Pastorale Giovanile

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    Vita cristiana



    Riccardo Tonelli

    (NPG 2003-07-74)


    La pastorale giovanile è impegnata nel difficile e affascinante compito di aiutare i giovani a diventare “discepoli di Gesù”, nella gioia di appartenere alla comunità ecclesiale. Essa è quindi orientata in modo esplicito verso il consolidamento della vita cristiana.
    Si confronta con l’educazione, ne assume molte logiche e ne condivide molte strumentazioni, ma non può di certo far coincidere il suo obiettivo e il suo orizzonte progettuale con l’educazione. Se facesse così, perderebbe il suo significato, la sua specificità, la sua stessa ragione di esistenza.
    Ce lo dobbiamo ricordare oggi soprattutto in cui abbiamo scoperto la necessità di instaurare un rapporto intenso tra educazione e pastorale giovanile. Lo dobbiamo riconoscere con coraggio in una stagione in cui corriamo il rischio di giocare al ribasso, alla ricerca di soluzioni per un tempo di crisi e di incertezze.
    La vita cristiana, nella sua irriducibilità rispetto a tanti modelli dominanti, è dunque l’obiettivo e l’orizzonte della pastorale giovanile. Con questa affermazione, precisa e perentoria, sembra tutto risolto e invece i problemi spuntano proprio adesso.
    Quale vita cristiana? Come si può qualificare come “cristiana” una qualità di vita quotidiana?

    Un atteggiamento ermeneutico

    La ricerca sulla qualità della vita cristiana ha molte e facili risposte. Basta pensare ai lunghi elenchi di “santi”, cui facciamo riferimento nella prassi pastorale. In base alla loro funzione esemplare, sembra che non ci sia proprio nulla da inventare, perché è sufficiente misurarsi con questi nostri fratelli eroici, vissuti prima di noi, e cercare di imitarli.
    Oggi però possediamo una coscienza critica che copre di sospetto le soluzioni troppo facili. Siamo infatti consapevoli dello stretto rapporto esistente tra le esigenze normative dell’esperienza cristiana e i modelli culturali in cui esse si sono progressivamente espresse.
    Sempre la qualità della vita cristiana ha fatto i conti con la qualità della vita quotidiana. Come ho tante volte ricordato, diciamo i tratti dell’esperienza cristiana dentro determinati modelli culturali; essi ci permettono di dire il mistero in parole umane e verificabili, e lo fanno sussistere concretamente e storicamente, come proposta con cui verificarsi. Il frutto di questo confronto oscilla tra la reattività critica (basta pensare all’esperienza profetica di monaci… impegnati a cercare uno stile di vita quotidiana che fosse seriamente alternativo a quello dominante) e l’accoglienza inconsapevole e un poco rassegnata (tipica di molti orientamenti della nostra vita quotidiana, che hanno davvero poco sapore evangelico). 
    Non basta quindi fare riferimento ai santi, i modelli esemplari di vita cristiana. Ma neppure è sufficiente abbandonarli, come gente di altri tempi, per mettersi alla rincorsa di stili di vita congruenti con le logiche dell’oggi.
    Si tratta invece di elaborare un progetto che permetta di superare, nello stesso tempo, la ripetizione passiva dei modelli ricorrenti di spiritualità, per non far coincidere il dato normativo della fede con le sue espressioni culturali, e il rifiuto di attivare un confronto disponibile con il dato normativo, sotto la pressione dei modelli culturali attuali.
    Qui si colloca la mia ricerca.

    La fede nel Crocifisso risorto per la qualità della vita cristiana

    Una cosa almeno dobbiamo raccogliere, con stupore e ammirazione, dai fratelli che sono vissuti prima di noi: il coraggio che essi hanno avuto nel proclamare senza incertezze che solo Dio è il Signore. Siamo stati salvati nella croce del Risorto, perché la nostra vita è fiorita piena e abbondante, proprio quando sembrava che tutto fosse spalancato verso il fallimento. Siamo vivi per dono di Dio, nella morte di Gesù.
    Possiamo cercare parole diverse per confessare questa fede… ma essa resta, prima di tutto, come espressione della verità in cui siamo costituiti e come responsabilità irrinunciabile per ogni servizio pastorale.
    Non siamo cristiani solo perché ci impegniamo in una prassi promozionale e liberatrice. Non siamo cristiani perché ci comportiamo bene dal punto di vista etico e osserviamo i comandamenti e tutti gli altri precetti. Non lo siamo neppure perché raccontiamo la storia di Gesù per la vita degli uomini. Siamo cristiani davvero “solo se ci decidiamo ad adorare Dio nella sua assolutezza; solo se cerchiamo di amarlo con un ardire in apparenza del tutto sproporzionato alle nostre forze; se ammutoliti, capitoliamo di fronte alla sua incomprensibilità e accettiamo tale capitolazione della conoscenza e della vita come l’evento della massima libertà e della salvezza eterna” (K. Rahner).
    Riconosciamo Dio radicalmente diverso da tutte le altre realtà che fanno la nostra terra. Non è uno dei tanti nostri interlocutori. E neppure è quell’ultima risorsa che serve a pareggiare i bilanci in situazione di crisi. Solo lui è la realtà vera. Di fronte a lui diventa irreale tutto quello che consideriamo come realtà salda e consistente.
    Egli è il grande “sogno di futuro”, mistero incomprensibile e sempre presente, che tutto sorregge e orienta, proprio mentre tutto relativizza.
    Ci dà la parola. E ci sprofonda nel silenzio, dove le parole non bastano più.
    Veniamo da una radice che non abbiamo seminato; pellegriniamo lungo una strada che sfocia nell’incomprensibile libertà di Dio; siamo protesi tra cielo e terra e non abbiamo né il diritto né la possibilità di rinunciare a nessuno dei due dati. 
    Non sappiamo neppure, in modo assolutamente certo, come la nostra libertà stia concretamente orientandosi nel gioco della nostra esistenza.
    L’esistenza del cristiano è perciò un salto nell’abisso sconfinato di Dio, in Gesù, l’unico nome in cui essere nella vita per la solidarietà con la sua morte e resurrezione, e nel grembo materno della comunità ecclesiale, il sostegno, il sacramento, la guida della nostra confessione di fede e di vita. La sua speranza risulta praticabile e sensata solo mediante quel fondamento che non possiamo comprendere né manipolare.
    Per questo, il cristiano vive il suo smarrimento quotidiano come un passo obbligato per avvicinarsi al santo mistero di Dio. Cammina verso la solitudine inesorabile della morte, confessando, con speranza trepidante, la certezza di poter affrontare questo mistero di solitudine nell’abbraccio di Dio.
    Quando si abbandona al suo Dio, il cristiano non si getta mai alle spalle la vita di tutti i giorni. Supera la sua vita per consegnarsi al mistero che la sovrasta; e la prende continuamente con sé nel movimento della sua speranza.
    Spera in Dio e ama la sua terra.
    Appassionato della vita, la vuole piena e abbondante per tutti.
    È impegnato in prima linea nel compito, duro ed esaltante, di dare un senso alle vicende della storia quotidiana, per renderla dimora, accogliente e abitabile, per tutti gli uomini.
    Ha però una grande, insaziabile nostalgia di casa. Gli cresce dentro, tutte le volte che riesce ad anticipare “come in uno specchio” quell’incontro “a faccia a faccia” con Dio, la ragione decisiva della sua esistenza.
    La nostalgia dell’incontro con Dio spinge a ricercare momenti di contemplazione gratuita. Costringe a dare un posto rilevante nella vita ai segni che esprimono, in modo più evocativo, questa sconvolgente “presenza”.
    Il cristiano vive nell’oggi, tutto proteso verso l’oltre della casa del Padre, in nome di quell’appuntamento con il Regno, unico approdo di perfezione piena e definitiva, quando l’incontro con Dio in Gesù Cristo per lo Spirito, superati i veli della sacramentalità, esploderà in tutta la sua luminosità.

    Tratti di vita cristiana

    Ho precisato l’atteggiamento globale con cui progettare la vita cristiana e ho confessato il suo orientamento di fondo.
    Sono convinto che tutto questo giudica e orienta ogni scelta che voglia essere di vita cristiana.
    Su questo quadro complessivo e normativo possiamo impegnarci a costruire progetti concreti.
    Ne indico alcuni, con la sola pretesa di rilanciare un compito che ciascuno – personalmente e nella responsabilità educativa che gli compete – è poi chiamato ad assolvere con una prospettiva più larga e molto più concreta di quella suggerita qui.

    Vivere dall’esperienza dello Spirito

    La vita cristiana si fonda sulla constatazione di un evento impensabile e formidabile che ha trasformato la nostra stessa esistenza. Siamo “cristiani” non per nascita, non per luogo di residenza, come non lo siamo perché ci siamo impegnati a diventarlo. Siamo figli di Dio e possiamo vivere questa esperienza come discepoli di Gesù nella Chiesa (vivere cioè da cristiani). Dio ci ha riempito della sua presenza e ha fatto di noi “creature nuove”, in Gesù e nella Chiesa. Lo siamo, dunque, per un dono gratuito.
    Lo dobbiamo riconoscere e proclamare, prima di invitare a vivere in coerenza.
    Come dice il titolo del paragrafo, siamo cristiani perché pieni della presenza dello Spirito di Gesù, impegnati gioiosamente a riconoscere questa novità, vivendo “dall’esperienza dello Spirito”. Certo, questo fatto è già dalla parte del mistero che la nostra vita si porta dentro. Per questo non lo possiamo scoprire a prima vista. 
    Viviamo nello Spirito di Dio. Egli è la sorgente della vita; è la forza che ci fa riconoscere Dio come Padre; è quel frammento della vita stessa di Dio, che ci fa diventare pienamente figli suoi, come lo è Gesù di Nazareth.
    Il cap. 7 e 8 della Lettera ai Romani propone una meditazione affascinante per scoprire cosa significhi vivere dall’esperienza dello Spirito. In questo testo autobiografico Paolo parla della sua esperienza di fronte alla legge e della sua paura di fronte alla morte. E parla del dono dello Spirito, che gli permette una speranza sconfinata.
    Il grido di Paolo dà voce a preoccupazioni e incertezze che investono anche la nostra esistenza. Come lui, anche noi ci chiediamo: “Chi ci libererà?”.
    Le risposte sono molte: si va dalla disperazione alla rassegnazione, dal suicidio, come espressione della paura di non trovare più speranza, al disimpegno e all’ubriacatura di chi non vuole porsi il problema.
    Dal profondo della sua angoscia, riscopre Gesù, il suo Signore e Salvatore: “Rendo grazie a Dio che mi libera per mezzo di Gesù Cristo, Signore nostro”. Il dono dello Spirito di Gesù è per lui il fondamento della libertà e della speranza: “la legge dello Spirito che dà la vita, per mezzo di Cristo Gesù, mi ha liberato dalla legge del peccato e della morte”.

    Le celebrazioni del futuro nel tempo presente

    Nella vita cristiana ci sono gesti, momenti e pratiche, cariche di una logica molto diversa da quella che orienta la vita quotidiana. Chiamiamo tutto questo “i sacramenti”, con una espressione generica rispetto ad alcuni gesti tutti dalla parte del mistero, e molto specifica quando si riferisce solo ai “sette” sacramenti in senso stretto. Vanno riscoperti e compresi bene. Le fonti della fede ci assicurano della loro importanza nella vita cristiana, fino al punto che qualche volta si è fatto coincidere tutta la vita cristiana nell’esercizio di questi gesti.
    Solo una ricomprensione globale ci aiuta a ridare ad essi il posto che loro compete, senza eccessive enfatizzazioni e senza pericolosi riduzionismi. 
    I sacramenti sono la grande festa cristiana del presente tra passato e futuro, tra memoria e profezia: il tempo del futuro dentro i segni della necessità, tanto efficace e potente da generare vita nuova.
    Memoria solenne ed efficace del passato, riscrivono nell’oggi i grandi eventi della nostra salvezza. Restituiscono così il presente alla sua verità per la forza degli eventi. E immergono nel futuro la nostra piena condivisione al presente: in quel frammento del nostro tempo che è tutto dalla parte del dono insperato e inatteso.
    Pensiamo, per parlare in termini concreti, alla eucaristia. Una eucaristia “fuori” della storia quotidiana sarebbe un gesto inutile e vuoto. L’eucaristia sollecita di conseguenza i cristiani, sempre tentati a leggere la propria esperienza solo dalla prospettiva del suo esito, quando asciugata ogni lacrima vivremo nei cieli nuovi e nella nuova terra, a misurarsi coraggiosamente con i gesti della necessità, nel tempo delle lacrime e della lotta.
    L’eucaristia però immerge nel futuro la nostra piena condivisione al tempo: in quel frammento del nostro tempo che è tutto dalla parte del dono insperato e inatteso. Dalla parte del futuro, il presente ritrova la sua verità, il protagonismo soggettivo accoglie un principio oggettivo di verificazione.
    Nell’eucaristia il passato ritorna come memoria, efficace e solenne, delle cose meravigliose che Dio ha compiuto per noi, prima fra tutte la trionfante vittoria di Gesù sulla morte, per la vita di tutti.
    Nella celebrazione dell’eucaristia e di tutti i sacramenti, immergiamo il nostro presente nel passato e lo lanciamo verso il futuro. In questa discesa verso la sua verità, siamo sollecitati a restare uomini della libertà e della festa, anche quando siamo segnati dalla sofferenza, della lotta e dalla croce.
    Impariamo così a cantare i canti del Signore anche in terra straniera. Riusciamo a cantarli, in una convivialità nutrita di speranza, in questa nostra terra.
    Cantando i canti del Signore in terra straniera, la riscopriamo la nostra terra, provvisoria e precaria, ma l’unica terra di tutti.
    Cantando i canti del Signore, la “terra straniera” diventa la nostra terra, proprio mentre sogniamo, cantando, la casa del Padre.

    Il “grembo materno” della comunità ecclesiale

    L’accento sulla dimensione sacramentale, in senso ampio e in senso specifico, ricorda immediatamente il grande sacramento della vita cristiana e cioè la comunità ecclesiale.
    Noi non siamo discepoli di Gesù a titolo individuale, come persone che lo riconoscono senza preoccuparsi di confrontarsi, di incontrarsi, di gioire, con gli altri fratelli che come noi riconoscono che Gesù è il Signore. Noi siamo discepoli di Gesù in una grande compagnia: la Chiesa. Siamo discepoli di Gesù nella Chiesa e nella gioia di vivere la Chiesa.
    Questo è un tratto importante della vita cristiana.
    Va recuperato con coraggio, soprattutto in una stagione, come la nostra, in cui la soggettivizzazione e una forma nuova di individualismo minacciano l’esperienza ecclesiale.
    Da una parte, infatti, molti giovani scoprono di essere Chiesa perché vivono questa esperienza all’interno di gruppi, di movimenti, di esperienze che permettono ad essi di sperimentare un volto vicino e significativo di essa. In questa situazione, certamente felice, non è assente il rischio di far coincidere tutto quello che si sta vivendo con l’esperienza ecclesiale, senza alcuna preoccupazione esplicita di realizzare un confronto con gli altri discepoli di Gesù che vivono la stessa esperienza ecclesiale in situazioni molto diverse da queste.
    D’altra parte, permangono modelli di esperienza ecclesiale legati all’individualità di ogni persona. Ciascuno vive la chiesa a titolo strettamente individuale. In alcuni casi il contatto e l’incontro con altre persone viene vissuto come una minaccia a quella intensità di esperienza ecclesiale che si vorrebbe raggiungere.
    In tutte e due le situazioni poi riaffiora la tentazione di far coincidere l’incontro con la Chiesa e l’accoglienza del suo mistero, con la “mia” esperienza ecclesiale. In questo caso vengono collocati in secondo piano tutti i riferimenti normativi dell’essere e del vivere la Chiesa.
    La Chiesa è una dimensione irrinunciabile di vita cristiana. Lo è però secondo le modalità a cui il Concilio ecumenico Vaticano II ci ha richiamato. La formula, messa al titolo del paragrafo, tenta di riassumere in una battuta le grandi esigenze conciliari: la Chiesa è per ogni discepolo di Gesù, che vuole vivere la sua esperienza cristiana secondo il progetto di Gesù, come “un grande grembo di madre”. Come avviene per la vita che sta crescendo nel grembo di una mamma, la persona è già un soggetto pieno, irripetibile, dotato di individualità e di responsabilità, anche se solo in termini germinali. Egli però vive nella misura in cui vive all’interno del grembo della sua madre. Il distacco forzato tra il bimbo e la mamma diventa purtroppo un rischio mortale sia per il bimbo che per la mamma.
    Questo è il modo di vivere da cristiani nella Chiesa e di scoprire la gioia di essere Chiesa.

    Educare alla vita cristiana

    Sul significato e sulla specificità della vita cristiana, anche rispetto alla nostra vita quotidiana, molte altre cose andrebbero ricordate. Non è questo il contesto per farlo, vista l’intenzione che anima i contributi di questa rubrica.
    Quello che ho sottolineato rappresenta, nel mio modo di vedere le cose, una specie di orizzonte globale in cui collocarsi per comprendere e progettare.
    Proprio a quest’ultima dimensione voglio dedicare le battute conclusive.
    Pensiamo alla vita cristiana da educatori della fede, da gente cioè impegnata ad aiutare i giovani a vivere da cristiani adulti e consapevoli. Non è sufficiente conoscere la meta del processo. Vanno anche organizzati i riferimenti del percorso.
    All’interno di questo orizzonte propongo un servizio pastorale costruito su due compiti convergenti e contemporanei: l’educazione e l’evangelizzazione.

    Uno stile di vita quotidiana

    La vita nello Spirito si traduce immediatamente in vita nuova. Non solo fonda la speranza. Spalanca in uno stile di esistenza nuovo e originale.
    La conseguenza è immediata e riguarda direttamente ogni processo di educazione alla vita cristiana: e la qualità della vita quotidiana è di grande rilevanza rispetto alla qualità della vita cristiana.
    La qualità della vita quotidiana è frutto di attenti processi educativi e va compresa in una ricerca a carattere culturale, giocata seriamente tra i modelli dominanti e quella che mi piace chiamare la “profezia del Vangelo” sull’uomo e sulla sua storia.
    I profondi cambi culturali in atto e l’innegabile maturazione in umanità che da essi scaturisce, non ci permettono di immaginare l’uomo e la sua maturità secondo i modelli che ci sono stati consegnati. 
    Molte delle “virtù” tradizionali sono oggi abbastanza improponibili o ci riducono a gente solo nostalgica… se ci mettiamo un poco di passione per ricostruire oggi quello che ci viene dal passato. Neppure però possiamo considerare come… oro colato (rispetto alla maturità dell’uomo) quello che riscuote consenso oggi.
    È urgente ricomprendere la tradizione e il presente in termini attenti e concreti, attivare un’opera accorta di discernimento, scatenare l’amore e il coraggio della fantasia nell’invenzione di alternative.
    Tutto questo ha bisogno di un principio di verifica e di ispirazione. I cristiani dicono forte che Gesù, secondo il volto che il Vangelo ci propone, è la verità dell’uomo. Alla sua esperienza e alla sua proposta, testimoniata oggi nel vissuto ecclesiale, dobbiamo ispirarci nella nostra ricerca di modelli culturali significativi. Non si tratta di copiare… ma di confrontare e reinventare.
    La faccenda è complicata dal fatto di tradurre i modelli culturali in vissuti esperienziali. A questo livello, il confronto e il discernimento sono davvero una esigenza irrinunciabile.
    Su questa prima frontiera l’educazione alla vita cristiana ha davvero molte cose da fare. A questo impegnativo tema ho già dedicato una riflessione specifica (cf la voce Qualità della vita in questa rubrica della rivista). Ad essa rimando per esempi concreti.

    L’annuncio del mistero del Dio di Gesù

    Come ho già ricordato, non siamo cristiani perché siamo uomini e donne serie e impegnate. Lo siamo se ci affidiamo, come un bimbo nelle braccia di sua mamma, a Dio, unica ragione della nostra vita e della nostra speranza, nel volto e nella storia di Gesù.
    Nella fede riconosciamo che la maturazione completa dell’esistenza esige il riconoscimento della presenza di Dio. Questo riconoscimento è, prima di tutto, nell’ordine dei fatti, anche se ha bisogno di crescere, di verificarsi e di rendersi concreto sul piano consapevole e tematico. Da questo dato, di natura teologica, scaturiscono il compito di aiutare a far passare dal riconoscimento della “cosa” in sé (la vita come evento teologale) al riconoscimento del fondamento di questa realtà (la persona di Gesù il Cristo). Solo in questa progressione di riconoscimento, il cristiano si fa adulto e l’uomo è restituito alla pienezza di libertà e responsabilità.
    Il sì alla vita cresce irruente verso l’accoglienza del Signore della vita stessa: si fa tematico ed esplicito quel sì che era solo implicito, anche perché si scopre nel Signore Gesù la radice e il fondamento di quella pienezza di vita, che cerchiamo intensamente, per noi e per gli altri. Si realizza così un doppio movimento: un processo di progressiva consapevolezza su quella realtà (eventi e parole) prima conosciuti senza essere verbalizzati, e un progressivo adeguamento della decisione personale con i contenuti teologici affermati come normativi dalla comunità ecclesiale, attorno alla vita stessa, alla sua qualità, al suo fondamento e al suo esito.
    Senza evangelizzazione (e di conseguenza… senza evangelizzatori) non ci può essere vita cristiana.


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