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    Evangelizzazione


    Riccardo Tonelli

    (NPG 2001-03-38)



    La prospettiva: perché evangelizzare?


    Di solito, la gente che come noi si interroga sulla evangelizzazione, sul suo significato e sulle modalità in cui realizzarla, considera come centrali due questioni: quella dei contenuti e quella del metodo.
    Con la prima questione l’attenzione corre verso il «che cosa» dire. Ci si interroga su quello che dobbiamo comunicare e sulla sua oggettività. Spesso il terreno di confronto e di scontro si divide tra coloro che sono preoccupati di rispettare il dato teologico che ci viene consegnato dalla tradizione ecclesiale, e coloro che invece avvertono come particolarmente inquietante la spinosa questione della fedeltà all’uomo d’oggi, alle sue attese e speranze, alle delusioni che attraversano la sua esistenza e alla forte ricerca di speranza che sale dalla sua vita.
    La questione del metodo riguarda invece le modalità espressive e comunicative, gli strumenti e le strategie, attraverso cui realizzare il processo. In questo modo di affrontare il problema, si dà per scontato il fatto di aver risolto la prima questione. Assodati i contenuti, ci si chiede in che modo renderli disponibili alle persone concrete.
    È fuori discussione la qualità e l’urgenza delle due questioni.
    Sono convinto però che ce ne sia un’altra, molto più radicale, che può funzionare quasi da criterio di verifica per trovare soluzioni adeguate alle stesse questioni precedenti. La chiamo: la questione della prospettiva. Può essere espressa da una domanda: perché evangelizzare? La risposta data a questo interrogativo influenza e determina fortemente la qualità degli altri.
    Infatti, chi evangelizza per trasmettere informazioni che l’interlocutore non conosce o non apprezza, concentra la sua ricerca sui metodi e dà facilmente per scontato il contenuto (ciò che vuol fare conoscere, possibilmente nella sua integrità). Chi, invece, evangelizza per «fare dei proseliti» (anche se non arriva ad una formulazione così estrema delle sue intenzioni…), si preoccupa fondamentalmente dell’efficacia della sua comunicazione e incrementa la carica di fascino e di persuasione della sua proposta. Chi cerca ascolto e consenso non si preoccupa eccessivamente della verità di quello che comunica, tutto preso dalla sua significatività.
    La meditazione del Vangelo mi ha sollecitato a porre il problema più alla radice.

    Una storia che dà da pensare

    Quale preoccupazione Gesù ha consegnato ai suoi discepoli, quando li ha sollecitati a percorrere in lungo e in largo il mondo conosciuto, per annunciare la buona notizia del Vangelo e della prossimità del regno di Dio? Per rispondere, mi piace pensare alla storia, narrata da Atti 3 e 4, di Pietro e dello zoppo, alla porta Bella del Tempio. La considero il riferimento obbligatorio per progettare l’evangelizzazione.
    «Un giorno Pietro e Giovanni salivano al tempio per la preghiera verso le tre del pomeriggio. Qui di solito veniva portato un uomo, storpio fin dalla nascita e lo ponevano ogni giorno presso la porta del tempio detta ‘Bella’ a chiedere l’elemosina a coloro che entravano nel tempio. Questi, vedendo Pietro e Giovanni che stavano per entrare nel tempio, domandò loro l’elemosina. Allora Pietro fissò lo sguardo su di lui insieme a Giovanni e disse: ‘Guarda verso di noi’. Ed egli si volse verso di loro, aspettandosi di ricevere qualche cosa. Ma Pietro gli disse: ‘Non possiedo né argento né oro, ma quello che ho te lo do: nel nome di Gesù Cristo, il Nazareno, cammina!’. E, presolo per la mano destra, lo sollevò. Di colpo i suoi piedi e le caviglie si rinvigorirono e balzato in piedi camminava; ed entrò con loro nel tempio camminando, saltando e lodando Dio. Tutto il popolo lo vide camminare e lodare Dio e riconoscevano che era quello che sedeva a chiedere l’elemosina alla porta Bella del tempio ed erano meravigliati e stupiti per quello che gli era accaduto» (At 3,1-10).
    Letto così, sembra il resoconto di un gesto prodigioso, che finisce tutto lì. E invece è importante continuare la lettura del documento. La riassumo.
    Lo zoppo guarito dal racconto della storia di Gesù, grida tanto di gioia che lo fermano per schiamazzi nel recinto sacro del tempio. Quando i sommi sacerdoti vengono a sapere che c’è stato di mezzo Pietro, interrogano lui, per andare alla radice del disordine. Qui viene il bello. Pietro dice: «Sapete perché questo zoppo cammina dritto e sano? Perché tutti sappiano che non possiamo essere vivi se non in quel Gesù che voi avete crocifisso e ucciso e il Padre ha risuscitato da morte».
    C’è un riferimento stretto tra la storia di Gesù, la guarigione fisica dello zoppo e la vita piena (anche contro la morte).
    Rispetto a quello che conosciamo della prassi di Gesù per la vita, Pietro aggiunge qualcosa di nuovo e di inedito. Non solo guarisce come ha fatto tante volte Gesù, ma racconta anche la storia di Gesù. Al gesto, per la cui realizzazione Gesù spesso ha chiesto la fede in lui e nella potenza del Padre, Pietro aggiunge il racconto della sua fede appassionata nel Crocifisso risorto. Dice, con forza, che solo in questa fede, impegnata a confessarlo ormai come il vivente, è possibile avere pienamente e definitivamente la vita. Il racconto della storia di Gesù nella confessione di fede dei suoi discepoli, l’entusiasmo e la fede che suscita in coloro cui è rivolto, danno la pienezza della vita.
    C’è un intreccio profondo tra guarigione e confessione che Gesù è il Signore. La guarigione risolve i problemi fisici. La confessione di fede nel Risorto supera le barriere della morte fisica e assicura una pienezza impensabile di vita, nonostante la morte.
    I due momenti non sono però slegati. Si richiamano invece reciprocamente. Il gesto che ha ridato vita alle gambe rattrappite dello zoppo, dà forza e serietà alla proposta di Gesù; la decisione che dà pienamente la vita, offerta come dono misterioso e accolta nella fede, va oltre la guarigione: riguarda un gioco di libertà e di amore, un sì ad un mistero di vicinanza. Senza questa decisione di fede nel Signore Gesù non c’è vita piena; nonostante l’eventuale guarigione dalla malattia o la liberazione dall’oppressione resteremo prigionieri della morte, presto o tardi.
    Per questo, i discepoli di Gesù si mettono in giro per il mondo a parlare di Gesù e della sua resurrezione. Non lo fanno solo con belle parole. Parlano con i fatti, ma poi moltiplicano le parole che ripetono il racconto della storia di Gesù.
    La guarigione dello zoppo e tutti gli altri gesti miracolosi che i discepoli compiono, esprimono, in modo simbolico, che la storia di Gesù, raccontata nella loro fede appassionata, è vera e autentica: non parla solo di vita, ma ne anticipa i segni nel piccolo e nel quotidiano. Quello che conta veramente, quello che il racconto della storia produce più intensamente e misteriosamente (la realtà rispetto al suo segno) è proprio la vittoria della vita sulla morte.

    Evangelizziamo per la vita e la speranza

    Il confronto con l’esperienza di Pietro, raccontata dagli Atti, ha sollecitato oggi molte comunità ecclesiali a ricostruire la ragione dell’evangelizzazione e delle altre attività pastorali che l’accompagnano, attorno alla «vita» e alla «speranza», per realizzare, nelle situazioni e istituzioni concrete in cui viviamo, quella pienezza di vita e quel consolidamento sicuro della speranza che è la grande e definitiva ragione della stessa esistenza di Gesù (Gv 10, 1-18).
    La «preoccupazione» della comunità ecclesiale è quindi la stessa che inquieta ogni persona. Su questo drammatico problema si trova in compagnia vera e sincera con tutti. Rifiuta e contesta solo chi invece fa del sopruso, della violenza, dell’ingiustizia… della morte la ragione e il senso della sua presenza (Mc 9, 38-48). Ha però un dono originale e tutto speciale da offrire: il «nome» di Gesù, unico e definitivo fondamento di salvezza, come dichiara Pietro davanti ai sommi sacerdoti (At 4).
    Per questo «evangelizza»: dice forte, a fatti e a parole, che possiamo essere nella vita e restare radicati nella speranza solo se accettiamo di consegnare la nostra esistenza al mistero di Dio nel progetto di Gesù e ci impegniamo a vivere la nostra stessa esistenza e a costruire strutture di servizio nella logica di questo stesso progetto. Certo, la potenza di Dio in Gesù è all’opera molto più radicalmente ed efficacemente del livello di consapevolezza riflessa che possediamo e non è prigioniera nei confini ecclesiali. L’amore alla vita spinge la comunità ecclesiale ad allargare progressivamente questa consapevolezza, perché chi riconosce il mistero in cui è avvolto e vive può operare per la vita sua e degli altri in modo più autentico e più efficace. Evangelizza non per fare dei proseliti ma per offrire la ragione e l’esperienza più forte del dono di vita di cui è segno e inizio.

    Esigenze irrinunciabili

    Considerato dal punto di vista della vita e della speranza, il compito di evangelizzare risulta molto serio e impegnativo. Sulla vita e sulla speranza non possiamo, infatti, giocare al ribasso.
    Invito a ripensare alla qualità della evangelizzazione da questa prospettiva nuova.
    Alcune esigenze mi sembrano tanto determinanti da diventare irrinunciabili.

    La persona di Gesù

    È interessante confrontarsi con i criteri che Pietro offre alla prima comunità cristiana per decidere chi ha le carte in regola per occupare il posto lasciato vacante da Giuda (si veda At 1, 21-22). Si richiede di aver vissuto con Gesù, fin dall’inizio della sua missione apostolica, e di esserne rimasti tanto affascinati da diventare «testimone della sua resurrezione». Tradotti nelle nostre espressioni culturali, i due criteri potrebbero suonare così: il riconoscimento che Gesù è il Signore, la ragione decisiva della propria esistenza, e la disponibilità a diventare gente di speranza, sulla forza della resurrezione, riconoscendo che il Crocifisso è risorto per la potenza di Dio. Ritorna l’affermazione già ripetuta: servire la speranza nel nome e secondo le logiche di Gesù, il Signore.
    La responsabilità di evangelizzare richiede questo coinvolgimento di vita e questa coraggiosa scelta di campo. Chi insegna dottrine, le deve conoscere. Nessuno ha il diritto di chiedere conto della sua esistenza: la competenza e la capacità comunicativa sono condizioni sufficienti. Chi annuncia il Vangelo di Gesù è, invece, sollecitato a produrre, con fatti e parole, la propria personale esperienza di vita. Propone colui che le sue mani hanno toccato e i suoi occhi hanno contemplato, che è diventato ormai l’unico Signore della propria esistenza (1 Gv 1, 1-4). Pone in primo piano quella sconvolgente esperienza di resurrezione che trasforma la propria debolezza in una parola di speranza, forte e solenne, nel nome e per la potenza di Dio.
    Senza questa esperienza di Gesù il Signore, ogni evangelizzazione resta prigioniera in processi di trasmissione culturale: un insieme di insegnamenti, magari interessanti ed avvincenti, che possono essere condivisi, isolando ciò che si dice dal resto della propria vita.

    Un mistero che non si svela con parole sapienti

    L’evangelizzazione proclama la vittoria della vita sulla morte nel nome e per la potenza di Dio. Dichiara, quindi, in Dio la ragione e il senso della vita.
    Non possiamo però dimenticare mai che Dio è mistero grande e ineffabile. Nessuna parola sapiente lo può esprimere adeguatamente, anche se dobbiamo necessariamente utilizzare le nostre povere parole per parlare di lui.
    Dio si è fatto volto e parola in Gesù di Nazareth (DV 13). Anche la manifestazione di Dio che è Gesù percorre la stessa logica fondamentale: Gesù rivela Dio e, nello stesso tempo, lo nasconde. Solo nella fede interpretante, il mistero di Dio è incontrato oltre lo spessore della sua umanità.
    La constatazione, pacifica nell’ambito della riflessione teologica, ha un peso notevolissimo per comprendere l’evangelizzazione e le sue esigenze.
    L’esperienza cristiana ha una sua consistenza veritativa; e la comunità ecclesiale è consapevole d’amare e servire l’uomo solo nella fedeltà incondizionata alla verità di un progetto che le viene da lontano. Chi comprende le esigenze della verità dal punto di vista della dimensione simbolica sa però che esiste un modo particolare per misurare la verità delle affermazioni. Siamo infatti impegnati a pensare alla verità dalla prospettiva di quel rapporto ermeneutico che lega sempre segno ed evento. Questa consapevolezza non solo restringe la pretesa di una verità assoluta e immodificabile; ma chiede anche di scegliere un modello relazionale speciale.
    Sappiamo che nessun segno è capace di rendere presente il mistero di Dio in modo pieno ed esclusivo. Soprattutto la sua forza evocativa non è mai un dato oggettivo, quasi bastasse porre il segno per assicurare il coinvolgimento. Ci vuole invece sempre qualcosa che sta tutto dalla parte del soggetto: una fede capace di superare l’opacità del segno per giungere alla realtà evocata.

    Verso decisioni sul senso

    La terza esigenza ricorda qualcosa che è di estrema attualità, in questo nostro tempo. Ci troviamo bombardati da mille continue proposte. Esse hanno ormai una connotazione tutta originale: riguardano sempre il senso della vita. Persino le cose e i prodotti solo funzionali, destinati a risolvere problemi strumentali, sono offerti nella prospettiva del senso e della qualità della vita. Si arriva persino ad affermare che senza «queste» cose ne scapita il diritto all’esistenza e il riconoscimento da parte degli altri.
    Nello stesso tempo, però, un accordo tacito ridimensiona la forza d’urto di una proposta così invadente: possiamo difenderci… «cambiando canale». Ciascuno ha il diritto di dire quello che vuole, tanto sa di dire cose che non contano, su cui il consenso è tutto dalla parte dell’interlocutore.
    Queste due constatazioni mettono in crisi l’evangelizzatore.
    Da una parte, infatti, solo quando la proposta offerta nell’evangelizzazione avviene attraverso la ricerca e produzione di senso (e quindi il mondo della soggettività), le viene riconosciuto il diritto all’ascolto. Ci si muove in una logica che va dal significativo alla verifica della verità. Noi siamo abituati a procedere nella direzione opposta: dalla verità alla sua significatività.
    Dall’altra parte, la decisione sta tutta nella soggettività dell’interlocutore. Possiamo dire quello che vogliamo, tanto la scelta di prenderci sul serio o di «cambiare canale» è tutta nelle mani di chi ci ascolta.
    Ad una situazione come questa, dobbiamo reagire. La rassegnazione è svuotamento della forza dell’evangelizzazione.
    La reazione, però, non può che percorrere le stesse logiche che fanno nascere il problema. Giocata su altre frontiere, non scalfisce per nulla la crisi e le sue ragioni.
    Di qui l’esigenza: ricollocare l’evangelizzazione sul piano del senso e restituire ad essa tutta la sua forza provocatoria. Senso è ragione e fondamento della nostra concreta esistenza, capace di interpretare i singoli avvenimenti e ricondurli ad unità. La sua ricerca è esperienza personale, legata alla gioia e alla fatica di esistere, nella libertà e nella responsabilità, ed è tensione verso qualcuno o qualcosa che offra le buone ragioni di ogni decisione e scelte importanti.
    Nella ricerca di senso, la persona si mostra disposta a consegnare le ragioni più profonde della sua fame di vita e di felicità, persino i diritti sull’esercizio della propria libertà, a qualcuno fuori di sé, che ancora non ha incontrato tematicamente, ma che implicitamente riconosce capace di sostenere questa sua domanda, di fondare le esigenze per una qualità autentica di vita.
    Nell’avventura del senso, cercato sperato sperimentato, ci fidiamo tanto dell’imprevedibile, da affidarci ad un amore assoluto che ci viene dal silenzio e dal futuro.

    Modelli

    Nella comunità dei discepoli di Gesù molte persone serie si sono poste la questione. Sono state sperimentate vie di soluzione.
    A battute veloci ricordo alcuni dei modelli più interessanti. Hanno tutti qualcosa di molto stimolante al loro interno. Devo confessare però che non me la sento di assumere l’uno o l’altro con atteggiamento tranquillo o rassegnato. Per questo, al termine della panoramica, rilancio la ricerca di un’alternativa.

    Il problema non esiste

    Per molti evangelizzatori il problema non esiste. Non negano la situazione di crisi attuale. La giustificano però sulla incertezza nei confronti dei contenuti e sulla rassegnazione di molti operatori di pastorale.
    In fondo, la soluzione è semplice: basta dire, con forza e con chiarezza, quello che siamo responsabili di annunciare… e tutto è risolto.
    Non mancano richiami a documenti e a prassi ufficiali, che sembrano rilanciare questa posizione.
    Viene ripetutamente citata la forza intrinseca della Parola che salva e la potenza dello Spirito di Gesù, capace di spostare le montagne (Lc 9, 37-43).

    La via del silenzio

    La consapevolezza, pensosa e sofferta, delle esigenze irrinunciabili per il processo di evangelizzazione, ha spinto molti a riconoscere la necessità del «silenzio». Dio, ragione della nostra vita e fondamento della nostra speranza, è mistero grande e ineffabile. Lo dobbiamo riconoscere e adorare. Il silenzio è riconoscimento e adorazione.
    Un aspetto particolare del silenzio è la proposta «dal negativo». Possiamo, in altre parole, dire ciò che Dio non è, anche per sgomberare il terreno dai tanti modelli teologici che l’hanno davvero trattato assai male.
    Possiamo anche raccontare la prassi e l’insegnamento di Gesù e, in lui, dei suoi grandi discepoli. Ciascuno poi può trarre i suggerimenti teologici (che riguardano cioè il mistero di Dio) da questo vissuto. All’evangelizzatore non compete il diritto di indurre da questa prassi informazioni su Dio, sulla sua volontà e sul suo progetto salvifico.

    L’evangelizzazione come «linguaggio di frontiera»

    La proposta viene da un autore, Van Buren, che ha studiato con attenzione e intelligenza il linguaggio religioso. Egli parte dall’ipotesi che esistono molti e differenti linguaggi, ciascuno dei quali ha le proprie logiche e risponde a proprie esigenze linguistiche. Il linguaggio giuridico e quello della matematica sono molto diversi da quello della poesia e dell’amore. Ciascuno esprime delle verità, anche se lo fa a modo suo.
    Sarebbe un grave errore linguistico paragonare l’uno all’altro, per costringere l’uno o l’altro a modificare procedure comunicative.
    Van Buren dice tutto questo immaginando come una specie di piattaforma linguistica, su cui si collocano i diversi modelli comunicativi. Al centro sta il linguaggio tecnico, delle scienze esatte, quello della matematica e del diritto. Su un raggio che va dal centro verso la periferia, stanno gli altri tipi di linguaggio, simili e differenti rispetto a quello che occupa il centro della piattaforma. Il linguaggio religioso sta alla «frontiera» della piattaforma linguistica; si sporge persino un poco oltre il confine stesso. Va preso nella sua logica e riconosciuto nelle sue esigenze. Ridurlo ad un linguaggio non di frontiera ma di centro… significa svuotarlo della sua funzione e ridurlo a qualcosa di insignificante, molto poco verificabile, privo di capacità di coinvolgimento.
    Un esempio tipico di questo modello è il Cantico dei Cantici. Attraverso espressioni poetiche, tipiche di ogni linguaggio dell’amore e molto debitrici alla cultura in cui il testo è stato elaborato, Dio comunica il suo amore verso di noi. Se leggiamo il testo, collocati nel centro della piattaforma linguistica (come fosse una raccolta di saggi giuridici…), non possiamo comprendere nulla e ci meravigliamo di espressioni così ardite. Riportato alla frontiera linguistica, diventa espressivo e arricchente: un coinvolgimento in una grande esperienza dialogica. Così, dichiara Van Buren, è ogni linguaggio religioso. Di conseguenza, l’evangelizzazione non può percorrere che questa strada.

    La via della metafora

    La modalità classica, con cui comunichiamo il mistero di Dio, è quella della metafora. Come sappiamo, la metafora è un discorso che smonta il significato abituale della parole utilizzate, per crearne uno inusuale, conferendo ad esso una funzione trasgressiva rispetto allo stesso linguaggio abituale (Ricoeur).
    Di metafore ne utilizziamo continuamente nel nostro quotidiano conversare. Diciamo che il cielo piange o un campo fiorito sorride, utilizzando categorie che non sono applicabili ai soggetti in questione se non attraverso un’operazione trasgressiva: prendiamo il significato abituale dei termini e lo adattiamo, per convenzione, ad altri soggetti. Lo facciamo continuamente anche per parlare di Dio. Diciamo che è «padre», che ci «ama», è «buono», «giusto»… In tutte queste affermazioni riconosciamo la sua ineffabilità. Affermiamo, in altre parole, che egli è per noi «come» un padre: come un padre buono, ma non proprio così… anche se non sappiamo bene, in ultima analisi, come lo sia di fatto.
    La via della metafora ha un grosso peso nella qualità dell’evangelizzazione.
    Usiamo espressione del nostro gergo («parole umane», come dice DV 13), per rendere accessibile il mistero. Non abbiamo altra scelta. Ma non possiamo mai dimenticare il limite delle nostre parole. Se pretendiamo di «spiegare» il mistero, di dichiarare come, quando e perché Dio è buono e giusto, trasformiamo il nostro linguaggio metaforico in un linguaggio descrittivo, con il rischio di chiedere consenso su verità che invece restano sottratte alla nostra pretesa di verifica rigida.

    E se cercassimo ancora?

    Ho già accennato, introducendo i modelli, che il confronto con queste vie di soluzione certamente arricchente, dal punto di vista del vissuto e della riflessione, lascia a me alcune forti perplessità.
    Non posso condividere la via del silenzio: siamo in una stagione in cui tutti parlano… e sarebbe buffo la riduzione al silenzio da parte di chi vuole testimoniare il Dio di Gesù, che si è fatto «parola», per essere parola di vita per ogni uomo.
    Rifiuto la posizione di chi afferma che suo dovere è dire ciò che va detto, senza eccessiva attenzione alla reazione suscitata. Mi sembra una immersione in un mondo di verità fredde, tanto lontane dalla parola di vita che è Gesù.
    Ho paura però anche delle altre due prospettive, pur riconoscendo il fascino di cui sono cariche. Mi sembrano segnate del rischio di privilegiare eccessivamente la via della soggettività, cosa di cui non abbiamo affatto bisogno, in una stagione di diffusa e pervasiva soggettivizzazione.
    Ho quindi cercato ancora.
    Con tanti amici, impegnati come me nello stesso terreno, ho scoperto la via della «narrazione». Ecco la proposta: per evangelizzare oggi siamo invitati a narrare storie, intrecciando la storia di Gesù, della fede e della vita della Chiesa, la storia di chi narra e la storia di coloro cui la narrazione è offerta, per aiutare a vivere.
    La narrazione non dà informazioni altrimenti sconosciute, ma aiuta a vivere, intrecciando le grandi esperienze che hanno dato vita con le attese di vita e di speranza di chi ascolta e con l’esperienza di chi inizia la comunicazione. Essa cerca di raggiungere la globalità a partire da qualche frammento significativo, immagina un modello linguistico in cui anche l’interlocutore si senta coinvolto nelle cose proposte, è impegnato a sostenere la forza evocativa delle informazioni. Si distingue dagli altri modelli comunicativi per la forma in cui viene espressa la comunicazione (prevale un modello linguistico di tipo evocativo e performativo), per il diverso rapporto con cui viene risolta la sequenza temporale (l’evento narrato, anche se è un fatto del passato, risulta sempre contemporaneo all’atto narrativo) e, soprattutto, per la ricercata espansione del suo significato nella prassi quotidiana (la narrazione non è mai un semplice ricordo, ma è impegno a far emergere significati nuovi nel presente attraverso l’azione).
    Basta questo cenno. Tante cose sono già state dette e altre saranno presto rilanciate.


    T e r z a
    p a g i n A


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