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    Educare dal profondo



    Fabiola Falappa [1]

    (NPG 10-02-24)

    Chi volesse insegnarci la verità,
    ci metta in condizione di scoprirla
    da noi stessi. [2]

    Un discorso sull’educazione non può prescindere da una premessa che appare tanto scontata quanto fondamentale: non c’è mai educazione senza relazione.
    Perché vi sia educazione è necessario porre la riflessione su un soggetto che sia innanzitutto caratterizzato da una forza, mai fondata sullo strapotere o sulla violenza, ma una forza delicata, fragile e finemente attenta, in grado di cogliere ogni possibile trasformazione dell’educato.
    Che sappia, da un lato, prevedere e accompagnare le tappe lungo il cammino della sua personale approssimazione alla unità e integrità della propria anima. E che, dall’altro, sia capace di lasciarsi sorprendere dalla novità incarnata dal singolo educato che si relaziona, a suo modo e in maniera sorprendente, del tutto personale e creativa, alla verità.
    Per questo la ricerca filosofica e le dinamiche educative sono, a mio avviso, legate in maniera indissolubile ad un dialogo e ad una esperienza antropologica, se realmente sono interessate all’indagine sul senso di sé e del mondo.
    Non si ha una autentica esperienza educativa se non si accoglie l’alterità profonda iscritta nella propria anima e nel reale: è quanto ci insegna Martin Buber nel saggio presentato per la Terza Conferenza Internazionale di Pedagogia, nel 1925, intitolato Sull’educativo.
    Qui si pone mirabilmente il nesso tra prospettiva pedagogica e filosofia dialogica, così da poter scorgere effettivamente le potenzialità pedagogiche della filosofia di Buber.
    Se si focalizza l’attenzione sulla filosofia esperita come ricerca e incontro costante con la verità, scaturisce da quest’ultima una educazione, o meglio un cammino educativo, che ha come fine il comune e continuo relazionarsi alla verità, tanto da indirizzarsi, a mio parere, alla unificazione e al compimento dell’essere umano, in una unione e in un intreccio reciproco e fecondo di sforzi e cure.
    Lo spazio e il tempo che accomunano filosofia e pedagogia sono infatti estesi quanto quelli della relazione istituita «tra» l’io e il tu, quelli della relazione intesa come struttura ontologica originaria, che caratterizza ogni anima umana nell’incontro con un’altra anima, fino all’approssimarsi all’anima del mondo e di Dio.

    LA TENACIA DELL’ANIMA

    Anche se i confini dell’anima non possono essere raggiunti perché l’anima è un tutt’uno con la stessa infinita apertura specifica di ciascuno di noi, è imprescindibile una ricerca sul suo statuto.
    Il riferimento all’anima nel pensiero antico e medievale è abituale e consolidato, mentre nella filosofia successiva esso sembra perdersi a vantaggio di altre categorie come l’io, la coscienza, il soggetto, il sé.
    Nel corso del Novecento, invece, il tema riemerge in forme inedite, aprendo percorsi che tuttavia andrebbero esplorati maggiormente. Qui l’anima è presente, non solo come categoria, ma come crocevia di implicazioni che investono la soggettività umana e divina, la relazione con la verità e tutte le altre relazioni costitutive della nostra condizione, il senso dell’esistenza, fino ad arrivare all’evoluzione della storia nel suo dinamismo più segreto.
    Da questo punto di vista l’anima rappresenta una figura esemplare della felice inconcludenza, per così dire, della filosofia: nulla che sia storicamente emerso come essenziale – un modello di pensiero, una categoria, una questione, un’intuizione di fondo, una voce della tradizione filosofica – può essere decretato superato una volta per tutte e cancellato in forza della presunta vittoria delle idee più recenti.
    Il progresso della filosofia non è lineare, non va dal non vero al vero lungo una sequenza cronologica univoca, non decide il torto completo di qualcuno a vantaggio della piena e definitiva ragione di qualcun altro. Le questioni, anche le più antiche, anzi proprio quelle, ritornano perché possiedono una universalità e una ricchezza di senso che non permettono di relegarle allo status di reperto archeologico. Così, se in alcuni dizionari filosofici la voce anima è semplicemente soppressa, in altri dizionari questa stessa voce mostra una ricchezza, insieme storica e teoretica, di sviluppi e ramificazioni, intuizioni e prospettive, la quale si riverbera su altre voci e categorie che tuttora hanno corso nel pensiero contemporaneo.
    Ci si avvede allora di come questa sia un’idea viva non tanto e non solo in omaggio alle tradizioni che l’hanno pensata anticamente ad Atene, a Gerusalemme o a Roma, quanto per la persistenza della realtà che il termine «anima» tenta di designare. Così nelle lingue della filosofia europea come pure di alcune correnti delle scienze umane, tale termine – alma, Seele, soul, âme, anima – ha continuato, nell’arco che va dai primi del Novecento a oggi, a custodire la possibilità di riferirsi a un tipo di realtà che non è altrettanto bene indicato da altri termini.
    Non va trascurato che intendendo, con María Zam­brano, l’esistenza umana come nascita permanente e progressiva, si può comprendere meglio la sua dinamica generativa e se tale cammino si connette al «soggetto» che realmente lo realizza, l’anima appunto, si smetterà di interpretarla come un centro chiuso e già definito, bensì piuttosto come risposta crescente.
    Ritengo sia proprio questo il nucleo decisivo dell’intera riflessione: nell’idea dell’esistenza come nascita è iscritta la precisazione in base alla quale si tratta proprio della nascita dell’anima. Completare la nascita biologica, diventare veramente noi stessi, giungere a quella seconda nascita che Gesù annuncia nei Vangeli: questo è il senso e il compito della vita umana. Agli antipodi di ogni prospettiva tragica, María Zambrano afferma che non siamo nati per invecchiare e morire, ma per trasfigurare ciò che siamo in una nascita radicale, che accade se e quando giungiamo a vivere con lo stesso amore che Gesù ha rivelato come l’identità profonda del Padre.

    Educare come un nascere

    Naturalmente nascere è sempre rischioso, comporta sofferenze. È facile cadere nell’equivoco di inseguire un’identità che non è la nostra, o reagire con la fuga e il rifiuto dinanzi al patire implicato in questo viaggio. L’anima va quindi intesa nel senso della forza di seguire l’impulso fondamentale dell’esistenza, che non è la lotta per la sopravvivenza, ma quella per nascere del tutto: «la verità della condizione umana è che l’uomo è una creatura in continua gestazione».[3]
    Il primo passo per muoversi in questa direzione ci chiede di intendere la nascita come l’uscita dal delirio, dallo stato di paura e angoscia in cui l’essere umano naufraga perdendo la direzione. In un secondo momento si può riscoprire che il continuare a nascere significa rendersi sempre più ospitali verso la verità che è in noi e ci interpella; il singolo è infatti chiamato a nascere interamente dalla verità, ma quest’ultima può essere realmente e concretamente viva solo se riluce nella nostra anima.
    La categoria di nascita ritengo possa e debba rivestire un ruolo sostanziale anche in ogni processo educativo. Centrale va considerato, in tale direzione, il passo nel quale Buber sottolinea che non è il soggetto ad autoeducarsi, né tantomeno che l’azione dell’educare può essere contenuta e compiuta dall’educatore; ciò che è imprescindibile è il contributo del mondo.
    Non c’è educazione che non si rapporti al divenire di quanto accade attorno a noi, a ciò che ci circonda, ciò che si relaziona con noi secondo una duplice corrente: una che ci trasforma e un’altra che ritorna al mondo trasformato dal nostro apporto. Il verbo educare, com’è noto, è etimologicamente composto dalla particella «e» da, di, fuori e «ducare» per «ducere»: condurre, trarre. Da cui scaturisce il significato dell’aiutare a mettere in atto, a portare a compimento, a svolgere le buone inclinazioni dell’anima e della mente e a confrontarsi, sapendole riconoscere, con le inclinazioni contrarie.
    E-ducere, tanto per Zambrano quanto per Buber, più che indottrinamento o interferenza è azione maieutica. E questo è il più grande insegnamento che ogni educatore può trarre dalla loro riflessione. Socrate, per primo, rivela questo tratto essenziale del suo magistero affermando, con ironia, che esercitava, come sua madre, l’arte dell’ostetricia o maieutica. Nel celebre passo del Teeteto sostiene, in qualità di maestro, di non insegnare il sapere, ma di aiutare ad acquisirlo; così il tendere alla verità, senza cessare di essere una conquista personale, diventa anche una conquista comune, frutto del dialogo, della comunicazione. Una sorta di contrappunto tra maestro e discepolo basato su dedizione e riservatezza, su confidenza e distanza.
    E centrale in quest’ottica ritengo sia il fatto che per Socrate colei che deve partorire, il «soggetto» da cui nasce la verità, è l’anima stessa. In particolare proprio perché per «anima» si intende una realtà personale originale, profonda e in divenire, implicata in un vero e proprio cammino di nascita spirituale. Come la donna che è gravida nel corpo ha bisogno dell’ostetrica per partorire, così il discepolo che ha l’anima gravida di verità ha bisogno di una sorta di spirituale ostetrica che aiuti questa verità a venire alla luce, al mondo.
    A questo si unisce ciò che Zambrano coglie dalla tradizione orfico-pitagorica riguardo all’anima, ossia che quest’ultima è diapason/dia-pas-on: deve passare attraverso tutto ciò che è, al fine di poter cogliere la musica, l’armonia che è in essa, che essa stessa è. È quanto sostiene María Zambrano in Delirio e destino:
    «prima dovette passare per molte cose presenti nella sua anima, dovette patire il consolidato intelletto-agente, patire la vita non vissuta e quella vissuta a metà, dovette esaurire l’amore, l’angoscia e persino la pazzia e il delirio, dovette delirare nel suo inferno… La scala musicale infatti lo prescrive: «dia-pas-on». Si deve passare attraverso tutto; si devono attraversare gli inferni della vita per arrivare a sentire i numeri della propria anima». [4]

    Attraverso gli «inferni della vita»

    E chi può aiutarci e accompagnarci in questi «inferni della vita» è un maestro che sia anche una guida. La differenza tra la guida e il maestro è che il primo attrae per essere seguito mentre il secondo si tende a imitarlo. La guida parte dal punto in cui il maestro si ferma: «dal mistero della sua vocazione. Il seguire la guida è, in verità, continuare a vedere se si raggiunge la propria vocazione. Poiché la vocazione ci precede e ci trascende». [5] Così un maestro che sappia nel contempo essere guida non tende ad impartire conoscenze, ma spinge l’anima dell’educando alla nascita del suo essere autentico, la lascia nella libertà di nascere interamente come persona, attraendola verso il compimento della sua specifica e unica vocazione. Trasmette il desiderio di infinito che si persegue anelando sempre a un ideale realizzabile nella vita concreta.
    Questo è quanto chiarisce anche Martin Buber, insistendo sul fatto che educazione, intesa in chiave maieutica, non è solo e-ducere, ma aiutare a far incontrare le forze essenziali del mondo, quelle cioè capaci di attrarre, di chiamare a nuova unità, appunto a far nascere. In questa visione si comprende bene allora come «nascita» sia un continuo processo relazionale di vocazione e risposta: anziché richiudersi in sé, separato dall’umanità e negando ogni tipo di relazione, la nascita dell’anima spinge il soggetto ad uscire fuori di sé nel tentativo di superare tutto ciò che compromette l’integrità umana.
    La nozione di anima attesta e cerca di mantenere decifrabile, almeno in parte, l’esperienza dell’anima. La sua persistenza nelle lingue della filosofia e, in parte, delle scienze umane invita a riconoscere nell’anima una realtà tanto misteriosa quanto reale ed essenziale per noi. Realtà che deve essere ipotizzata come nucleo da indagare e nel contempo come viva e attiva già nel sentire e nello sguardo di chi la indaga filosoficamente.
    Ma di per sé, una volta ammessa come ipotesi legittima quella della persistenza dell’anima in quanto realtà da decifrare, e dunque della pregnanza filosofica del termine corrispondente, la constatazione di tale persistenza rimane opaca se non viene riconosciuta come il punto di partenza di un cammino di ricerca e l’accesso a un peculiare orizzonte teoretico. È chiaro che deve trattarsi di un cammino che non sia meramente aggiunto dall’esterno, perché invece si apre grazie all’ascolto delle istanze che lo stesso punto di partenza avanza. E una delle prime istanze consiste proprio nel far riferimento alla categoria di anima senza fermarsi a usare scontatamente questo termine come sinonimo dell’identità profonda e nascosta della persona. In effetti sussiste un pericolo, per la questione dell’anima, che è complementare a quello della sua liquidazione da parte di chi la ritiene inesistente: è il pericolo di presupporla, come si fa con una nozione ovvia, scontata, che si esaurisce nell’atto di usare il termine, che pertanto rimane oscuro e impenetrabile. In altre parole, l’anima può dissolversi o a causa di uno scientismo positivista, oppure per colpa di uno spiritualismo pigro, che fa l’apologia dell’anima senza ascoltarla, interpretarla, seguirne le movenze.

    OLTRE OGNI AMBIGUITÀ

    «Anima» non è il nome di una risposta, di una soluzione, è la traccia di molte questioni aperte in cui sono implicati l’identità umana, lo statuto della persona, la libertà, la relazione interpersonale, la conoscenza e il rapporto con la verità.
    Partendo da una tale riflessione è allora importante chiarire la necessità di tentare un superamento degli schemi dualisti o individualisti e delle concezioni riduzioniste o spiritualiste dell’anima.
    Il punto di svolta è infatti ravvisabile nell’interpretare la vita dell’anima stessa pensandola non più come entità contrapposta al corpo, bensì come unicità radicale, cosciente, deliberante e amante dell’essere umano. In questa nuova visione, tutti i tratti tipici della condizione umana trovano un piano di comprensione più adeguato e più organico. Perciò, grazie a questo sviluppo è possibile proporre un itinerario di riconoscimento del proprium del nostro essere che permette il riscatto dall’impoverimento determinatosi da un certo movimento storico-culturale incentrato sulla superiorità della potenza tecnologica e sull’autodeterminazione da parte del singolo. L’elaborazione antropologica che sto delineando credo possa offrire appunto un’alternativa che, lungi dal configurare un modello conchiuso, apre la riflessione antropologica a percorsi che sembrano meglio difesi dal permanente rischio del riduzionismo.

    Oltre dualismi e riduzionismi

    In tali approcci la ricchezza e la complessità dell’anima umana vengono infatti decostruiti e ricondotti interamente a dialettiche neuronali e biochimiche che in realtà riguardano il cervello. [6] Così quanto di più umano, riposto, misterioso caratterizza la nostra unicità di persone viene riportato a fenomeni di tipo biologico interamente esplicabili a lungo termine.
    Una rinnovata riflessione sull’anima può, al contrario, costituire il più forte antidoto culturale nei confronti delle tendenze riduzioniste che a tutt’oggi vorrebbero dimostrare l’inconsistenza del mistero dell’uomo. Non appena gli studi neurologici che aspirano a una valenza antropologica globale e le risultanze del dibattito sul body-mind problem parrebbero liquidare con l’anima il residuo di un’antica superstizione metafisica, da qualche parte l’anima riemerge irriducibile almeno come metafora necessaria.
    Almeno come una parola grazie alla quale si riesce a evocare ciò che termini come sé, personalità, coscienza, ragione, mente, cervello non sanno restituire, a meno di ricorrere ad articolate formule che in fondo non fanno che significare ciò che «anima» suggerisce in una parola sola.
    Si può plausibilmente superare la nozione dualistica di anima, in quanto contrapposta al corpo, mostrando quanto essa sia già «corpo» invisibile e volto interiore della persona. Intendo con queste espressioni chiarire che la vita dell’anima è caratterizzata da alcuni elementi che ci permettono di considerarla come volto misterioso del nostro essere.
    Proprio come il volto di ciascun essere umano è innanzitutto traccia incarnata della sua unicità, esso può inoltre essere inteso come espressione del nostro primo donarci agli altri e rispecchiare infine il nostro sentire e le nostre emozioni, così vale per il nostro volto interiore. L’anima è infatti il nucleo sorgivo della nostra personalità e originalità individuale, testimonia il nostro essere unici al mondo. E allo stesso tempo esprime il nostro vivere in relazione, dal momento che la vita dell’anima possiede come sua caratteristica centrale e connaturata una tessitura interpersonale che la orienta costantemente ad una convivenza. La vita dell’anima è sempre convivere, coesistere, intessersi in una sottilissima rete di relazioni, sostenersi l’una con l’altra, alimentarsi reciprocamente e aiutarsi a portare a compimento la stessa esistenza.
    È evidente come, al contrario, le tendenze riduzioniste o spiritualiste, nonostante la loro rispettiva specificità, siano tra l’altro accomunate dall’inclinazione a eludere il confronto con la natura profondamente relazionale dell’essere umano: il dualismo la spezza, l’individualismo la rigetta, il biologismo la dissolve in automatismi naturali. Per ultimo sottolineo il fatto per cui il sentire specifico di ciascuno, il quale si personifica esteriormente nel volto in carne e ossa, trova il suo grembo nello spazio invisibile dell’anima umana. Qui insieme al cuore, motore primo del sentire, si ascoltano e si patiscono emozioni, sentimenti, affetti, desideri e passioni. Non c’è gioia piena né dolore sperimentato che non tocchino la nostra anima, tanto quanto non segnino il nostro volto carnale.
    Si può nel contempo superare una concezione spiritualista dell’anima ponendo l’attenzione sull’insospettata radicalità del legame che sussiste tra anima e azione etica e storica. Il fatto per cui la prima è decisiva per la seconda si manifesta soprattutto in rapporto alla forza che l’azione assume se può sprigionarsi da una persona integra, intimamente armonica, non più prigioniera di autoinganni e scissioni. L’impegno dell’anima appassionata conferisce all’agire la sua vera efficacia e all’etica la sua autenticità al di là di qualsiasi caduta nel moralismo.
    È quanto hanno testimoniato il pensiero e l’opera dei maestri della nonviolenza, i quali affermano esplicitamente la decisività dell’impegno di un’anima convertita e interamente persuasa del bene, della mite verità del Dio vivente e amante. [7]

    Il «cantus firmus» dell’interiorità

    In questa prospettiva si comprende allora, da un lato che un’anima divenuta intera, unificata, convertita, nata alla sua piena responsabilità è in effetti l’unica forma di soggettività umana individuale capace di trasformare creativamente la storia, e dall’altro lato che la salvezza non assomiglia ad uno straordinario, magico, imprevedibile evento finale. L’idea di salvezza che si delinea fa infatti pensare piuttosto a un processo di gestazione silenziosa, imprevedibile, immaginabile come quella del seme del Regno di Dio che lievita in questo mondo, secondo la traccia della parabola evangelica (Mt 13, 31; Mc 4, 30-32; Lc 13, 18-21). Certo, è una nascita sui generis, ma la discontinuità e la peculiarità del suo eventuale avere luogo non sono tali da restare semplicemente estrinseche e distanti rispetto all’esistere di ognuno di noi e delle comunità umane storicamente date. Anzi, ciascuna creatura umana concorre, attraverso l’impegno a nascere del tutto e attraverso l’azione storica, all’avvento della salvezza, che allora non sopraggiunge come un fulmine alla fine dei tempi, in quanto seme che matura silenzioso e tenace dal fondo della storia tragica.
    Il modo per contrastare e superare tutti questi «-ismo» penso vada ricercato nell’attenzione alla polifonia dell’interiorità originaria, nella quale non esiste voce che possa essere ricondotta ad un’altra e «la cui unità non può venire analiticamente separata, ma deve essere solo ascoltata nella consonanza che si fa presente». [8] 
    Questo passo di Buber può essere accostato per la sua sorprendente vicinanza contenutistica e stilistica ad un brano delle lettere di Bonhoeffer. Nel maggio del 1944, dal campo di prigionia di Tegel, egli introduce infatti, con l’intento di gettare luce sulla delicata relazione tra amore umano e amore divino, l’immagine del cantus firmus: Dio e la sua eternità vogliono essere amati con tutto il cuore, ma non in modo tale da indebolire l’amore terreno, ma appunto come in un cantus firmus, in rapporto al quale ogni voce della vita può fare da contrappunto. Nostro compito è quello
    «di far risuonare con chiarezza nella nostra vita insieme il cantus firmus, e solo dopo ci sarà un suono pieno e completo, e il contrappunto si sentirà sempre sostenuto, non potrà deviare né distaccarsene, e resterà tuttavia qualcosa di specifico, di totale, di completamente autonomo. Solo quando ci troviamo in questa polifonia la vita è totale». [9] 
    Ritengo che le parole di Bonhoeffer aiutino a comprendere quanto sostiene Buber rispetto a questa polifonia dell’interiorità: porre al centro del nostro pensare e agire tale attenzione all’anima, al nostro corpo interiore, permette di superare ogni riduzionismo nella misura in cui lo cogliamo come cantus firmus imprescindibile, che non compromette però le altre voci – del cuore, della coscienza, della ragione e dello spirito – qualificate dal mantenere la loro piena autonomia. Quando la consonanza e il contrappunto del nostro mondo interiore e tra quest’ultimo e quello esteriore diviene autentico e reale si compie, in questa specifica polifonia, la nostra vita e ogni suo aspetto è trasfigurato dalla pienezza di una totalità viva e vivente.

    UN’ANTROPOLOGIA DEL PROFONDO

    Il dinamismo più capace di superare le ambiguità di ogni riduzionismo o spiritualismo è in questo orizzonte di senso quello connesso a ciò che definirei un’antropologia del profondo.
    Quest’ultima infatti è in grado di riconoscere lo specifico valore dell’identità umana nella sua essenza, perché attenta a cogliere e a interpretare i tratti costitutivi del nostro essere. Se si segue il filo conduttore della filosofia dell’anima, diventa chiaro che, con l’indicazione ora formulata, non si aggiunge un tassello al mosaico di ricostruzione dell’identità dell’essere umano, non si dice semplicemente qualcosa di supplementare, del tipo: oltre a un corpo, a una mente, a delle relazioni, l’uomo ha un’anima. Perché, come si è visto sinora, l’anima è un seme di integrità e di comunione onnilaterale, è il nucleo più riposto e più irriducibile dell’unicità vivente della persona. L’anima non è mai un’aggiunta, un additivo a qualcosa che sussista di per sé. È la radice e il nucleo dell’essere personale.

    La singolarità del soggetto e la sua costitutiva relazionalità

    Partendo dal valore antropologicamente fondante e costitutivo dell’anima, non riducibile a qualcosa di puramente estrinseco, richiamo qui il «profondo» non come se fosse un’oscurità ancestrale cui risalire liberandosi della ragione. Detto ancor più precisamente: ritengo che il senso peculiare di un’antropologia del profondo sia deformato e stravolto in qualsiasi visione dell’uomo che, in nome della sua appartenenza alla madre Natura, ne riporti l’apertura, la trascendenza, la libertà a dinamismi biologici e cosmici. In una simile visione l’uomo sarebbe nient’altro che una parte della totalità del mondo naturale. La sua eccedente dignità e anche la sua responsabilità sarebbero oscurate e negate quasi fossero solo il residuo di un arrogante antropocentrismo.
    Assumendo esplicitamente distanza critica da questo uso dell’aggettivo «profondo», che suole riportare l’umano al biologico, intendo prospettare l’idea di una «antropologia del profondo» nella direzione di una nuova attenzione nei confronti di tutto ciò che nell’uomo vive allo stato «utopico», vive nascostamente, eppure rimane inestirpabile e decisivo. In particolare, è una antropologia del profondo quella di uno studio dell’umano – della persona, delle relazioni, della comunità, dell’umanità come qualità e come insieme del genere umano – che tiene in vista e interpreta i dinamismi dell’anima nelle diverse esperienze paradigmatiche dell’esistenza singola e della storia collettiva.
    Sussiste, nella prospettiva che sto abbozzando, una parziale analogia con la formula attraverso la quale Freud parlava della psicoanalisi come di una «psicologia del profondo». [10]
    Con essa egli intende riferirsi alla forza sotterranea dell’inconscio e del suo vortice di pulsioni irriducibili, risalendo a un fiume segreto che orienta e sospinge i moti coscienti del soggetto e i suoi comportamenti. Il profondo quindi risulta essere il nucleo chiave della soggettività umana, una realtà tanto nascosta quanto decisiva, che tuttavia può essere decifrata.
    Nella nozione del nucleo inconscio dell’individuo, identificato nella dimensione del profondo, in parte ritorna, trasfigurata, l’idea di una soggettività intima, nostra, ma più radicale dell’io.
    D’altra parte, Freud si muove sul piano di una osservazione scientifica e di un’interpretazione dei segni dell’inconscio che non puntano affatto a riaffermare un’identità spirituale della persona e dunque non sfociano in una teoria dell’anima.
    A Freud interessa l’economia delle energie psichiche e la dinamica delle energie psichiche entro un campo di forze da studiare nei termini di una fisica dell’inconscio. Da questo punto di vista il «profondo» freudiano appare una riduzione rispetto al «profondo» indagato da una filosofia dell’anima. Rimane d’altronde l’analogia nella ricerca antropologica di una dimensione profonda e decisiva in noi, la quale non è tanto e solo un luogo ma un viaggio e una forza vitale fondamentale. Freud è uno scienziato che mostra di aver mantenuto il senso del mistero, per cui la nozione di inconscio, per quanto riduttiva, non distrugge quella profondità che poteva essere evocata dal termine «anima».
    Solamente lungo il sentiero di una rinnovata attenzione all’anima il «profondo» non è né misconosciuto, né identificato in un oscuro sistema biosociale senza volto. Solo in questa prospettiva si ascolta e si inizia a comprendere una profondità radicalmente umana, tale da trovarsi nel punto di confluenza tra l’unicità di ciascuno e l’universalità della comunità dell’umanità. È nella filosofia dell’anima che si prende sul serio la trascendenza immanente, intrapersonale, intima rivelata dall’anima, è qui che si riconosce la spiritualità incarnata di questa realtà che custodisce e svolge il mistero della persona, di ogni persona.
    Una tale antropologia del profondo deve poter accompagnare ogni dinamica educativa nella misura in cui non va per altro interpretata come una chiusura del soggetto su se stesso, un ripiegamento sull’interiorità che preclude ogni tipo di relazione e spinge all’isolamento, ma al contrario come fondante una relazione davvero autentica, perché consapevole del duplice e indissolubile approfondimento richiesto dalla stessa questione dell’anima.
    Approfondimento appunto che non avanza soltanto in direzione della singolarità profonda e autocosciente del soggetto umano, ma anche in direzione della relazionalità costitutiva di questa stessa singolarità.
    Si può dire pertanto che essa trova il suo alveo più connaturale non in una sorta di reazione spiritualista al materialismo, bensì in un’antropologia della relazione che a sua volta è l’accesso fondamentale per ripensare l’origine della vita, la verità, Dio stesso secondo il paradigma dell’incontro, della creazione oblativa, dell’amore quale scaturigine della vita.
    Un altro aspetto coessenziale a questo ripensamento antropologico e che nessun educatore credo possa trascurare è quello del rapporto tra anima e libertà. Qui si nota ben presto che l’una e l’altra possiedono la medesima irriducibilità, che non è una resistenza fortunosa a circostanze storiche e culturali avverse, poiché piuttosto è il segno di una originarietà che allude alla provenienza e alla destinazione dell’uomo.

    La libertà dell’unicità

    Proprio l’indagine filosofica attenta alla realtà dell’anima permette una rilettura molto più ampia del dinamismo della libertà e della sua natura.
    Quando l’uomo è incastonato entro le coordinate di un’antropologia statica e conclusiva, concepita come un elenco di aggettivi relativi a caratteristiche tipiche dell’umano, allora la libertà viene puntualmente pensata alla stregua di una facoltà quasi fisiologica, di un potere specifico che si esprime in prestazioni e funzioni.
    Quando al contrario l’essere umano è interpretato in ciò che lo costituisce sullo sfondo di un orizzonte aperto e nel riguardo per il suo mistero di valore e di trascendenza, allora la libertà non è più soltanto e innanzitutto una facoltà tra le altre. La libertà, piuttosto, acquista il suo volto, coincide con l’unicità autocosciente, deliberante, insieme passiva e attiva, personale e relazionale, appassionata e tendenzialmente amorevole della persona. Anima e libertà sembrano confluire nello stesso essere, intrecciarsi nella stessa soggettività. Tanto che si potrebbe dire che l’anima è la libertà dell’unicità e la sua presenza insostituibile nel mondo.
    Si intravedono già adesso le conseguenze antropologiche, etiche e politiche di un simile spostamento di prospettiva. Se la libertà è nel nucleo più profondo della persona, è questo nucleo, ne deriva che ogni visione ideologica, settoriale, strumentale della libertà stessa sarà criticabile come infondata e fuorviante.
    Una libertà così riconsiderata rimanda ciascun soggetto, ciascun educando, non a un esercizio di potenza o di arbitrio, bensì a una fedeltà di fondo.
    Essenziale sarà allora educare il singolo a rispondere alla propria chiamata, in una modalità altrettanto unica e originale, all’altezza di questa fedeltà, verso se stesso, verso l’origine della sua vita, verso il mondo comune con gli altri. Intendo dire che una filosofia dell’anima, organicamente concepita nel tessuto di un’antropologia della relazione, consente a sua volta di riconoscere il valore e lo spazio della gratuità nella condizione umana.
    La capacità di dedicarsi, nella quale culmina il viaggio della nostra libertà, vede nell’anima la sua soggettività più adeguata.
    Che la libertà possa essere esercitata, che maturi fino a farsi gratuità, generosità, dedizione, questo si comprende meglio in una visione che segue i movimenti dell’anima piuttosto che in una visione che riconosce come protagonisti interiori dell’agire e degli stili di relazione soltanto la coscienza morale, la ragione o il cuore. Si conferma allora come la filosofia dell’anima rappresenti il nucleo propulsivo di un’antropologia del profondo, in grado di accogliere e di interpretare gli aspetti costitutivi dell’esistenza e della condizione umana.

    PERCORSI DI NASCITA

    Ma come correlare la prospettiva che considera l’intera esistenza come un possibile, rischioso e tendenziale cammino di nascita sino al compimento di se stessi alla prospettiva di un’antropologia del profondo, iscritta in un orizzonte pedagogico?
    Ritengo che l’una non vada senza l’altra. Se consideriamo infatti che, nell’uomo e nella donna, è l’anima che prosegue il loro cammino pronunciando sempre e ogni volta il sì del continuare a nascere, allora vivere non è più ravvisabile semplicemente come il nascere, invecchiare, morire, né la nascita come tale si risolve in un iniziale dato genetico.
    Ed è qui che gioca un ruolo importante un’antropologia del profondo: riuscendo a cogliere il proprium del nostro essere, ci permette di accompagnare, e superare, la riflessione ricorrente sulla condizione umana sino all’idea della nascita intesa non più come episodio iniziale della vita e in sé concluso con l’uscita dal corpo materno. Infatti l’opinione comune non può che vedere la parabola dell’esistenza nel suo consumarsi dalla nascita, conclusa all’inizio della vita, sino al crescere, invecchiare e morire. Da questo punto di vista si nasce all’inizio, in modo frettoloso, dopo di che si muore un poco alla volta, giorno per giorno, fino al decesso. Finché la percezione dell’esistenza è questa, parlare dell’esistenza come nascita permanente ed eventualmente compiuta nel divenire se stessi pienamente è qualcosa di non credibile e non riscontrabile.

    Nascere sempre e di nuovo

    Sul piano dell’esperienza biografica di ognuno, probabilmente tale cambiamento di sguardo può darsi allorché c’è un evento di risveglio, di conversione, di rigenerazione, di resurrezione nel centro della vita. Ci sono certamente eventi di guarigione, processi di riconciliazione, svolte fatte di perdono e misericordia, percorsi di scoperta, risveglio e apprendimento, aperture inattese di nuove opportunità, processi di liberazione nei quali constatiamo che, se anche si invecchia e si muore, nondimeno ci è dato talvolta di rinascere in qualche modo. Dove sappiamo che la «rinascita» riguarda una svolta essenziale per noi e non è solo un’espressione metaforica.
    Ebbene, le esperienze di rinascita sono un’indiretta conferma del dato per cui l’esistenza non viaggia su un binario morto e obbligato, giacché anzi può prendere vie inedite e cariche di futuro. Mentre la percezione dell’esistenza come nascita iniziale e perdita progressiva di sé, nell’invecchiamento e poi con la morte, constata alcuni fatti, che sono sì evidenti e concreti, ma senza nemmeno il riconoscimento di tutti i fatti della vita, l’interpretazione che vede l’esistenza intera come nascita correla più ampiamente i fatti negativi e positivi della vita alla cognizione del valore e del senso del nostro esistere.
    Espresso metaforicamente: cogliere i fatti, peraltro in modo selettivo e non completo, senza cogliere i significati e il valore di essi è come leggere la Sacra Scrittura alla lettera. Il letteralismo esistenziale vede solo i fatti, anzi esclusivamente quei fatti che segnalano i limiti strutturali dell’esistenza. Ma quest’ultima, nel suo mistero di valore, rimane impensata.
    Il compito di attuare una rivoluzione percettiva che porta a leggere l’esistenza intera come nascita, e che ovviamente è profonda e ardua, mi sembra sia in maniera particolare affidato oggi agli educatori. La dedizione nell’agire, come impegno e dono gratuito di sé, offre inoltre una luce nuova alla radicalità del compito formativo affidato ad ogni essere umano.
    E ciò vale proprio per coloro che, come educatori, hanno il delicato e fondamentale ruolo di trasmettere e insegnare la libertà dell’amore generoso, a cui ciascuna anima è chiamata. A mio avviso tale insegnamento porta realmente frutto se non nasce solo da schemi logico-deduttivi o unicamente astratti, ma se si cala nel vissuto di ciascuno.
    Aiutare a comprendere il valore del vivere all’altezza della libertà dell’amore gratuito ha bisogno di essere innanzitutto testimoniato attraverso la guida e l’esempio di uomini e donne che incarnano una coerenza e armonia radicali proprio a partire dalla loro stessa vita. Educare equivale così a tracciare percorsi, da cui si può sempre ripartire dopo aver inciampato o dopo aver sbagliato strada, dopo aver intrapreso un cammino che non era nostro.
    Questo significa nascere sempre e di nuovo, e per farlo è necessario che qualcuno ci guidi, sostenga i nostri passi e ci aiuti a delineare le tracce del nostro percorso. Nessuno può compierlo per noi o sostituirci, ma intanto, lungo la via, c’è dato di sperimentare la presenza di alcuni maestro-guida. Inoltre non va dimenticato che ciascuno può divenire tale per coloro che incrociano il nostro cammino e dei quali dovremmo essere attivamente responsabili.

    Tracce per rinascere

    Tenterò ora di indicare brevemente quelle che per me sono alcune tracce che possono aiutare a muoversi e a ripartire, a rinascere, verso la personale vocazione di ciascuno.
    * Educare lo sguardo interiore.
    La prima traccia invita ad essere, come guida, capaci di arrivare a educare l’anima non insegnando il sapere, ma aiutando ad acquisirlo alludendo, motivando qualcuno a un cammino che dovrà percorrere in prima persona.
    Fino a giungere ad educare lo sguardo interiore, ossia ad allargare il proprio orizzonte e ad apprendere a dirigere lo sguardo oltre ogni angoscia e paura, che rendono al contrario gli occhi dell’anima ciechi, a disfarsi dei pregiudizi, dei sentimenti legati al male ed elevare lo sguardo, avendo senso critico e imparando ad interpretare. Ciò in considerazione del fatto che «il maestro, ha da essere come una guida, deve esserlo tenendosi al bordo di quel mistero dell’essere di ciascuno che è la sua vocazione». [11] 
    * Considerare ogni cammino educativo come una vocazione.
    E arrivo così alla seconda traccia: considerare ogni cammino educativo come una vocazione, che permette a sua volta di chiarificare la vocazione di chi viene educato, se si presta attenzione alla sua singolarità.
    Oggi si è reticenti ad utilizzare la parola «vocazione» per indicare l’attività che svolgiamo, perché ci sentiamo attratti a farlo e si predilige l’uso di «professione», rendendola quindi simile al termine «occupazione», ma si perde così il suo senso originale.
    Com’è noto infatti la parola viene dal verbo vocare, chiamare, per cui la vocazione è innanzitutto una chiamata; e chi, a mio avviso, ascolta tale chiamata, la accoglie e in seguito le risponde, è proprio l’anima. Se nella dinamica educativa si è poi attenti a ciascun individuo, visto e ascoltato davvero come persona, come colui che incarna una promessa di realizzazione e di compimento, sarà possibile aiutare a maturare una maggiore e specifica consapevolezza circa la sua personale vocazione. Per far questo ritengo sia basilare accogliere e interpretare la varietà infinita di componenti che tessono la vita quotidiana, sviscerando tutte le potenzialità contenute, e ancora invisibili, nelle loro qualità.
    * Educare alla responsabilità attiva.
    Dall’ascolto radicale e profondo dell’altro e della sua vocazione, che si tesse con quella della guida, incontriamo la terza traccia: educare alla responsabilità attiva. Da una trasformata comprensione della dignità della persona e della realtà dell’anima è possibile intravedere la primaria urgenza, che scaturisce in ciascuno, di far maturare un tipo di società che sia conforme a una tale ricchezza di valore. Imprescindibile è il livello di risposta, di responsabilità, che si sceglie di dare alla propria chiamata.
    Tale approfondimento della percezione del valore dell’essere umano non deve essere orientato soltanto in senso passivo, cioè nel senso di una presa d’atto di quanto è dovuto a colui o a colei in quanto «oggetto» e destinataria della cura per i diritti, ma anche nel senso attivo, che guarda a ognuno come «soggetto» dell’etica, del diritto, della politica e dell’azione storica, tanto più autentico quanto più il suo agire si radica nella soggettività libera e leale dell’anima.
    Non solo con l’adesione della coscienza o della ragione, ma è proprio con il sostegno dell’anima che la persona può giungere ad assumere pienamente la sua responsabilità per gli altri fino a divenire protagonista di relazioni di dono, di compassione, di misericordia, di speranza e fiducia condivise, di liberazione. È solo con l’unità del cuore, della coscienza e dell’anima stessa che si può arrivare a capire che «non c’è in un’intera vita cosa più importante da fare che chinarsi perché un altro, cingendoti il collo, possa rialzarsi». [12]
    Sottolineo come in questo passaggio sia ancora più importante accompagnare e guidare chi inizia a vivere responsabilmente, chi compie i primi passi lungo la strada nel suo cammino attraverso il tempo, ricordandogli che è sempre possibile ripartire, rinascere al di là dei rischi connessi al procedere.
    Radicalmente contrario a tale atteggiamento è invece l’abbandonare, il togliere il respiro di possibilità che anziché aprire al futuro, serra nel passato. Sono l’angoscia, l’insicurezza e il dubbio che si insinuano nei confronti della relazione, della vocazione e di Dio che spezzano la realtà interiore della persona e lo stesso cammino che essa compie, facendo prevalere gli impulsi più oscuri e soffocando gli altri. L’appello di Dio attrae invece verso l’unificazione e l’integrità, da cui scaturisce l’azione responsabile. Unificare e rendere integra la nostra anima equivale, inoltre, a pervenire alla reale nascita, in cui giungiamo a una nuova unità responsabile nella relazione, e nel contempo diveniamo in noi stessi una nuova, rinnovata unità.
    * Incoraggiare altri verso il futuro con fiducia.
    Nell’orizzonte che è venuto delineandosi introduco la quarta traccia, che mi sembra essere strettamente connessa alle precedenti.
    Dall’assunzione responsabile della propria vocazione si dilata in effetti lo sguardo dell’anima quando, come guida, inizio a incoraggiare altri verso il futuro con fiducia.
    Mi riferisco qui in maniera particolare ad una riflessione riguardante il mondo giovanile e adolescenziale, ma che non preclude il riferimento ad ogni altra stagione della vita. Accompagnare gli adolescenti equivale a oltrepassare ogni visione legata alla banale espressione, purtroppo ricorrente, «la gioventù di oggi…».
    Quest’ultima infatti, più o meno consapevolmente, serve da un lato ad innalzare un muro di non-comunicazione e di sordità tra adulti e giovani, dall’altro lato infonde una sfiducia radicale e subdola nelle potenzialità iscritte nell’essere dei giovani, che finiscono per essere messe a tacere dagli stessi. Nei casi in cui la sfiducia invece non paralizza, si giunge alla ribellione che non è mai o non tanto suscitata da individui quanto piuttosto da un gruppo, a testimonianza della necessità di sentirsi appartenenti ad una realtà fortemente relazionale.
    Probabilmente quindi spetta a coloro che hanno un compito educativo nei loro confronti non continuare a parlare dei giovani, ma bisognerebbe piuttosto iniziare a parlare con i giovani, per far emergere le inevitabili incertezze e il disorientamento profondo.
    Solo così sarà possibile incoraggiarli ed educarli alla fiducia, fondamento stesso della fede, aiutandoli a comprendere che crisi non è fallimento. Che crisi è un segnale e una prova che la vita di ognuno non è statica, ma un continuo cambiamento evolutivo che può giungere ad una sperabile realizzazione della nostra identità, di quella della comunità in cui viviamo, fino a ricomprendere quella della comunità universale dei viventi.
    La fiducia è l’atteggiamento che meglio di ogni altro corrisponde al futuro, è il modo di accoglierlo, di prepararlo e di aprirgli il cammino a partire dallo spazio della nostra anima.

    NOTE

    1 Docente di Ermeneutica filosofica all’Università di Macerata, autrice di Il cuore della ragione. Dialettiche dell’amore e del perdono in Hegel, Cittadella editrice, Assisi 2006, pp. 208 e La verità dell’anima. Interiorità e relazione in Martin Buber e María Zambrano, Cittadella editrice, Assisi 2008, pp. 312.
    2 J. Ortega y Gasset, Meditazioni del Chisciotte, Guida, Napoli 2000, p. 58.
    3 M. Zambrano, Persona e democrazia, Bruno Mondadori, Milano 2000, p. 131. Per una riflessione più dettagliata circa la filosofia di María Zambrano e di Martin Buber rimando al mio studio La verità dell’anima. Interiorità e relazione in Martin Buber e María Zambrano,Cittadella editrice, Assisi 2008.
    4 M. Zambrano, Delirio e destino, Raffaello Cortina Editore, Milano 2000, p. 294.
    5 M. Zambrano, Il Maestro e la Guida, tr. it. a cura di N. Bombaci, «Dialegesthai. Rivista telematica di filosofia», anno 8, 2006, p. 6.
    6 In questo orizzonte rinvio ad esempio al testo di A. S. David – T. Kircher (Eds.), The Self in Neuroscience and Psichiatry, Cambridge University Press, Cambridge 2003.
    7 Su tale argomento ricordo il volume di R. Mancini, L’amore politico. Sulla via della nonviolenza con Gandhi, Capitini e Lévinas, Cittadella editrice, Assisi 2005.
    8 M. Buber, “Sull’educativo”, in Il principio dialogico e altri saggi, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo 1997, p. 164.
    9 D. Bonhoeffer, Resistenza e resa, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo 2000, p. 374.
    10 Cf S. Freud, Introduzione alla psicoanalisi, tr. it. di M. Tonin Dogana ed E. Sagittario, Boringhieri, Torino 1977.
    11 M. Zambrano, Cartas de La Pièce. Correspondencia con Augustín Andreu, UPV, Valencia 2002, p. 258.
    12 L. Pintor, Servabo. Memoria di fine secolo, Bollati Boringhieri, Torino 1991, p. 85.


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