sistematica della fede né riduce la sua verità ad un elenco di fatti. Preferisce ricostruire la fede raccontando fatti, perché ha la convinzione che essi si trasformino più facilmente in messaggi, nel cuore di chi ascolta.
    Quali fatti racconta e come li racconta?
    Una lunga e consolidata tradizione educativa ha inventato le «favole» per dare all’educatore la possibilità di raccontare fatti edificanti, quando sembra che la storia vissuta sia troppo avara di opportunità. Anche nella evangelizzazione e nella catechesi c’era l’abitudine di fare un largo uso di «racconti», per catturare l’attenzione di gente distratta e svogliata. Qualche volta, persino la Bibbia è stata utilizzata come un’abbondante miniera di racconti dal sapore un po’ esotico.
    Chi evangelizza narrando, non può raccontare favole edificanti: non servono a nulla, per far nascere fede e speranza.
    La nostra vita, la nostra speranza e la confessione della nostra fede sono radicati in eventi salvifici, precisi e concreti, collocati in un segmento verificabile di storia.
    Solo questi eventi «accaduti» danno vita e speranza; non la passione entusiasta del narratore né le attese brucianti dei destinatari della narrazione. Quando questa verità «accaduta» è travolta nell’invenzione soggettiva, il fatto può anche interessare e affascinare l’ascoltatore. Sicuramente però non lo salva.
    Un’affermazione così solenne sembra risolvere tutti i problemi, tracciando un confine netto. E invece ne apre uno che sta a monte di tutti gli altri. Quando i fatti raccontati sono «veri»?
    Esiste una verità fredda, sicura, tutta centrata sulla preoccupazione che nessun particolare sfugga e che quelli descritti corrispondano esattamente a quanto è accaduto.
    Molti dubbi e difficoltà investono oggi la possibilità di assicurare una pretesa tanto raffinata. Ci stiamo rendendo conto sempre di più del condizionamento esercitato dalla collocazione, strutturale e culturale, di colui che si mette a descrivere i fatti. Per questo, se la ricerca di una verità così perentoria può affascinare il cultore delle scienze esatte, sembra interessare invece un po’ meno colui che racconta fatti per suscitare vita e speranza.
    La narrazione cerca una verità, calda e appassionata. Non si lascia condizionare eccessivamente dalla preoccupazione che le cose raccontate siano avvenute esattamente così come sono narrate. Certamente il racconto è radicato su fatti oggettivi ed esprime quello che, grosso modo, è veramente accaduto. Ma il diritto alla parola non viene sicuramente dall’esatta ripetizione dei particolari.
    I Vangeli ci propongono dei modelli concreti, che suggeriscono non solo cosa narrare, ma anche come narrare, per radicarci nella verità.
    Le parabole che Gesù ha raccontato propongono fatti che fanno parte della lunga storia degli uomini, anche se non sappiamo né dove né quando sono capitati. Sono fatti veri perché «verosimili»: quello che è raccontato, può benissimo essere accaduto da qualche parte. Trasfigurato nel racconto salvifico di Gesù, fa immediatamente riferimento a qualche pezzo di vissuto quotidiano.
    In una città sperduta e ignota ha abitato un ragazzo che, un triste giorno, è scappato di casa, dilapidando il patrimonio di famiglia. Molti padri l’hanno atteso con ansia, anticipando nel dolore il giorno del ritorno. Uno ha avuto questa gioia. E ha fatto il gesto che solo l’amore riesce a motivare, di gettare le braccia al collo del figlio ritornato, organizzando una grande festa come segno di un perdono incondizionato. Sarebbe sciocco cercare di identificare questi personaggi, dando ad essi un nome, una patria, dei riferimenti storici.
    Nessuno nega la possibilità di perdere monete preziose nella confusione e nel buio di una vecchia casa. Ed è logica la premura affannata di chi si mette a cercare il tesoro smarrito.
    Non serve quantificare il danno o giustificare l’accaduto, citando le abitudini delle donne ebraiche. Il fatto è salvifico perché è trasfigurato nella libertà evocativa del racconto di Gesù.
    Lo stesso facciamo raccontando oggi. Non raccontiamo fatti della vita di Gesù e della storia dei credenti, cercando a tutti i costi una loro ricostruzione capace di resistere alle spietate regole della critica storica. Li raccontiamo così come ci sono tramandati, selezionandoli sulla provocazione del contesto, del grido di speranza e di dolore che sale, spesso silenzioso, dalla vita di coloro a cui vogliamo regalare il Vangelo di Gesù. E li trasfiguriamo, nell’atto narrativo, per restituire ad essi quella forza evocativa che ha suscitato la fede di tanti credenti.
    Per questo, anche nei testi dei Vangeli lo stesso avvenimento ha descrizioni diverse e non è certo la cosa più importante cercare la figura più autentica, come se ce ne fosse una, a scapito delle altre. Diventa davvero difficile cercare di separare il fatto descritto dall’esperienza dell’evangelista e dalla fede della comunità apostolica.

    Fatti che danno vita e speranza

    La narrazione vuole suscitare vita e speranza. Non racconta fatti qualsiasi, scelti solo perché interessanti o stupefacenti.
    La narrazione sceglie «fatti salvifici», capaci cioè di sollecitare ad entrare, con gioia e decisione, nel misterioso mondo della salvezza di Dio.
    Quali fatti sono «salvifici»?
    Se pensiamo alla salvezza nello schema dualista che contrappone sacro a profano, possiamo facilmente concludere che sono salvifici i fatti che riguardano qualcosa di sacro; non lo sono invece quelli che si riferiscono alle esperienze della nostra vita quotidiana. L’invito a narrare fatti salvifici si risolve quindi nella preoccupazione di raccontare solo eventi della «storia sacra».
    Questo modello è stato ormai superato. È entrata in crisi la visione teologica sottostante quando abbiamo riscoperto la sacramentalità salvifica della stessa vita quotidiana. E ci rendiamo conto che la salvezza non scaturisce da determinati gesti, solo perché sono stati «fisicamente» posti; essa è l’invito ad una novità di vita, offerta per dono, che richiede sempre una risposta libera e responsabile.
    Sono salvifici tutti i fatti della vita quotidiana quando servono a produrre vita là dove qualcuno sta sperimentando il peso opprimente della morte e quando questa esperienza aiuta a costatare la presenza, misteriosa e inquietante, del Dio della vita.
    Le due preoccupazioni sono tanto collegate da costituire come i due volti della stessa realtà.
    La vita «piena e abbondante» (Gv 10, 10) è il riconoscimento della sovranità di Dio su ogni uomo e su tutta la storia, fino a confessare che solo in Dio è possibile possedere vita e felicità. Questo Dio, però, di cui proclamiamo la signoria assoluta, è tutto per l’uomo. Il credente è tanto consapevole di questa esperienza, da consegnare a lui la sua fame di vita e di speranza.
    Il Dio di Gesù è un Dio di cui ci si può fidare. Lo attestano le cose meravigliose compiute per il suo popolo e soprattutto quelle operate in Gesù.
    Dove appare lui, l’Uomo del Regno, scompare l’angoscia, la paura di vivere e di morire; ritorna la libertà e la gioia di vivere, nel nome di Dio.
    Il racconto non ha la forza di assicurare questa esplosione di vita «da solo». Esso opera quasi come sacramento della vita. Riconsegna all’uomo la sua fame di vita e lo aiuta ad affidare tutto di sé al suo Dio. Per questa funzione simbolica, possiamo affermare che sono salvifici i racconti che sanno evocare fatti orientati verso il senso: si collocano cioè in quello spazio, misterioso e intimissimo, in cui le persone dicono a se stesse le ragioni del loro vivere e del loro sperare, quei riferimenti decisivi della esistenza, che aiutano a portare il dolore, ad amare senza ripiegamenti, a cercare la verità con costanza.

    Raccontare suscitando un intreccio di esperienze

    Colui che è chiamato a commentare un episodio della storia o chi insegna ad altri un teorema di geometria, deve attenersi ai fatti e li deve presentare con chiarezza e oggettività. Compie il suo dovere comunicativo quando dice correttamente le cose che deve dire. L’entusiasmo e il coinvolgimento appassionato non gli sono richiesti; possono persino risultare negativi, quando rischiano di travolgere lo spessore dei dati di fatto.
    Questo non basta a chi racconta la storia di Gesù per la salvezza.
    La narrazione è autentica quando è capace di suscitare, attraverso lo stesso atto narrativo, «un intreccio di esperienze».
    Per capirci bene, è utile distinguere tra narrazione e descrizione.
    La descrizione rappresenta realtà esistenti (ambienti, paesaggi, personaggi, informazioni), lontane o sconosciute; le strappa, in qualche modo, dal loro tempo naturale e dal loro spazio logico, per porle «davanti» a qualcuno. Per fare questo dà informazioni, scatena la capacità immaginifica, indugia su certi particolari, assicura «spettacolo».
    Basta pensare ad un reportage televisivo, alle pagine di un buon romanzo, ai giochi di parole che trasportano lontano, fino a rendere la persona «dentro» i fatti descritti. Nel caldo confortevole della nostra stanza o sprofondati in una comoda poltrona, ci sentiamo in prima fila ad ammirare avventure lontane, avvenimenti lieti o tristi, che, in fondo, coinvolgono solo la nostra fantasia e appagano la nostra curiosità.
    Le cose descritte non ci toccano: restiamo fuori dal raggio mortifero delle armi da guerra o ci immergiamo solo con il desiderio nelle acque trasparenti di mari proibiti alle nostre concrete possibilità.
    La narrazione percorre sentieri comunicativi molto diversi.
    Gli eventi che essa rappresenta sono sprofondati in un tempo lontano; diventano però nell’atto narrativo vicini e contemporanei al narratore e a coloro a cui la narrazione è rivolta. La contemporaneità e la vicinanza non viene assicurata dall’abbondanza dei particolari descrittivi o dalla vivacità spettacolare con cui sono riattualizzati. È assicurata invece sul fatto che si sta concretamente parlando delle storie vitali del narratore e degli interlocutori, nel racconto di una storia lontana nel tempo e tanto presente da diventare un pezzo della nostra esistenza.
    Chi racconta la storia felice di Gesù che moltiplica il pane per sfamare coloro che l’avevano seguito dimenticando tutto, non rende vivo e attuale il racconto perché riesce a descrivere bene l’erba fresca di primavera e le dolci colline che scivolano verso il lago di Genezareth. Lo rende attuale perché riesce a far coincidere la fame degli amici di Gesù con la nostra quotidiana fame, e perché sollecita ciascuno a schierarsi sulla provocazione inquietante di colui che ha sfamato sé e gli altri perché ha deciso di rischiare nella condivisione dei pochi pani che si era portato come provvista.
    È una storia nostra quella raccontata; tra la folla ci siamo ritrovati anche noi, divisi tra la ricerca affannosa di possesso e il desiderio sincero di spartire tutto.
    Raccontandoci di quell’uomo egoista che ha sacrificato l’unica pecora del vicino per preparare un banchetto di festa all’ospite gradito, lui che di pecore ne aveva almeno cento, ci sentiamo chiamati personalmente in causa. Raccontiamo questa storia di sopraffazioni e di pentimenti non per far rivivere una pagina famosa della storia del popolo ebraico. Non ci interessa sapere se le cose sono andate davvero così o se Natan si è inventato tutto per mettere meglio in crisi Davide. Come è capitato a Davide, ci accorgiamo che nel racconto del profeta c’è una pagina della nostra vita, che di pecore ne abbiamo sottratto tante all’affetto e alla fame dei poveri, magari con l’intenzione di organizzare meglio la festa.
    La narrazione propone avvenimenti che hanno protagonisti precisi e concreti, con un nome e una collocazione storica. Ma sono così vicini ai nostri avvenimenti che nel loro volto traspare in filigrana il volto di chi narra e di coloro a cui si narra. La drammaticità, positiva o negativa, degli avvenimenti è tanto incalzante, che ce la sentiamo sempre addosso: non esiste spazio protetto e sicuro.
    Tutto questo trasforma il racconto in una esperienza, capace di suscitare nuove esperienze.
    Il racconto pone narratore e ascoltatore a contatto con altre esperienze, egualmente intense e coinvolgenti. Lo fa attraverso strumentazioni che sono tipiche del far fare esperienza. Evoca, nel ricordo, l’esperienza «drammatica» dei fatti del passato (la storia di Gesù e della fede che tanti uomini hanno avuto nella sua vita). Propone il vissuto del narratore: quello che egli racconta è anche parte della sua vita; per questo comunica in un coinvolgimento, caldo e appassionato. Sollecita, nell’atto stesso del narrare, l’esperienza del destinatario, attraverso mille concrete allusioni alla sua vita, fino a farlo esclamare, magari solo nel silenzio dello stupore: come mai si sta parlando di me?


    NOTE

    [1] Per uno sviluppo più approfondito del tema rimando a due pubblicazioni già abbastanza conosciute: Tonelli R., Trenta storie – da meditare e raccontare per un progetto di pastorale, Elledici, Leumann (TO) 1998; Tonelli R., La narrazione nella catechesi e nella pastorale giovanile, Elledici, Leumann 2002.


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