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    Tra nostalgia e missione



    Riccardo Tonelli

    (NPG 2004-02-52)


    Dopo la sua morte Gesù si presentò a coloro che aveva scelto come apostoli, e in diverse maniere si mostrò vivo. Per quaranta giorni apparve ad essi più volte, parlando del regno di Dio.
    Un giorno, mentre erano a tavola, fece questa raccomandazione: Non allontanatevi da Gerusalemme, ma aspettate il dono che il Padre ha promesso e del quale io vi ho parlato. Giovanni infatti ha battezzato con acqua; voi, invece, fra pochi giorni sarete battezzati con lo Spirito Santo.
    Allora quelli che si trovavano con Gesù gli domandarono: Signore, è questo il momento nel quale tu devi ristabilire il regno d’Israele?
    Gesù rispose: Non spetta a voi sapere quando esattamente ciò accadrà: solo il Padre può deciderlo.
    Ma riceverete su di voi la forza dello Spirito Santo, che sta per scendere. Allora diventerete miei testimoni in Gerusalemme, in tutta la regione della Giudea e della Samaria e in tutto il mondo.
    Detto questo Gesù incominciò a salire in alto, mentre gli apostoli stavano a guardare.
    Poi venne una nube, ed essi non lo videro più. Mentre avevano ancora gli occhi fissi verso il cielo, dove Gesù era salito, due uomini, vestiti di bianco, si avvicinarono loro e dissero: Uomini di Galilea, perché ve ne state lì a guardare il cielo? Questo Gesù che vi ha lasciato per salire in cielo, un giorno ritornerà come lo avete visto partire.
    (Atti 1, 1-11)

    Qualcosa che ci riguarda

    Il libro degli “Atti degli Apostoli” incomincia proprio bene.
    Spesso ci chiediamo: Chi siamo? Cosa ci stiamo a fare? Abbiamo delle ragioni serie per essere felici e orgogliosi della nostra vocazione di discepoli di Gesù?
    Le domande sono serie.
    Non riguardano qualche aspetto marginale della nostra esistenza, come se ci chiedessimo, in un momento di depressione sportiva, “faccio proprio bene a tenere per quella squadra o è tempo di cambiare bandiera, visto come stanno andando le cose oggi?”. Afferrano, invece, il centro della nostra esistenza, quelle ragioni di fondo che prima di tutto servono a dire a noi stessi chi siamo e che senso vogliamo dare a tutta la nostra vita.
    E sono davvero inquietanti, perché, oggi soprattutto, non siamo aiutati a costruire risposte a questi interrogativi. Una volta, essere cristiani era qualcosa di tranquillo e comune. Si nasceva “cristiani” e qualche personaggio illustre arriva persino a dichiarare che non possiamo non dirci cristiani.
    Oggi le faccende non vanno proprio così. La nostra identità la dobbiamo ricostruire nella fatica quotidiana, a meno di non fare come quei bei tipi che non hanno dubbi e gridano, a tutti i venti e in tutte le fogge, la loro strana sicurezza.
    La stessa esperienza l’hanno vissuta i discepoli di Gesù.
    Avevano giocato tutta la loro vita nel suo nome. “Non possiamo andare da nessun’altra parte… perché tu solo hai parole di vita e di speranza”, gli avevano gridato con profonda sincerità nel momento in cui troppi lo stavano abbandonando.
    Poi le cose erano cambiate, violentemente. La morte di Gesù sembrava fatta apposta per chiudere ogni prospettiva di futuro. Qualcuno persino aveva tirato i remi in barca e se n’era tornato ai suoi campi e al mestiere di prima, con il cuore pieno di tristezza e con un volto che esprimeva tutta l’angoscia della delusione. Gli altri… di paura ne avevano tanta: troppa per giocare allo scoperto.
    Poi Gesù era riapparso, vivo e trionfatore. Ma era un poco strano: veniva e spariva; parlava poco e non si lasciava più divorare dalle folle. Era risorto certamente… ma quasi non sembrava più quello di prima.
    Un giorno si ferma con loro qualche ora in più. Parla delle ultime consegne e si mette a fare raccomandazioni come quella persona che sta per andarsene. Poi li convoca, fuori città, in una zona isolata.
    Ci vanno tutti. Con trepidazione. Sarà la volta buona che ricostruirà il regno promesso?
    Dentro, a tutti, sono in subbuglio attese, nostalgie, speranze, progetti. Hanno l’impressione, anche se non se lo dicono, di essere arrivati finalmente al dunque.
    Gli apostoli… come noi. Quello che essi hanno vissuto, quel pomeriggio sul monte dell’Ascensione ci riguarda davvero decisamente.

    Tre fatti su cui meditare

    Tre fatti mi sono apparsi di quelli da non perdere.

    La prima esperienza di sacramentalità

    Il primo riguarda Gesù e il suo rapporto con i discepoli.
    Gesù li affida a se stessi in modo definitivo. Li lascia soli, sparisce ai loro occhi, immergendosi nel mistero di Dio da cui era venuto.
    Certo, non se ne va e basta. Assicura ad essi una presenza nuova, specialissima, nel suo Spirito che li avvolgerà e trasformerà totalmente, dal di dentro.
    Eppure non c’è più: lo dice con fatti che non lasciano incertezze. È inutile cercarlo come lo si cercava prima, per discutere con lui le scelte e per chiedere a lui le direzioni di cammino.
    La sua presenza è una presenza strana: fatta di assenza, forte e impietosa, che è anche presenza… di una presenza che è tutta dalla parte dell’assenza.
    Si apre così una stagione nuova nella vita dei discepoli di Gesù. Qualche secolo dopo abbiamo inventato una parola per dire tutto questo: la sacramentalità. I discepoli di Gesù vivono l’incontro con il maestro nella trama misteriosa della sacramentalità. Quello che si vede e si constata non ha più i toni solenni di prima, dove tutto era molto più chiaro e sicuro. Si vede qualcosa che assomiglia totalmente alla quotidianità di tutti. Eppure, questa realtà si porta dentro il mistero che ci dà la vita e la speranza: la presenza sicura e pervasiva che è il fondamento unico della nostra esistenza.
    In fondo… è proprio bello constatare che le cose vanno così. Basta continuare nella lettura del libro degli “Atti”. Gli Apostoli, affidati a se stessi, diventano davvero protagonisti. E prendono in mano la storia per trasformarla secondo il progetto di Gesù.
    Pietro si dimentica di aver tradito il maestro, in una pagina tristissima della sua avventura. E chiede alla comunità apostolica di organizzarsi per trovare un successore all’altro traditore, quello vero e senza ritorno. Parla alla folla… lui che aveva avuto paura persino di una donna, serva di casa. E con l’ardire che gli viene dallo Spirito accusa i capi della sinagoga e i sommi sacerdoti di avere ucciso l’unica persona che può dare davvero la vita… loro che l’avevano ucciso nel nome di Dio per assicurare la vita che viene dall’osservanza della legge.

    Protesi in avanti

    Il secondo fatto l’ho suggerito nel titolo del contributo: dalla nostalgia alla missione.
    La nostalgia di Gesù è fortissima. Ed è logico che sia così. Ma chi ha imprese alte da compiere… non si può permettere il lusso della nostalgia.
    Il rimprovero degli angeli dà da pensare: Perché state a guardare il cielo con il naso all’insù… come se tutto fosse lì? C’è un’opera grande da compiere. Gesù ve l’ha consegnata ed è ormai tempo di darsi da fare per realizzarla.
    Ora è il tempo della fatica, del lavoro, dei progetti e delle realizzazioni. Poi torneranno i tempi felici in cui si potrà gustare ancora la dolce compagnia di Gesù.
    Tornerà… quando? Non lo sappiamo e non dobbiamo arrovellarci il cervello per immaginarlo. L’unica cosa certa è che tornerà e che ora però siamo impegnati a portare avanti il compito che ci è stato affidato: essere testimoni del Vangelo di Gesù fino ai confini più remoti del mondo.
    Il rimprovero degli angeli, secondo il racconto del libro degli “Atti”, tocca proprio i due elementi fondamentali dell’esistenza dei discepoli di Gesù.
    Ci piacerebbe sapere in anticipo come vanno le cose, possedere quel frammento di conoscenza riservatissima che ci dà potere e sicurezza. Ci piacerebbe… ma non c’è proprio nulla da fare. I tempi sono nel mistero di Dio e nessuno possiede il diritto all’accesso. Anche quelli che fanno finta di avere la chiave dei segreti, alla fine hanno anch’essi proprio nulla da proporre con quella sicurezza che possiede chi ha la chiave della verità. La loro presunzione si fonda solo sulla mancanza di conoscenza. Questa è la speranza dei cristiani. Parlare del presente come se vedessimo l’invisibile e riconoscere, nello stesso tempo, che l’invisibile è continuamente sottratto ad ogni nostra pretesa.
    La mancanza di informazioni sicure non costringe all’inerzia. Al contrario, sollecita all’azione, coraggiosa e animata da una speranza operosa. Gesù ha consegnato agli apostoli un compito grande da realizzare. La passione per questo compito – che è come la perla preziosa per conquistare la quale siamo disposti a tutto – dà senso e prospettiva alla vita. Non operiamo per il regno di Dio perché siamo “informati”. Lo facciamo perché siamo gente “appassionata”, che si fida di Dio e si affida a lui… lasciandoci guidare dallo Spirito di Gesù che ci ha trasformato dal di dentro.
    Davvero, la nostalgia lascia il posto alla fatica di realizzare il progetto che ci è stato affidato. Con gli apostoli scendiamo dal monte per riempire Gerusalemme del fragore della nostra passione per la vita e la speranza.

    Un tempo per la contemplazione

    Il terzo fatto ce lo comunicano ancora gli apostoli, con il loro modo di fare.
    Sono sollecitati all’azione e, cosa stranissima per gente come noi, fanno subito una sosta per mettersi a pregare: “si riunivano regolarmente per la preghiera con le donne, con Maria, la madre di Gesù e con i fratelli di lui” (Atti 1, 14). Hanno il compito di testimoniare il vangelo fino ai confini del mondo… e si bloccano al piano superiore della casa, dedicando tanto tempo ad una attività che assomiglia poco all’attivismo verso cui erano stati sollecitati anche dall’angelo.
    Forse c’è una innegabile componente di paura. Lo Spirito non li aveva ancora trasformati. Ma di sicuro li aveva segnati profondamente l’esperienza di Gesù, che aveva l’abitudine di passare le notti in preghiera prima delle grandi imprese.
    Un dato più grande attraversa però questa constatazione. Ci riporta ancora una volta al cuore della missione apostolica ed ecclesiale.
    I discepoli sono al servizio della vita e della speranza nel regno di Dio. Ma tutto questo non può mai essere considerato il frutto dello sforzo umano… anche se lo richiede intensamente. Il regno promesso è dono. L’aveva detto con forza Gesù: “La causa della vita sta a cuore prima di tutto a Dio: è la sua passione e il suo impegno. Lui la realizza. Lui però l’ha affidata a me; io l’ho affidata a voi, perché siete miei amici”. E subito aggiunge: “Quando abbiamo fatto tutto quello che dovevamo fare, dobbiamo avere il coraggio di riconoscerci soltanto dei servi… senza eccessive pretese. Per la vita e la speranza solo Dio è padrone. Noi siamo soltanto servi… preziosissimi perché la causa della vita è affidata a noi, ma soltanto servi, perché il progetto appartiene a Dio”.


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