Pastorale Giovanile

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     RIPENSANDO 40 ANNI 

    DI SERVIZIO ALLA

    PASTORALE GIOVANILE /1 

    Intervista a Riccardo Tonelli

    a cura di Giancarlo De Nicolò 

    (NPG 2009-05-12)

     


    1. Uno sguardo al passato

    Domanda. Ormai sono più di quarant’anni che lei si interessa di pastorale giovanile. Ha incominciato a farlo molti anni fa, quasi agli albori degli studi scientifici sulla pastorale giovanile. Le dispiace se le chiediamo di raccontarci un poco della sua storia?

    Risposta. Non mi dispiace affatto. Al contrario, ne sono molto contento, perché considero importante leggere il vissuto attuale con uno sguardo attento a quello che è capitato negli anni scorsi, nella mia storia personale e in quella di tante persone che si sono interessate di pastorale giovanile.
    Il mio cammino formativo è stato quello tipico di ogni salesiano. Prima degli studi di teologia ho trascorso quattro anni a contatto diretto con i giovani. I giovani del mio primo impegno pastorale erano ragazzi molto poveri. Lavoravo in un orfanotrofio vicino a Bologna, in cui erano raccolti oltre 100 giovani orfani di guerra. Alcuni di questi poveri ragazzi avevano visto morire i loro genitori sotto i bombardamenti. Altri erano rientrati in Italia dopo aver trascorso molti anni lontano da casa loro, a causa dell’immigrazione forzata dei loro genitori.
    Questi primi anni di contatto diretto con tante situazioni giovanili inquietanti, in una esperienza che riempiva tutta la giornata, mi ha sollecitato a pensare. In quegli anni la mia preparazione culturale era molto scarsa, anche la sensibilità con cui guardavo la realtà era certamente molto più povera dell’attuale. Ma la prima esperienza lascia un segno.
    Dopo questi anni di lavoro diretto con i giovani sono stato inviato a studiare prima teologia e poi a qualificarmi nell’ambito della teologia pastorale. Terminati gli studi, il mio superiore mi ha lasciato libero di scegliere tra due possibilità concrete: andare all’Università Salesiana a insegnare le discipline che avevo studiato, oppure lavorare sul campo diretto con i giovani in un oratorio. Non ho avuto dubbi e ho scelto di lavorare in un oratorio. E ho avuto la fortuna di lavorare in un oratorio pieno di giovani all’inverosimile. In quest’oratorio ho tentato di realizzare sul piano concreto le idee che avevo maturato negli anni di formazione e soprattutto di sperimentare un modo di vivere quell’impegno missionario che sentivo decisivo per la fedeltà alla mia vocazione.
    Quando penso a quegli anni, lo faccio con gioia, perché preparazione culturale, entusiasmo giovanile, disponibilità di tanti amici collaboratori, hanno permesso di realizzare una serie di esperienze che hanno funzionato come criterio di verifica e praticabilità delle intuizioni maturate nei processi formativi.
    Dopo tre anni di lavoro felice nell’oratorio, il mio superiore mi ha rilanciato, più o meno, la stessa domanda di tre anni prima: «Scegli tra la possibilità di continuare il lavoro nell’oratorio o di cambiare radicalmente lavoro assumendoti la responsabilità di una rivista di pastorale giovanile».
    La mia risposta tentava di riprodurre la risposta di prima: preferisco restare nell’oratorio. Ma il mio superiore mi ha detto, con un bel sorriso, che era contento della mia scelta… ma la sua decisione era diversa dalla mia.
    Di conseguenza ho dovuto in fretta e furia organizzare tutte le mie cose e trasferirmi al «Centro salesiano di pastorale giovanile» che allora aveva sede in parte presso il «Centro catechistico salesiano» di Torino-Leumann e in parte a Roma. E così ho incominciato un lavoro nell’ambito della pastorale giovanile sulla frontiera della riflessione e della progettazione.

    IL NASCERE DI UNA RIVISTA DI PG

    Quegli anni alla redazione della rivista «Note di pastorale giovanile» sono stati un momento specialissimo nel mio processo di formazione. L’elaborazione della rivista, il confronto con gli studi che progressivamente commissionavamo per la pubblicazione, che io per dovere professionale dovevo leggere e rileggere con molta attenzione, e soprattutto gli incontri di redazione, sono diventati una sorgente preziosa di formazione. Gli incontri redazionali mi hanno permesso, infatti, il contatto con persone incantevoli dal punto di vista della capacità riflessiva e di una visione piena della freschezza del Concilio, con operatori di pastorale che hanno offerto la testimonianza della loro prassi a tutti coloro che si interrogavano sul come lavorare seriamente con i giovani, confratelli miei nel sacerdozio e nella Congregazione Salesiana che veramente vivevano con grande entusiasmo la passione di Gesù e di Don Bosco.
    Grazie al lavoro presso la redazione di «Note di pastorale giovanile», ho potuto ripensare a quello che avevo vissuto lavorando nell’oratorio salesiano di Sesto San Giovanni, e a quello che avevo studiato negli anni della formazione sacerdotale e specialistica. Nella mia sensibilità e nella mia riflessione è andato progressivamente costruendosi un progetto di pastorale giovanile. I germi seminati in quegli anni si sono verificati e consolidati. Molte cose sono cambiate da allora… ma quello che era stato seminato, ha lasciato il segno.
    Una dimensione tipica di quegli anni era l’attenzione alla politica e all’educazione. Nei nostri incontri redazionali la teologia e la teologia pastorale venivano continuamente ripensate e ricostruite secondo le esigenze che nascevano dalla preoccupazione educativa e da una lettura culturale e politica della situazione generale e giovanile.
    Ho raccontato questa pagina della piccola storia della mia formazione, per la convinzione che ciascuno di noi è frutto delle riflessioni che hanno riempito la sua ricerca, delle esperienze che ha avuto la fortuna di vivere, del confronto con le persone che ha avuto la gioia di incontrare. Di questo sono oggi profondamente convinto: non possiamo crescere nella qualità della nostra cultura e, di conseguenza, nella qualità del nostro servizio ministeriale, se non ascoltando, accogliendo, riscrivendo, nel silenzio della propria interiorità, tutto quello che la vita – meglio: lo Spirito di Gesù che opera attraverso la vita – ci regala.

    D. Da quello che si comprende, l’inizio della sua riflessione è coinciso abbastanza con la stagione ecclesiale della nuova sensibilità conciliare e, a livello sociale, con i tempi della contestazione giovanile. Tutto questo ha inciso sul modo di fare ricerca e di elaborare progetti?

    R. Ho incominciato a interessarmi di una riflessione approfondita attorno alla pastorale giovanile molti anni fa. Se tento un calcolo approssimativo… arrivo almeno ad una quarantina d’anni. Non sono pochi. Certamente sono la stragrande maggioranza della mia vita. Tutto questo, evidentemente, pesa non poco anche sullo stato e sulla qualità attuale del mio servizio. Non posso assolutamente presumere che la storia della pastorale giovanile italiana sia intrecciata con la mia storia personale. Sono convinto, al contrario, che la mia riflessione è stata fortemente influenzata dal vissuto ecclesiale di questi ultimi quarant’anni. Posso parlare di me, solo dichiarando la dipendenza da quello che è stato realizzato. Sarei felice se potessi constatare che qualche piccolo contributo ha influenzato anche il vissuto di altri.
    Gli anni di cui sto parlando sono quelli a cavallo tra la fine degli anni 60 e l’inizio degli anni 70. Chiunque conosce un po’ di storia della situazione culturale e sociale italiana di quei tempi, sa che quelli erano anni caldi. Stava, infatti, iniziando e consolidandosi un modello di cultura, di riflessione, di progettazione sociale e politica molto originale. Nella Chiesa l’effetto prezioso del Concilio stava veramente portando i suoi frutti: scelte innovative, tentativi coraggiosi di futuro. Non mancavano le resistenze e tensioni involutive.
    Oggi ci troviamo a vivere una stagione molto ricca per la pastorale giovanile italiana e mondiale. Questa stagione fortunata ha i suoi problemi, ci sono tensioni, ci sono modi assai diversi di affrontare la stessa questione. Ma innegabilmente l’attenzione attuale è alta e le realizzazioni preziose. Nessuno può guardare con nostalgia al passato, come se allora le cose andassero meglio di oggi.
    Purtroppo, invece, in quegli anni la pastorale giovanile, così come noi oggi la intendiamo, era quasi totalmente inesistente. Dei giovani s’interessavano in tanti. Le Congregazioni religiose che hanno come carisma l’attenzione educativa, erano in prima linea nel servizio ai giovani. Però non era presente, in modo consapevole, un progetto elaborato, verificato, motivato di azione pastorale con i giovani. Là dove c’era, era notevolmente ancorato allo spirito preconciliare. Basta pensare alle scelte concrete, alla vita sacramentale e spirituale, alle preoccupazioni dominanti.
    Nella stragrande maggioranza delle diocesi l’azione pastorale era affidata all’Azione Cattolica o a qualche movimento. I giovani che non appartenevano a queste realtà istituzionali erano ai margini della tensione ecclesiale. Dovevano partecipare assieme a tutti gli altri cristiani alle iniziative messe in cantiere anche se erano prive (o quasi) di sensibilità giovanile. Scarseggiavano presenze amorevoli di servizio ecclesiale, vicine veramente al loro mondo.
    In quegli anni, poi, come tutti noi sappiamo molto bene, l’associazionismo ufficiale è entrato in crisi. Per questo il servizio qualificato dell’Azione Cattolica, per esempio, non riusciva più a raggiungere una fetta rilevante di giovani. Nello stesso tempo, però, sono sorti gruppi e movimenti spontanei, di forte capacità aggregativa e, a suo modo, formativa. In essi, purtroppo, l’educatore, ecclesiale soprattutto, era notevolmente assente. Eppure stava decisamente crescendo, proprio grazie al Concilio da una parte e ai rivolgimenti culturali dall’altra, il bisogno urgente di fare qualcosa di serio con e per i giovani. A confortare il bisogno di fare qualcosa di concreto verso i giovani si è alzata la voce del Papa che ha ripetutamente sollecitato i vescovi di tante nazioni del mondo (e, con un tono tutto speciale, anche i vescovi italiani) a far qualcosa di concreto per i giovani, per aiutarli a scoprire il dono della Chiesa, nell’incontro personale con Gesù.
    Molti di noi (la rivista «Note di pastorale giovanile» in prima linea) avvertiva con sofferenza la situazione. Cercavamo qualcosa di consistente da offrire. Certo, sotto l’urgenza dei problemi… non sempre è facile procedere con la calma e l’equilibrio necessario.
    Lo sappiamo e lo diciamo oggi, favoriti dalla calma dominante. Allora, invece, regnava la fretta di non lasciarsi travolgere dai cambiamenti. Spesso ci dicevamo: e se invece di correre sempre dietro al treno, lo precedessimo, una buona volta, alla stazione successiva?
    Un momento di particolare grazia è stato il documento dei Vescovi tedeschi sulla pastorale giovanile. Essi hanno introdotto una formula felice, quando hanno indicato nella pastorale giovanile una «autorealizzazione e diaconia» della comunità ecclesiale verso i giovani.
    Tutto questo ha orientato la mia riflessione personale, sollecitando verso la sperimentazione di modelli nuovi.

    ALLA RICERCA DI ORIENTAMENTI ISPIRATORI

    D. La scelta di orientamenti ispiratori è certamente importante per muoversi nel pluralismo senza lasciarsi distrarre da urgenze e da sollecitazioni. Quali preoccupazioni e ispirazioni hanno orientato la sua riflessione?

    R. Il lungo cammino ha un suo filo conduttore. Un poco alla volta ha preso consistenza riflessa, fino al punto di riuscire persino a dichiararlo con espressioni che hanno fatto una certa fortuna tra tutti coloro che sono appassionati della pastorale giovanile: i discepoli di Gesù sono impegnati a giocare tutte le loro risorse per aiutare i giovani a vivere pieni di speranza, ad avvertire che la vita che stanno vivendo è un dono ed è una responsabilità grande, a scoprire che possiamo vivere la nostra vita, nella gioia e nella speranza, soltanto se abbiamo la gioia di viverla dentro la comunità dei discepoli di Gesù, condividendo con essi la grande impensabile fortuna di aver scoperto che Dio ci vuol bene in Gesù di Nazareth.
    Per motivare le ragioni di queste preoccupazioni, preferisco partire dal negativo e dal problematico, perché è più facile andare al positivo e al propositivo. Capitava così spesso anche all’inizio nelle nostre riflessioni.
    Noi venivamo da una tradizione pastorale che collocava i suoi progetti su uno stile di vivere la vita cristiana di tipo molto concreto e un poco moralistico. Gli esempi sono facili: la pratica sacramentale, l’insistenza forte e motivata su una serie di atteggiamenti etici, l’osservanza di tradizioni e devozioni, sperimentate e consolidate lungo secoli di vita ecclesiale… e poi le molte cose da evitare e le tante altre da fare.
    A monte di questi modi di vivere – e delle raccomandazioni che li giustificavano – stava una concezione della salvezza cristiana. Si esprimeva nella consapevolezza di una continua, necessaria, faticosa lotta tra tutto ciò che è considerato bene e tutto ciò che è considerato male. La definizione di ciò che è bene e di ciò che è male proveniva dalla tradizione, dai racconti edificanti sulla vita dei santi, da una letteratura formativa prevalentemente moralistica. In questa prospettiva, era chiaro che l’unico modo serio di assicurare la salvezza consisteva nel fuggire ciò che era considerato male e tutte le occasioni che potevano portare a questa scelta negativa. L’impresa era faticosa… assomigliava alla scalata di una ripida montagna. La presenza di Dio nella nostra storia veniva rappresentata attraverso una visione abbastanza pessimistica e burocratica.
    L’insieme delle raccomandazioni dava origine ad un modello di spiritualità che metteva l’accento sulla necessità di controllare e fuggire la nostra vita, per la paura di restarne affascinati e soffocati. Uno degli slogan più frequenti di questo modello di spiritualità, lo conosciamo bene: tutto ciò che non è eterno… non vale nulla.
    Il gioco, il divertimento, le cose che riempiono la vita non sono certamente delle realtà che possiamo considerare eterne. Non possono quindi conquistare la nostra attenzione.
    Ci si rendeva conto però che non è possibile dialogare con i giovani, invitandoli a ignorare o a disprezzare tutte queste cose che rappresentano fondamentalmente la loro quotidiana esistenza. E così la pastorale le considerava interessanti, ma solo in chiave funzionale. Una bella partita di calcio era utile perché prima e dopo di essa era possibile intavolare una conversazione formativa con i giovani.
    Un altro aspetto che la tradizione educativa e pastorale ci consegnava era il nostro modo di metterci in rapporto con Maria e con i santi. Essi erano proposti molto spesso come un modello di vita, e come un aiuto di cui abbiamo bisogno per poterla vivere con coerenza e impegno. La preghiera diventava, in questa visione, una preghiera per chiedere, per impetrare aiuto, persino per risolvere le difficoltà che con un minimo di buona volontà saremmo stati capaci di risolverci da soli.
    Nella vita cristiana la dimensione sociale, politica, era eccessivamente carente. Solo una seria buona volontà poteva assicurare interventi efficaci. I mali, i disagi, le difficoltà erano generalmente collegati con la cattiva volontà personale.
    In questa visione, teologica e antropologica, la pratica dei sacramenti, come si diceva, aveva una sua collocazione molto chiara. In essi prevaleva la funzione strumentale, a causa del modello teologico che li descriveva. L’aspetto celebrativo era decisamente carente. Non erano un luogo dove incontrare il mistero santo di Dio nella comunità ecclesiale, per sperimentare il suo abbraccio accogliente quando ci trovavamo segnati dal peccato. Si ricordava poco la gioia di condividere una stessa esperienza salvifica nell’incontro della comunità dei discepoli di Gesù. I sacramenti, in una parola, erano poco orientati a farci sperimentare il mistero della morte e della resurrezione di Gesù, per aiutarci a constatare da che parte sta Dio e quali condizioni di vita, con Gesù, eravamo impegnati a fare nostri se volevamo raggiungere la pienezza di vita nella casa del Padre.

    D. Alcuni di noi ricordano quei modelli. Per altri rappresentano un passato ignorato. Ci aiuti a capire meglio cosa è capitato nella sua riflessione di quegli anni, pensando a chi ha creduto a quegli orientamenti tradizionali e a coloro che li ignorano totalmente…

    R. Non voglio continuare con questa litanie di fatti… che coloro che hanno vissuto il servizio pastorale prima e immediatamente dopo il Concilio ricordano bene. Forse… ho un poco drammatizzato le tinte. Ma mi sta a cuore indicare con quale modello di formazione e di esperienza cristiana la pastorale giovanile, di cui mi interessavo, ha fatto i conti. Mi è parso subito evidente che qualcosa andava ripensato con coraggio e capacità riflessiva.
    Quelli però erano anche i tempi felici in cui si respirava l’aria di Pentecoste del Concilio, e nella mia Congregazione era stato celebrato un coraggioso Capitolo di riforma.
    I cambi culturali e la nuova sensibilità teologica offerta dal Concilio ci offrivano la constatazione che tutto questo andava davvero molto stretto se veniva proposto ai giovani come una bella notizia per la vita cristiana. La tentazione facile, che purtroppo molti educatori stavano assumendo in quegli anni belli e difficili, portava ad abbandonare quello che c’era stato consegnato, pensando che tutto dovesse ricominciare da capo, ignorando il passato. Non volevo scivolare in questo pericoloso modello rinunciatario. Ma nello stesso tempo non me la sentivo di assumerlo tranquillamente, per onestà vocazionale. Lo riconoscevo prezioso ma impraticabile. E così con tanti amici che condividevano con me le stesse preoccupazioni, ci siamo messi a pensare, a progettare, a sperimentare.
    La serietà del compito richiedeva prima di tutto il coraggio di una fondazione teologica, matura e motivata.
    Il Concilio ci aveva consegnato un volto nuovo del Dio di Gesù. Ci aveva fatto scoprire che Dio è un mistero grande, inaccessibile, che nessuno di noi può pretendere di possedere. Abbiamo scoperto che era davvero rischioso parlare o fare proposte, come se fossimo noi gli interpreti ufficiali della sua volontà. Nello stesso tempo abbiamo scoperto, nello spirito del Concilio, la dimensione pastorale dell’evento dell’Incarnazione: in Gesù di Nazaret, il volto misterioso di Dio si è fatto vicino, incontrabile, sperimentabile. In Gesù era possibile scoprire Dio nella sua autenticità, incontrarlo come la ragione totale della nostra vita, nella debolezza e nella grazia della sua umanità. In lui, abbiamo ritrovato, come altra grande e bella notizia, la nostra umanità… la nostra vita… in una solidarietà impensabile e gratuita con l’umanità di Gesù.
    Su queste riscoperte, vissute con grande entusiasmo, sono andati maturando i criteri per un rinnovamento della pastorale giovanile. Ne ricordo due a battute velocissime.
    Il primo riguarda il significato teologico della vita quotidiana, il grande sacramento della presenza e dell’incontro con Dio, in Gesù. Dalla parte della vita è stato possibile riformulare un serio progetto di spiritualità e riscrivere, almeno a grandi tratti, il percorso sacramentale e celebrativo.
    Il secondo chiama in causa con forza l’urgenza dell’educazione, proprio nella sua dimensione persino teologica.
    La vita è sacramento dell’incontro con Dio quando è autentica, costruita ed espressa secondo il progetto di Dio, incontrato in Gesù. Purtroppo le cose non vanno così. Il peccato inquina il nostro stile di vita. Per questo la vita non è trasparenza di Dio ma ostacolo. Non la dobbiamo fuggire… ma la dobbiamo cambiare. L’educazione rappresenta lo strumento privilegiato attraverso cui possiamo restituire ad ogni persona la qualità della propria vita.

    L’INCARNAZIONE, UN EVENTO CHE DIVENTA CRITERIO

    D. Ha già ricordato varie volte il riferimento all’evento dell’Incarna­zione, persino come chiave interpretativa della linea pastorale del Concilio. Ci deve proprio aiutare a comprendere il contenuto e la ragione di questo orientamento.

    R. È vero: un poco alla volta, il cammino di elaborazione di un progetto di pastorale giovanile, sul piano teologico e su quello pratico, ha avuto l’evento dell’Incarnazione come criterio fondamentale. Non tutti erano d’accordo… e non lo sono neppure oggi.
    Provo a sviluppare questa indicazione, almeno nelle sue grandi linee, così come in questi anni si è andata progressivamente sviluppando nella mia riflessione. Ho l’impressione che il disaccordo abbia spesso come origine una cattiva comprensione della proposta.
    Due grosse questioni attraversano la costruzione di ogni progetto di pastorale. Le esprimo con le parole utilizzate fin dall’inizio del mio percorso: Dio, chi sei per me? E io chi sono, per te? Senza risposte a queste domande non è possibile impostare nulla di concreto e di operativo. Sul panorama della riflessione dell’uomo pensoso, di risposte se ne possono trovare tante… troppe per fare poi scelte concrete. E così, nella mia ricerca, ho lanciato queste provocazioni al Vangelo, per ancorare le linee progettuali su un terreno solido.
    Tre eventi sconvolgenti mi hanno colpito: Gesù è la rivelazione definitiva di Dio (Dio, chi sei?) e dell’uomo (io, chi sono?) nella grazia della sua umanità (l’umanità come rivelazione: la logica dell’Incar­na­zione).
    Cito una pagina del Vangelo di Luca (13, 10-17), su cui ho spesso meditato negli incontri di studio e di preghiera.
    «Una volta Gesù stava insegnando in una sinagoga ed era di sabato. C’era anche una donna malata: da diciotto anni uno spirito maligno la teneva ricurva e non poteva in nessun modo stare diritta. Quando Gesù la vide, la chiamò e le disse: Donna, ormai sei guarita dalla tua malattia. Posò le sue mani su di lei ed essa si raddrizzò e si mise a lodare Dio».
    Di fronte alle proteste del capo della sinagoga, arrabbiato perché aveva osato guarire la donna nel giorno di sabato (andando contro la legge), Gesù risponde:
    «Satana la teneva legata da diciotto anni: non doveva dunque essere liberata dalla sua malattia, anche se oggi è sabato?».
    Per la teologia dominante Dio andava onorato prima di tutto rispettando il sabato. La donna ammalata poteva aspettare: sei giorni della settimana erano a sua disposizione, il settimo era invece tutto e solo per la gloria di Dio. Gesù propone una teologia molto diversa. La vita e la felicità dell’uomo sono la grande confessione della gloria di Dio. Anche il sabato è in funzione della vita. Gesù non chiede di scegliere tra Dio e la felicità dell’uomo. Afferma, senza mezzi termini, che la gloria di Dio sta nella felicità dell’uomo. Il sabato è per Dio quando è per la vita dell’uomo.
    Di testi come questi ce ne siamo raccontati tanti, in questi anni. La storia della donna guarita di sabato non è certo l’unico riferimento che il Vangelo ci propone. Le due inquietanti questioni, quella su Dio e quella sull’uomo, ricordate sopra, trovavano così risposte affascinanti.
    Ci ho pensato tanto e poco alla volta sono riuscito a costruire una riflessione abbastanza elaborata.

    Dio in modo umano

    Nell’Incarnazione Dio si è rivelato all’uomo in modo umano. Il suo ineffabile mistero è diventato comprensibile e sperimentabile perché ha preso il volto e la parola di Gesù di Nazareth. È importante comprendere la qualità di questa assunzione. È troppo facile vanificarla, ragionando in termini strumentali, come se il rapporto tra Gesù di Nazareth e il Dio ineffabile fosse come quello di una fotografia rispetto ad una persona amata o funzionasse come una registrazione rispetto alla viva voce di un amico lontano.
    In Gesù Dio ha assunto un volto umano e si è fatto parola non come ci si serve di uno strumento esterno (che in nulla modifica quanto uno è), per comunicare qualcosa di sé, visto che non si può farlo direttamente e immediatamente. L’umanità di Gesù è invece Dio-con-noi: l’evento nuovo e insperabile in cui Dio stesso, rimanendo Dio, si è fatto vicino, volto e parola, per incontrare e salvare l’uomo.
    Gesù ci rivela il volto di Dio nella grazia della sua umanità. Il punto più alto di questa manifestazione è la croce. L’umanità di Gesù, schiacciata sotto il peso del dolore, dell’ingiustizia, sconfitta dalla prepotenza dai suoi nemici e dalla ignavia dei responsabili politici, dichiara, con le parole più solenni di cui dispone, chi è Dio e chi siamo noi.
    Eravamo abituati a pensare Dio nello splendore della sua potenza, capace di distruggere i suoi nemici con il braccio potente e la mano tesa, vincitore in ogni confronto perché autorizza i suoi profeti a giocare per vincere sempre… come Elia, come Mosè.
    Gesù rivela Dio nel gesto più alto dell’amore. Il Dio che lui invoca come Padre chiama a libertà e a responsabilità, sollecitando al rischio di confessare la sua signoria sulla storia proprio nel momento in cui tutto sembra sconfessarla.
    In questa rivelazione, due doni invadono la nostra esistenza: il riconoscimento che solo in Dio possiamo essere nella pienezza di vita, e la constatazione che questa pienezza ci è già offerta, almeno in modo germinale, dallo Spirito di Gesù che fa nuova tutta la nostra esistenza.
    L’Incarnazione non rivela solo questo. Essa è anche la rivelazione più piena dell’uomo: rivela qual è la sua sconfinata grandezza. Gesù è uomo, di un’umanità come la nostra: è uomo come lo siamo tutti noi. La sua umanità può manifestare, rendere presente ed esprimere Dio, perché l’umanità dell’uomo è stata fatta radicalmente capace di essere manifestazione di Dio. L’Incarnazione è incominciata proprio nella Creazione. Se l’uomo non fosse stato costruito così, Gesù di Nazareth non potrebbe essere Dio con noi, perché la sua umanità sarebbe incapace di offrire «una tenda» a Dio.
    Questa grande affermazione ci assicura che la nostra umanità è più grande di quello che possiamo immaginare. Essa è, in piccola o grande misura, «volto» e «parola» del Dio ineffabile e inaccessibile. Gesù è il caso supremo, unico e irrepetibile, di un’umanità tanto pienamente realizzata da essere volto e parola in modo definitivo. Egli è colui che realizza tutte le possibilità dell’uomo, raggiungendo in pienezza l’abbandono totale al mistero di Dio.
    Gesù lo è di fatto. Noi abbiamo la possibilità di essere uomini pienamente umanizzati come lui; e di fatto, un pochino almeno, lo siamo, per la solidarietà di vita e di salvezza che ci lega a Gesù e a coloro che come lui hanno portato a pienezza la loro umanità. Certo, la diversità tra noi e Gesù è grande. È però sul piano della realizzazione concreta; non su quello della possibilità.
    Gesù salva l’umanità dell’uomo: la porta ad autenticità, a verità, a pienezza, rendendo l’uomo capace di accedere al mistero di Dio. Nello stesso tempo, però, ci fa toccare con mano che solo in lui possiamo essere pienamente quello che Dio ha progettato per noi e che noi sogniamo di noi stessi. Staccati da lui, perdiamo la gioia della nostra umanità.
    Su questa constatazione teologica si fonda, nel progetto concreto di pastorale, la doppia fondamentale esigenza: il bisogno di salvezza, per liberare dal peccato che deturpa lo splendore originale dell’uomo, e l’educazione come strumento salvifico, per restituire dignità e autenticità ad ogni uomo.

    D. Una delle obiezioni più frequenti nei confronti del criterio dell’Incar­nazione riguarda il rischio di ridurre tutta la persona di Gesù e il suo progetto di salvezza alla sola Incar­nazione. Sembra che non ci sia più posto né per la Pasqua né per gli eventi escatologici. Che ne dice? Su questa obiezione ha certamente riflettuto. Può aiutarci a comprendere meglio la prospettiva?

    R. A causa dell’eccessiva attenzione portata sull’Incarnazione, molti contestavano a me e agli amici che condividevano questa linea di dimenticare la Pasqua, di mettere troppo facilmente tra parentesi la morte e la resurrezione di Gesù, di abbandonare – per eccessiva rassegnazione e disimpegno – il mistero del peccato, che porta alla croce. La contestazione è seria, fortemente motivata, certamente inquietante. Questo mi ha costretto a pensare, a informarmi meglio, a confrontarmi con maggiore disponibilità. Lo studio mi ha portato a constatare la possibilità, con molti autori che hanno approfondito il tema (cito tra tutti K. Rahner), di considerare l’Incarnazione come una prospettiva e non solo come un contenuto, alternativo ad altri temi.
    Cerco di precisare il punto di vista che condivido, proponendo un esempio che è ritornato tante volte quando riflettevo e parlavo di questi temi
    Ciascuno di noi, quando pensa alla propria esistenza, facilmente riesce a fare l’elenco dei tanti eventi che l’hanno riempita. Essi sono tutti importanti, perché tutti rappresentano la radice e la manifestazione della mia vita. Ci dispiace sicuramente dimenticarne qualcuno. Ciascuno riconosce che questi eventi, tutti importanti, non sono sullo stesso livello. C’è sempre qualcuno di essi che funziona come interprete degli altri.
    Dichiariamo, almeno con i fatti, che quell’evento è così decisivo che per poter comprendere bene tutta l’esistenza, bisogna rileggerla a partire e nella luce di quell’evento. Quell’evento è uno dei tanti, ma è così decisivo che rappresenta la prospettiva a partire dalla quale vanno compresi e interpretati tutti gli altri eventi della vita.
    Noi salesiani, pensando alla vita di Don Bosco, facciamo riferimento, per esempio, al sogno dei nove anni. Il sogno è un evento della vita di don Bosco… ma è quello da cui possiamo ricomprenderla tutta.
    A me piace fare riferimento anche ad un altro evento: lo considero più rivelante ancora.
    Don Bosco, ormai in età matura, si era ammalato gravissimamente. Riesce a scampare da una morte ormai certa per le preghiere dei suoi ragazzi. Quando si è ritrovato al balcone della sua cameretta, di fronte ai ragazzi che avevano pregato tanto per lui, li ha ringraziati dicendo: «Da questo momento ogni respiro della mia vita sarà tutto per voi». Quel fatto è uno dei tanti della vita di Don Bosco. Ma è così decisivo che non possiamo comprendere Don Bosco, se non a partire da questo fatto.

    Incarnazione e pasqua

    Gli esempi mi aiutano a ridire il senso in cui l’evento dell’Incarnazione è stato scelto come centrale del progetto di pastorale giovanile.
    La storia di Gesù è composta di tanti eventi. Li possiamo elencare in un ordine temporale o in un ordine d’importanza. Il fatto misterioso che Dio si è fatto volto e parola nella grazia dell’umanità di Gesù, e cioè l’evento dell’Incarnazione, rappresenta la prospettiva da cui interpretare chi è Gesù, cosa ci dice, quale Dio è quello che lui chiama padre, a cui dà volto e parola. Solo in questa prospettiva si può comprendere la forte polemica che Gesù ha vissuto con coloro che si pretendevano i maestri della legge.
    Essi contestano le parole e i gesti di Gesù, perché li interpretavano e li valutavano negativamente, a partire da quello che essi conoscevano di Dio. Gesù contesta il loro modo di pensare, dicendo che essi non sapevano niente di Dio, se non quello che lui è e quello che lui fa. Gesù dichiara, senza mezzi termini, che Dio si rivela nella grazia della sua umanità. Per sapere chi è Dio, siamo sollecitati ad accettare con gioia quello che Gesù è, dice, compie. L’Incarnazione rivela chi è Dio e che progetto ha Dio sull’uomo.
    L’Incarnazione non esclude la Pasqua e neppure pretende di offrire alternative ad essa. Sarebbe sciocco e certamente scorretto. Suggerisce invece una prospettiva pratica – di natura quindi squisitamente pastorale – per comprendere e ricordare tutto il mistero della vita di Gesù e dell’esistenza cristiana.
    Grandi teologi hanno impostato la loro riflessione a partire da altre prospettive, scelte con un approccio sapienziale nel continuo della fede cristiana. Si può attivare un confronto con queste diverse prospettive: non per costruire una classifica ma per un arricchimento reciproco… visto che il mistero di Dio e dell’uomo è più grande di ogni nostra espressione.
    Non è questione di decidere quale modello teologico sia il migliore. Quando dicono le esigenze della fede in modo autentico, sono tutti importanti e stimolanti. Sul piano della prassi pastorale, però, bisogna scegliere. Non basta sapere che ci sono due o tre strade aperte per arrivare ad una meta. Bisogna prendere il coraggio a quattro mani e mettersi a camminare in una di esse, portando con sé, come bagaglio prezioso, quello che avrei incontrato più facilmente se avessi privilegiato altre strade.
    La scelta dipende da esigenze che stanno a monte, capaci di orientare nel pluralismo. Sono di scienza e sapienza, come deve essere ogni scelta pastorale.
    Per il nostro progetto di pastorale giovanile, nel carisma salesiano, la scelta era obbligatoria: tutti i giovani, soprattutto i più poveri tra essi, per far toccare con mano, in modo esperienziale, la bontà e la vicinanza di Dio. Proprio questa esigenza sollecitava verso quell’amore sincero e fiducioso alla vita e, nello stesso tempo, l’assunzione piena e impegnata della forza trasformatrice dell’educazione… le due linee di azione ricordate poco sopra.
    Non abbiamo scelto il… meglio, e neppure quello che sembrava più affascinante. Abbiamo scelto la povertà della via di Nazareth, nel nascondimento dello splendore della divinità sotto gli stracci dell’uomo, privo di ogni splendore, fatto schiavo per amore e per portare tutti a vivere in Dio, come ricorda l’inno cristologico di Filippesi cap. 2, tante volte meditato.
    In questa riflessione ci sentivamo davvero in buona compagnia.
    La scelta di collocare l’evento dell’Incarnazione come riferimento fondamentale del progetto di pastorale giovanile, è qualcosa di classico nella teologia pastorale. Gaudium et spes procede in questa logica. La Chiesa italiana l’ha vissuto nel momento in cui era chiamata a costruire le linee fondamentali del progetto di rinnovamento catechetico e pastorale, proponendo «Il rinnovamento della catechesi».

    D. Propongo di fermarsi ancora un poco a constatare come nel progetto di pastorale giovanile l’evento dell’Incarnazione sia diventato criterio per organizzare scelte e suggerimenti. Mi rendo conto però che il discorso si farebbe eccessivamente lungo. Di sicuro, avremo modo di tornare su questi temi. Un esempio però ce lo deve fare: a lei la scelta.

    R. Gli esempi sono importanti per comprendere meglio le proposte. Accetto la sfida e provo a dire qualcosa su una delle questioni più scottanti per ogni progetto di pastorale giovanile: il rapporto tra fede e cultura. L’Incarnazione ci rivela che il volto di Dio si fa vicino nella grazia dell’umanità di Gesù. Tutti ricordiamo l’importante affermazione di Dei verbum 13: «Le parole di Dio, espresse con lingue umane, si sono fatte simili al parlar dell’uomo, come già il Verbo dell’Eterno Padre, avendo assunto le debolezze dell’umana natura, si fece simile all’uomo».
    Dico il mio punto di riflessione, scegliendo come riferimento il rapporto con Maria e, in lei, con i Santi, quelli di un tempo lontano e quelli di oggi.
    Avevo avvertito un bisogno impellente: restituire ad essi il loro volto autentico, per restituire la gioia della loro significatività. Era una pretesa… azzardata, una espressione di entusiasmo giovanile? Mi sentivo in buona compagnia. La strada l’aveva aperta il Concilio. Su questa strada abbiamo poi camminato in tanti: giovani, educatori, persone impegnate nella pastorale giovanile.
    Come si nota, siamo nel centro del rapporto tra fede e cultura.
    Nelle comunità ecclesiali ci si è spesso scontrati tra i sostenitori ad oltranza di quello che avevamo ereditato dalla tradizione, e i difensori di un silenzio non meno perentorio. I primi ripetevano le cose di sempre, con foga battagliera, come se nulla fosse capitato. I secondi cancellavano con un colpo di spugna un lungo vissuto ecclesiale, con la scusa delle innegabili intemperanze.
    La preoccupazione era chiarissima: possiamo immaginare un’alternativa, per ricollocare la figura e la funzione di Maria e dei santi nel centro della nostra vita spirituale? La prospettiva dell’Incarnazione ci ha aiutato a pensare e a progettare.
    Se la parola di Dio e gli eventi fondamentali della nostra fede sono sempre «detti» dentro modelli culturali (quelli dell’umanità storica dell’uomo in cui sono espressi), non possiamo cercare né formulazioni perfette e assolute (come se fossero esenti dagli irrinunciabili condizionamenti culturali), né formulazioni immodificabili (come se una espressione culturale fosse l’unica adatta per esprimere il mistero).
    È importante, prima di tutto, imparare a «fare memoria» per poter progettare in modo maturo. Non possiamo allontanarci dal nostro passato solo perché possediamo una sensibilità antropologica e teologica «differente».
    Non solo non abbiamo il diritto di giudicare con saccente presunzione i nostri fratelli che hanno vissuto la stessa intensa passione in modelli differenti dai nostri. Al contrario, dobbiamo imparare a misurarci con essi, per poter vivere oggi la stessa esperienza fondante.
    «Facciamo memoria» però in una intensa coscienza ermeneutica: non per ripetere e riprodurre, ma per saper ricostruire. La consapevolezza del profondo intreccio esistente tra «cultura» e «evento» chiede il discernimento e l’invenzione. Chiede cioè di ritrovare in ogni espressione della fede i modelli culturali che sono stati utilizzati in un certo periodo storico per «dare umana carne» ad un mistero che altrimenti sarebbe restato «ineffabile». E chiede la capacità di riesprimere questo evento per la nostra vita all’interno di eventuali nuovi modelli culturali.
    In questa prospettiva abbiamo riscoperto Maria e i Santi.
    Ricordo solo l’intuizione che progressivamente si è consolidata e che ha suscitato davvero tanto entusiasmo.
    Ha permesso di ritrovare colei e coloro che purtroppo erano stati dimenticati per strada nel fervore del rinnovamento conciliare.
    E così, dentro un rapporto rinnovato tra fede e cultura, ci siamo messi a contemplare Maria. Hanno fatto così sempre i cristiani, convinti che la giovane donna di Nazareth è colei che, dopo Gesù, ha penetrato di più il mistero di Dio. Ridisegnata nei tratti dell’oggi, Maria è diventata il più bel ritratto di cristiano.

    (continua)


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