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    Intervista a Carlos Diaz a cura di Inma Correa

    (NPG 1991-08-36)


    Professore di diritto e di sociologia politica, Carlos Diaz è autore di una quarantina di saggi che hanno come filo conduttore l'esplicitazione di un personalismo cristiano che si ispira a Mounier.
    Vivace polemista, è stato spesso al centro di dibattiti infuocati nel mondo accademico spagnolo. Ispirato e spinto, egli stesso dice, da una grande carica vitale: «perché la vita è una attività e ciascuno si esercita con quello che maggiormente ama».

    Domanda. Ha senso la sfrenata ricerca di felicità dei nostri giorni?
    Risposta. Cercare la felicità per la felicità svuota completamente chi la cerca; ti fa sentire esausto, con la lingua di fuori, come un cane dietro alla preda.

    D. Forse per essere felici bisogna essere un po' cinici?
    R. Essere cinici come obiettivo di vita, è estremamente difficile. Condire la vita con pizzichi di cinismo è una cattiva scelta, e anche stupida: il cinico per antonomasia è di solito abbastanza bieco, problematico, contorto. Non sarà mai accettabile la sua pretesa di burlarsi di tutto e di tutti, come un Don Giovanni

    D. Oggi tutti vogliamo vivere nel miglior modo possibile. Che cosa rappresenta in questo contesto lo «yuppi»: è uno stoico, un epicureo, o cos'altro?
    R. È uno deluso dell'illusione, in fondo un angelo caduto, che non ha saputo stare all'altezza dell'ideale e vede pertanto nella brillantina e nella velocità la possibilità di fuggire dall'utopia irrealizzata. Per questo cerca il «senso» nel potere o nella delusione controllata. Decadenza dell'ideale!

    D. Questi nuovi «yuppies» non sono una nuova setta?
    R. Esistono due diversi tipi di sette: quelle che tutto il mondo ripudia perché sono noti i risultati deleteri che producono, e quelle che affascinano nonostante siano pericolose, perché realtà chiuse e aggressive. La «setta» degli yuppies è del secondo tipo, perché demonizza la vita stessa e il senso di essa, offrendo semplicemente il trionfo, il successo, l'avere: pseudovalori che sviliscono la dignità umana. Sono così un puro e semplice inganno. Allora viviamo, senza saperlo, in maniera schizofrenica, con una coscienza frammentata e ingannata.

    D. Lei è pessimista?
    R. Io analizzo la realtà ottimisticamente. Il fatto è che esiste oggi una specie di «doppio linguaggio»: ti denigrano come pessimista proprio quelli che pessimizzano la realtà e tendono in basso. Se poi provi a criticare i vizi comuni, nei modi distorti di ricercare il piacere, nella felicità da poco, allora ti accusano di essere troppo esigente, un utopista.

    D. La ricetta della felicità è allora: «guastafeste ottimisti» piuttosto che «pessimisti piacevoli»?
    R. Forse. In ogni caso, la felicità del «guastafeste ottimista» è a buon mercato, e quella del «pessimista piacevole» troppo cara. Perché il primo sia umanamente felice gli basta un buon pasto, una buona musica, un libro o un incontro; perché lo sia l'altro non basterebbe neanche comprare il mondo intero, né metterlo sopra una montagna di dollari. Anche se portato in carrozza o su cavalli bellissimi sarebbe comunque vuoto dentro. Quello del facile ottimista è tuttavia un modo di essere felici per così dire di primo grado. Di fronte alle esperienze bisogna però imparare a valutare le situazioni e la «velocità» da tenere, proprio come fa un bravo autista.
    C'è chi pensa che felicità significhi viaggiare sempre «in prima», senza accelerazioni, coltivando il proprio «giardino interiore», come suggeriva Voltaire. Certo, bisogna tranquillizzare l'identità personale, l'ambito dei microdesideri, la vita privata. Tuttavia, questa deve lasciar spazio ad una «seconda marcia» di maggior respiro, quella della felicità «combattiva» (in senso metaforico, io sono pacifista), solidale, secondo di detto di Bakunin: «Non sono felice se non lo sono anche gli uomini e le donne che mi circondano». La mia felicità non può essere separata da quella altrui, e in tal senso cerco sempre di coniugare la felicità privata con la ricerca di quella di tutti.
    Ed entrambi i tipi di felicità devono aprirsi alla trascendenza. Essere felice significa anche interrogarsi su Dio, e ciò è comprensibile: la felicità, se non la si decapita, apre alla trascendenza.

    D. Fernando Savater nel suo Etica come amor proprio, afferma che si deve cominciare dall'amore per sé prima di aprirsi agli altri. Occorre oggi rivendicare un po' di egoismo?
    R. Il problema nasce quando uno comincia con l'amor proprio, passa per l'amor proprio e finisce con l'amor proprio. Temo che a questa mancanza di solidarietà, a questa delusione generalizzata in cui viviamo, si giunga attraverso l'uso di belle parole o di giustificazioni del più volgare egoismo di tutta la vita, come osserviamo in molti comportamenti concreti.
    Inoltre se, come dicono i neomoderni, si definisce il prossimo come «quello che mi dà fastidio», allora mi chiedo quale strano residuo di «altruismo» derivato dall'egoismo può nascere quando il prossimo è un ostacolo sulla mia strada. Ecco perché io respingo il messaggio (così antico, del resto) di tanti moderni neo-egoisti e vetero-nichilisti, anche se ciascuno proclama ad alta voce le sue ragioni.
    Ti racconto un fatto? Tempo fa, in un corso di dottorato che tenevo, si parlava dei sistemi di valori in uso e i correlativi sistemi di paura e di dolore. Lo studente più intelligente del corso (e anche il più moderno nel modo di vestire) non voleva credere che, in questo mondo, esistesse qualcosa che non fosse felicità: vero ottimista della post- modernità. Allora gli chiesi, meravigliato, come considerasse la riduzione della fascia di ozono, la fame nel mondo, le guerre, i bambini che muoiono per carenze nutritive, ecc. Nulla di tutto questo sembrava grave per quel ragazzo. Nonostante ciò alla fine, data la mia insistenza, dovette riconoscere che almeno una cosa negativa c'era: il traffico della città dove viveva... È la post- modernità europea. Non so che cosa abbiamo ottenuto: abbiamo lottato contro l'antico regime per un mondo più libero e più giusto, e ora proprio i valori tanto criticati sembrano essere i migliori nel contesto attuale.
    Affermare questo non è fare i pessimisti a oltranza, ma al contrario è una spinta per lavorare con tenacia e con insistenza contro il pessimismo: lavorare intensamente, quotidianamente, contro l'entropia post-moderna.

    D. Perché in così poco tempo tutto questo ci è sfuggito di mano?
    R. Perché è impossibile vivere «libertà, uguaglianza, fraternità» in questo covo di ladri che chiamano Europa. E questo può sembrare fondamentalismo soltanto a chi vive senza fondamenti o il cui fondamento è il dio denaro, il denaro dell'iniquità.
    Duecento anni dopo la Rivoluzione Francese, che cosa resta della sua spinta innovatrice? Oggi il suo secondo centesimo anniversario lo celebriamo con il trionfo della sua eredità, cioè il nichilismo estetizzante della borghesia riciclata e riscaldata. Duecento anni dopo siamo nel Club dei Ricchi, rubiamo al resto dell'umanità, e ciò rende impossibile qualsiasi tratto di lucidità intellettuale o critica. Non per niente i ricchi pensano sempre che i poveri sono tali per la loro oziosità, e non che essi sono vittime dei problemi creati dagli altri. L'ideologia non è soltanto di classe, come diceva Marx, ma anche di contingenti e clubs, le nuove etnie del potere. Si parla molto dell'«apartheid» sudafricano, ma i paesi neocapitalisti avanzati lo praticano apertamente con il mondo intero.

    D. Negli ultimi decenni si sono affermate ideologie conservatrici che cercano di recuperare elementi che appartengono al passato: il pessimismo di Schopenhauer, l'egoismo di Nietzsche, ecc., il tutto «mescolato» a dottrine come quelle nuove della postmodernità o della crisi della modernità, del «pensiero debole», ecc.
    R. È un esistenzialismo di facciata, che si dà arie di «spleen», un divertimento intellettuale di borghesi che si autocommiserano a pancia piena e col portafoglio ben gonfio. Il famoso «pensiero debole» dei postmoderni proviene effettivamente da posizioni che sono la cultura dominante di oggi, che sa utilizzare benissimo i mezzi di comunicazione sociale. È facile il pessimismo se si è ricchi. È elegante rispolverare il nichilismo di Nietzsche, e affermare che non ci sono valori, se si scrive sui giornali, si pontifica alla televisione e si gode della massima pubblicità presso le banche.

    D. In questa invenzione che è la modernità, oggi dire «Dio» è praticamente fuori moda. È proprio così?
    R. Si è giunti a questa perdita della fede nel divino, chiamata «morte di Dio», dopo aver dato per buono il vaticinio dei «maestri del sospetto» che concordavano nel ritenere Dio un nemico dell'uomo e nel sopprimerlo per fondare l'autonomia dell'uomo in una umanità nuova.
    È questa l'impostazione classica che l'Occidente europeo in generale ha progressivamente fatto propria e che io reputo falsa nonostante l'attuale fortu na. Così secondo il mio punto di vista, i «maestri del sospetto» vanno riletti al contrario, come ha fatto Kierkegaard che, a ragione, disse: se sostituite l'Amore di Dio con il mero amore degli uomini tra loro, resterete comunque senza quest'ultimo, e in più arriverà al suo posto l'egoismo puro e semplice. Così, l'uomo, lungi dall'ottenere la libertà dando la morte a Dio, è rimasto in una solitudine estetizzante. È questo il punto. L'amore umano trova il suo fondamento ultimo nel Dio Amore, ed è difficile la comune fraternità senza l'uguaglianza di un'unica paternità. In una società senza Dio resterebbe solo la legge dell'«occhio per occhio, dente per dente», la legge di quello che i neo- genetisti chiamano «il gene astioso».

    D. Stando così il mondo, bisognerà ricuperare il ritorno all'interiorità?
    R. L'attuale proliferazione di testi sul senso della felicità è un dato di fatto. L'eccessiva preoccupazione per se stessi, autoreferenziale, egotica, si deve al crollo dei valori della polis, della fede nell'utopia e nell'idealità di un cosmo più perfetto. Eccoci di nuovo in un cosmo dove proliferano i sofisti, e gli uomini etici sono condannati all'ostracismo perché censurano la comune corruzione. Forse si deve riposare quando si è stanchi, ma per tornare a lottare nuovamente con forza contro le numerose mafie e corruzioni il cui conto è pagato poi sempre dagli stessi. Riposo sì, isolamento beato e pacifico no.

    D. Parlavamo dei professori che pontificano oggi dalle antenne e dai vari palchi televisivi. Hanno sostituito i maestri?
    R. Una società senza professori potrebbe anche esistere; dopo tutto, una buona macchina insegna meglio di un cattivo docente. Però una società senza maestri avrebbe le ore contate.

    D. La società attuale allora è carente di maestri?
    R. Fin quando esisteranno credenze, valori, norme morali vissute e rispettate da ognuno, saranno questi i maestri di ogni generazione. Li abbiamo avuti in ogni tempo e luogo, con una certa abbondanza; in misura minore da quando l'insegnamento, invece di essere strumento iniziatico al profondo, si riduce a mero requisito per l'incorporazione al mercato del lavoro.

    D. Ma insistiamo: è tanto difficile essere maestro?
    R. È impossibile se se ne rifiuta la componente militante e sapienziale. I grandi maestri non hanno sempre finito bene i loro giorni, perché la società li ha isolati e ha rifiutato i loro insegnamenti. Il fatto è che il maestro deve tentare di vivere quello che insegna, incarnare la sua parola nella vita e portare a maturità con il suo esempio i princìpi che proclama.

    D. È possibile promuovere una nuova cultura più sapienziale?
    R. Bisogna lavorare controcorrente, perché se ti lasci trasportare dalla corrente, finisci per vivere in modo diverso da come pensi. Ecco allora la schizofrenia etica, il riprovevole rispetto di se stessi, l'affezione al potere come esercizio della prepotenza e non come servizio.

    D. Ma dove possiamo trovare questi maestri che pensano e vivono le cause dell'uomo, che preferiscono rischiare controcorrente?
    R. Non è tutto negativo, ci sono cose buone. Credo che si tratta di rinforzare l'«abito» critico e la riflessione profonda, servendosi del cumulo enorme dei contenuti e della gran massa di informazioni di cui oggi si dispone, come mai prima d'ora.
    Abbiamo l'eredità sapienziale e fiduciaria che viene dall'umanesimo, le tradizioni familiari, sappiamo constatare gli errori altrui per non ripeterli. Abbiamo anche una tradizione di fede da riscoprire.

    D. Nostalgico?
    R. Oggigiorno la gente sa poco del passato e crede che il futuro sarà sempre migliore; tuttavia non scommette nemmeno sul futuro, perché riporta tutto al presente, dimenticando che senza passato e senza futuro non esiste presente. Nostalgici no, storici sì. Mettiamo il nostro passato nell'orizzonte del futuro e facciamo di quest'ultimo la pietra angolare del passato. Del resto, chi non avverte una certa nostalgia del profondo? La vita dell'uomo profondo è la nostalgia creativa. Al contrario, la nostalgia pessimistica e che guarda al passato non produce nulla.

    D. E l'Europa?
    R. È cresciuta in modo apprezzabile sotto molti aspetti: per livelli di istruzione, di reddito, ecc. Ma non in altri: per ciò che riguarda la solidarietà, la sensibilità, la capacità critica, ecc.
    Penso che occorra riconciliare due anime che spingono verso direzioni opposte o, come dice Mounier, «riconciliare Marx e Kierkegaard». Cioè coniugare l'aspetto esteriore, sociale, comunitario (Marx), con quello interiore, profondo, etico ed eterno (Kierkegaard). La rivoluzione, diceva Mounier, «sarà materiale o non sarà, sarà spirituale o non sarà affatto». Non si cambia una società senza una simultanea trasformazione delle persone, come sembra essere ormai diventato chiaro (sensu contrario) negli ultimi anni. Tale riconciliazione è quello che costituisce il vero rinascimento.

    D. Cosa significa dunque fare educazione oggi?
    R. Educazione oggi è accogliere tale opportunità di riconciliazione e farla evolvere. Educazione è potenziare le microutopie attive, che si collegano con altre costellazioni dello stesso segno, in maniera sinergica. In modo che si contribuisca a creare nuova umanità, nuove possibilità del basso, dalla società civile e non dallo stato, questo codificatore di potere centrale e per ciò stesso decodificatore delle aspirazioni autogestite.


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