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    L’emorroissa



    Gioia Quattrini

    (NPG 2000-09-62)


    «Chi mi ha toccato?». La voce di Cristo sovrastò il clamore della folla e fece silenzio attorno. La donna stretta nel mantello si schiacciò ancora più nell’angolo, troppo impaurita per mostrarsi. Del resto da dodici lunghi anni nascondersi era diventato il suo affanno quotidiano, l’angoscia che riempiva ogni giorno della sua sudicia vita, dall’alba al tramonto non più persona ma fantasma.
    Un mattino si era svegliata sporca di sangue, un sangue non previsto, fuori dalle regole, che da allora non aveva cessato un solo momento di sporcarla. Un flusso continuo che usciva da lei senza che lei riuscisse a governarlo. Un fiume che nasceva dal suo corpo, dalla parte più intima e interna, la più delicata, e nonostante questo sembrava invece non appartenerle, un sortilegio estraneo che la sfruttava ma in realtà non le apparteneva. Così era divenuta malata, di un male che le parole del Levitico marchiavano come immondo e tanto lo era da rendere impura qualunque cosa toccata e qualunque persona sfiorata.
    Inutili erano stati tutti i tentativi di venire a capo di quell’orrore. Una quantità incredibile di medici aveva finito per ridurla in povertà ma non l’aveva di certo guarita. Nessuno era riuscito a comprendere l’origine di quel male e per questo tutti avevano cominciato a ritenerlo una punizione che il Signore aveva mandato per palesare chissà quale orribile peccato, che lei invece aveva cercato inutilmente di tenere nascosto.
    Da allora aveva compreso che morire non era cosa tanto terribile rispetto allo sguardo della tua gente che non ti ritiene affatto degna di vivere. Perché era così: quello che lei si trovava a sopportare era mille volte peggiore della peggiore delle morti, nessun uomo da amare, né figli da crescere, amici con cui celebrare la Pasqua, nessuna casa dove vivere ed accogliere e confortare, nessuna possibilità di fare sacrifici nel Tempio poiché anche Dio quando posava il suo sguardo su di lei vedeva soltanto un’impura.
    Quel flusso di sangue l’aveva strappata alla sua vita, alla sua gente, al suo futuro come un fiume in piena sradica in un attimo e con tanta facilità gli alberi che fino ad un momento prima avevano sentito di essere forti e piantati nelle radici, tranquilli e senza alcun allarme.
    Con il passare di quei dodici lunghi anni la gente del villaggio aveva finito per non tollerare più neppure la sua vista, figuriamoci poi rivolgerle la parola, solo gesti duri e parole gridate per scacciarla. Era diventata un animale notturno che mal sopportava la luce del sole e girava avvolta nel suo mantello da tanto che in molti avevano dimenticato il suo aspetto.
    Non c’era stata alba, in quei lunghi dodici anni, in cui lei svegliandosi non avesse sperato di veder esaurito l’orrore. Così, semplicemente come era cominciato. Pensava in cuor suo, per consolarsi e farsi comunque una ragione, ad una lunga penitenza, ad una prova certo difficile, da sopportare con pazienza e devozione per non deludere il Signore. Non sapeva per quanto avrebbe resistito ma insisteva giorno dopo giorno.
    Un sabato aveva sentito raccontare di un giovane uomo che proprio lì a Cafarnao guariva i malati e liberava dai demoni, molte volte ospite in casa di Simone, il pescatore che lei aveva conosciuto bene in passato.
    Così, ogni qualvolta aveva sentito di Gesù ospite da Simone si era avvicinata di nascosto sperando di poterlo vedere e almeno sfiorare, certa di guarire, certa che lui fosse il Messia. Aveva visto lei stessa un paralitico uscire camminando con le proprie gambe ma come poteva lei, l’immonda, osare avvicinarsi al figlio di Dio, alla purezza delle sue mani? E poi era stata la paura che qualcuno la riconoscesse e la maltrattasse e la cacciasse con più rabbia del solito per la sua imperdonabile audacia, senza vergogna e senza rispetto, che l’aveva trattenuta dal tentare l’impossibile.
    Un giorno, però, sentì da qualcuno che una donna, che peraltro lei conosceva bene, reietta come lei, una prostituta, era stata perdonata perché non aveva temuto la folla e con coraggio era perfino entrata nella casa del ricco fariseo.
    Immediatamente tutto le fu chiaro. Seduta sul fondo della sua disperazione capì che bisognava far parlare l’amore, soltanto quello. Difficilmente infatti, l’amore resta sordo all’amore. Capì ed attese.
    Non era trascorso molto tempo, quando la confusione tanto nota annunciò di nuovo l’arrivo di Gesù. Questa volta niente l’avrebbe fermata. Si mescolò alla folla, si insinuò di soppiatto scivolando nella mischia e gettandosi per terra sfiorò la coda del mantello di Cristo.
    E fu come se mille finestre si fossero spalancate riversando frescura sul suo volto, tra i suoi capelli, per tutto il suo corpo. Una nuova forza, una nuova vita rifluiva e le scorreva nelle vene nuovo vigore.
    «Chi mi ha toccato?», disse Gesù.
    I discepoli, piuttosto perplessi, si guardarono. Che domanda era mai quella nell’assurdo parapiglia che da sempre lo seguiva.
    «Tu vedi la folla che ti stringe attorno e dici: Chi mi ha toccato?», risposero.
    Intanto si era fatto silenzio e nessuno osava ammettere.
    Lo sguardo di Cristo frugava nella moltitudine. Senza fretta.
    Cristo aspettava che lei rispondesse alla sua chiamata perché entrambi potessero dare un volto all’amore che da solo aveva risposto all’amore.
    Cristo aspettava perché trovasse compimento un incontro d’amore, perché una grande consolazione incontrasse una grande pena e sciogliesse i nodi.
    Tremante e con il cuore in tumulto, la donna si fece avanti strisciando per terra, non osando neppure sollevare il capo. Dapprima esitanti, poi senza alcun freno, le parole le uscirono dalle labbra, piene di dolore.
    Raccontò dell’orrore di quei dodici anni, della solitudine che spezza le reni e curva la schiena, della fede che ogni tanto si era affievolita nella disperazione, della voglia di gridare che soprattutto la notte le afferrava la gola. Raccontò tutto e mentre raccontava una sensazione di leggerezza, come uno sgravio dal peso del suo dolore: la sensazione che si prova quando, dopo averlo tanto cercato, finalmente è nostro il perdono di qualcuno che abbiamo molto amato e che è evidente ricambi il nostro amore.
    La sensazione che si prova quando la nostra pena ci lascia leggeri per andare a raccogliersi nelle mani di chi solo può consolarci: un padre. Ci lascia leggeri ma consapevoli fino in fondo di quanto sacrificio costi chiedere perdono e di quanto costi donarlo.
    Raccontava perché nulla restasse nascosto dentro di lei, e la sua schiena tornava dritta, i suoi polmoni si arrischiavano a respiri più larghi, i suoi occhi bevevano lunghe sorsate di luce.
    «Figlia, la tua fede ti ha salvata. Va’ in pace e sii guarita dal tuo male».
    Cristo conosce la disperazione che sola permette di accedere alla serenità. La disperazione di chi ha molto vissuto, molto sofferto e molto continua ancora ad amare il mondo.


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