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    L'amore alla vita (RGC 6)


    cf "Ritratto di un giovane cristiano"

    È vero che il mondo di Dio e quello dell'uomo sembrano lontani e incomunicabili.
    Questa però non è l'ultima parola. La parola decisiva è invece Gesù di Nazareth. In lui, nella verità più piena e definitiva, Dio e l'uomo sono diventati ormai radicalmente "vicini". Sono così intimamente vicini da essere in Gesù una realtà personale, unica e irrepetibile.

    La vita quotidiana come il grande sacramento dell'incontro

    Gesù di Nazareth rende Dio vicino e presente nella grazia della sua umanità. È infatti Gesù di Nazareth, quell'uomo che ha un tempo e una storia, una casa, degli amici e dei nemici, l'evento dove Dio si è fatto volto e parola e dove l'umanità è stata trascinata alle sue capacità espressive più impensabili, fino a risultare parola e volto del Dio ineffabile.
    Il grande sacramento dell'incontro tra Dio e l'uomo è quindi l'umanità dell'uomo. In modo sovrano e inimitabile lo diciamo per Gesù di Nazareth. In lui e nella distanza di realizzazione che ci separa da lui, lo diciamo, con gioia trepidante, di ogni uomo, di ciascuno di noi.
    L'umanità dell'uomo non è un insieme di eventi fisici, aggregati più o meno casualmente, né è solo una catena di reazioni chimiche. Non è neppure un intreccio confuso di azioni, distese nel tempo senza reciproco collegamento.
    È invece una trama di esperienze, profondamente e reciprocamente collegate, di cui possiamo affermare la irrinunciabile paternità personale. Con una espressione felice, appresa alla scuola di un segmento interessante della cultura di oggi, l'abbiamo chiamata la "vita quotidiana": l'insieme delle esperienze che l'uomo produce, entrando in relazione con gli altri, nella storia di tutti, un evento, unico e articolato, tessuto giorno dopo giorno, in cui diciamo chi siamo e come ci sogniamo.
    La vita, nella sua quotidianità, è il luogo dove Dio si fa presente ad ogni uomo, di una presenza tanto intima e profonda da essere più presente a me di me stesso.

    Il "dovere" di amare la vita

    Abbiamo scoperto quanto è grande la nostra vita. Lo è di fatto, prima ancora di saperlo, perché è il luogo della vicinanza d'amore di Dio per ogni uomo. La riconosciamo grande, quando diventiamo capaci di penetrarne il mistero nella fede.
    Per questo, amare la vita è un diritto e un "dovere" gioioso. Vuol dire, in fondo, condividere la passione di Dio per la vita.
    La conclusione che ho appena sottolineato (il diritto e il dovere di "amare la vita"), nella nostra ricerca, ha segnato un tappa importante. Ci siamo ritrovati all'improvviso come davanti ad un bivio, di quelli senza ritorno.
    Veniamo da una tradizione religiosa che ha spesso programmato "mortificazioni" e impegni duri, per ridimensionare e controllare l'irruenza della vita. In fondo, la vita faceva abbastanza paura. L'amore alla vita era considerato un tradimento rispetto al dovere di amare la croce.
    Concludere nel "dovere" di amare la vita voleva dire imprimere una svolta epocale nel modo di essere cristiani? Ne avevamo il diritto? Certo, non eravamo noi i primi a pensarla in questo modo. Tanti credenti avevamo camminato già in questa direzione... Il rischio di smarrirci per via ci faceva però davvero paura.
    Abbiamo ripreso in mano il vangelo di Gesù. Abbiamo cercato di farlo parlare proprio su questa nostra preoccupazione.

    La vita è la passione di Gesù

    Quando i discepoli di Giovanni hanno chiesto a Gesù le sue credenziali, per rassicurare la fede del loro maestro, condannato a morte dalla tracotante malvagità di Erode, Gesù risponde senza mezzi termini: "Andate a raccontare quel che udite e vedete: i ciechi vedono, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono risanati, i sordi odono, i morti risorgono e la salvezza viene annunciata ai poveri. Beato chi non perderà la fede in me" (Mt 11, 2-6).
    Per parlare di sé Gesù parla della sua causa e dei fatti che sta compiendo per realizzarla. Ed è un impegno tutto sbilanciato dalla parte della promozione della vita. Qui dentro nasce una autentica esperienza di fede: "beato chi non perderà la fede in me", ricorda Gesù.
    In questo modo, Gesù ha rivelato chi è Dio e quale era la sua missione. Ha dato un contenuto preciso alla sua "causa": riconoscere la sovranità di Dio su ogni uomo e su tutta la storia, fino a confessare che solo in Dio è possibile possedere vita e felicità. Questo Dio, però, di cui ha proclamato la signoria assoluta, non è il Dio dei morti, ma dei vivi. È il Signore della vita. Fa della vita e della felicità dell'uomo la sua "gloria".
    Gesù di Nazareth è la scommessa di Dio sulla vita, il segno sconvolgente della sua passione perché "tutti abbiano la vita e ne abbiano in abbondanza" (Gv 11, 25).

    Amare la vita vuol dire "affidarsi"

    L'amore alla vita è un fatto spontaneo e naturale, quasi biologico. Può indicare correttamente la qualità dell'esistenza cristiana solo quando si esprime in un esigente e maturo "possesso" della vita.
    Il possesso della vita richiede un movimento personale di riappropriazione riflessa, libera e responsabile. In esso entrano in gioco soprattutto gli atteggiamenti, motivati e consapevoli, del soggetto, e le intenzioni che generano i suoi bisogni e i suoi desideri.
    L'uomo che vuole possedere la propria vita è posto di fronte ad una alternativa radicale. Può farsi volontà di se stesso, impennandosi in una volontà di potenza, di autoaffermazione, in una pretesa di autosufficienza. Oppure può scoprire che la ragione decisiva della propria esistenza e il fondamento della propria felicità è in un oltre da invocare e da accogliere.
    Questa è l'esperienza che si apre ogni giorno sulla nostra appassionata ricerca di senso: il grido presuntuoso della conquista o le mani alzate nell'invocazione e nell'accoglienza.
    Gesù ci ha raccontato, in una storia concreta, questo modo differente di essere uomini.
    "Una volta c'erano due uomini: uno era fariseo e l'altro era esattore delle tasse. Un giorno salirono al tempio per pregare.
    Il fariseo se ne stava in piedi e pregava così tra sé: 'O Dio, ti ringrazio perché io non sono come gli altri uomini: ladri, imbroglioni, adulteri. Io sono diverso anche da quell'esattore delle tasse. Io digiuno due volte alla settimana e offro al tempio la decima parte di quello che guadagno'.
    L'agente delle tasse invece si fermò indietro e non voleva neppure alzare lo sguardo al cielo. Anzi si batteva il petto dicendo: 'O Dio, abbi pietà di me: sono un povero peccatore!'.
    Vi assicuro che l'esattore delle tasse tornò a casa perdonato; l'altro invece no. Perché chi si esalta sarà abbassato; chi invece si abbassa sarà innalzato" (Lc 18, 9-14).
    Il fariseo e l'esattore delle tasse esprimono due esperienze molto diverse in cui realizzare il possesso della vita.
    Il fariseo batte la strada dell'impegno, duro e presuntuoso. Vuole poter guardare Dio negli occhi, quasi alla pari. E gioca la sua esistenza in questo sforzo disperato. È convinto finalmente di esserci riuscito. La sua preghiera è un inno alla potenza della sua buona volontà. Prega per dire a sé e a Dio che non ha ormai più nessun bisogno di pregare. Grida con arroganza la sua autosufficienza.
    Il pubblicano, invece, si trova a fare i conti ancora con il limite che segna la sua vita.
    Come molti di noi, sa di procedere tra entusiasmi e incertezze, in un progetto sognato e mai realizzato. Si scopre capace di perseguire una qualità diversa di vita, anche se costata di restare ancora prigioniero di molti tradimenti.
    Questo condizionamento attraversa inesorabilmente ogni esistenza. Esso è come il limite costitutivo dell'uomo, l'esito invalicabile della vita stessa. Il pubblicano vive, in modo riflesso e consapevole, l'esperienza della sua finitudine.
    Dal profondo della sua verità, sofferta e scoperta, alza al Signore il grido della sua vita. Riconosce di poterlo pregare non perché ha raggiunto la perfezione, ma perché ne ha un desiderio sconfinato.
    Il suo sogno è tanto coraggioso che lo inchioda impietosamente alla sua debolezza e al suo tradimento. Si consegna così a Dio, certo di poter vivere in lui, se diventa capace di confessarlo il Signore della sua vita.
    Verso il suo Dio alza le braccia, per lasciarsi afferrare da lui.
    Riconsegna così a Dio la quotidiana ricerca di fondamento e lo riscopre come la ragione decisiva della propria vita in un profondo atteggiamento di creaturalità.
    La finitudine porta l'amore alla vita oltre il confine angusto della propria storia, verso l'accoglienza di un dono insperato e profondamente sognato. Così la vita è finalmente e pienamente "posseduta".

    La croce come grande gesto d'amore alla vita

    Su un'altra parabola abbiamo poi concentrato la nostra riflessione: quella dei vignaioli ribelli (Lc 20, 9-19).
    La parabola ci ha fatto riscoprire la qualità, nuova e originale, dell'amore alla vita a cui Gesù ci sollecita nel nome di Dio. Ci ha rivelato che proprio la croce è il gesto più grande (anche se un po' misterioso, come sono tutti i gesti grandi) di amore alla vita.
    Il padrone della vigna, quando costata che gli hanno malmenato servi e soldati, "scommette" che le cose cambieranno perché manda suo figlio a trattare con i dipendenti in sciopero.
    Nel figlio, consegnato inesorabilmente alla morte, il padrone della vigna scommette per la vita contro la morte, perché dichiara la vittoria sicura della vita sulla morte. Lotta per la vita perché è certo della sua vittoria, nella vita data per amore fino alla morte.
    La croce di Gesù non ci rivela solamente la passione vittoriosa di Dio per la vita. Ci rivela che possiede la propria vita solo chi la sa perdere nel mistero di Dio, accettando di consegnare a lui il nostro insaziato desiderio di vita e di felicità.
    Di lui possiamo fidarci incondizionatamente: il nostro è un Dio fedele. Ma è un Dio imprevedibile e misterioso. Non possiamo presumere di rinchiuderlo dentro i nostri modelli, né di catturarlo negli schemi delle nostre logiche. Non possiamo spiegargli di quale vita abbiamo desiderio; né gli possiamo raccomandare i tempi della nostra felicità.
    Confrontato con la sua fame di vita e di felicità, l'uomo si ritrova, povero e fiducioso, nella mani di Dio.
    Vita e felicità sono tanto dono di Dio che ci raggiungono nelle condizioni più disperate, quando sembra che ormai non ci sia più nulla da fare.
    Questa impotenza è la nostra quotidiana croce.
    La croce che ha portato Gesù, in una solidarietà totale con la debolezza dell'uomo.
    La croce che tanti nostri fratelli sono costretti a trascinare, perché ad altri uomini torna più comodo che le cose procedano così, nell'oppressione, nello sfruttamento, nell'emarginazione, nella feroce privazione di ogni possibilità di vivere e di sperare.
    In tutte queste croci, in modo sovrano, Dio ci restituisce vita e felicità.
    Nella rivelazione della forza della croce in ordine alla vita, Dio manifesta l'uomo a se stesso. Gli rivela anche il senso profondo di quegli eventi, di cui la croce è il caso estremo, pieni di tanto sapore di assurdità che qualcuno ha persino tentato di utilizzare la croce di Gesù per far accedere all'umano ciò che tutti gli uomini vivono spontaneamente come disumano.

    L'alternativa, quella vera

    Ho ritrovato l'alternativa che aveva inquietato la prima, facile conclusione della nostra ricerca.
    L'alternativa non è tra amore alla vita e croce. Vita e croce vanno ricomprese bene nell'esperienza e nel messaggio di Gesù. Ho capito così che è proprio un imperdonabile tradimento della sua causa la proposta di scegliere tra l'una e l'altra.
    L'alternativa, quella vera, si gioca sulla condizione per il possesso della vita.
    Nella cultura che ogni giorno respiriamo, il possesso contempla la necessità di conquistare, di arraffare, di tenere ben strette le cose. In questa logica, possiede la vita chi se la tiene stretta, come un tesoro prezioso. Magari la nasconde sotto terra, per paura dei ladri, come ha fatto il servo sciocco della parabola dei talenti (Mt 25, 14-28).
    Nel progetto di Gesù, possiede invece la vita chi la sa donare, chi la butta per amore: come il chicco di grano che diventa vivo solo quando muore (Gv 12, 24; cf anche Mt 16, 25).
    Perdere la vita così è amore alla vita. Non è rinunciare alla vita, disprezzarla, fuggire la mischia delle cose alla ricerca di uno spazio sicuro e protetto. L'esito è il possesso pieno e assoluto. Perdere diventa la condizione per assicurare più intensamente il possesso.
    C'è proprio un modo diverso di essere uomini e, a pensarci bene, di essere cristiani. Davvero Gesù ha una logica tutta sua, sconvolgente ed esaltante. Lo trattiamo proprio male, quando lo riduciamo ad un vecchio saggio, che traspira perbenismo da tutti i pori, o quando lo facciamo diventare il triste cantore della morte ricercata e programmata.


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