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    Le rivoluzioni dell’homo videns



    Umberto Galimberti

    (NPG 2000-07-62)


    Prima la televisione e poi il computer, questi «elettrodomestici gentili» come vuole la loro iniziale reputazione, oggi hanno gettato la maschera rivelandosi per quel che sono: i più formidabili condizionatori di pensiero, non nel senso che ci dicono cosa dobbiamo pensare, ma nel senso che modificano in modo radicale il nostro modo di pensare, trasformandolo da analitico, strutturato, sequenziale e referenziale, in generico, vago, globale, olistico. Questa trasformazione non è necessariamente un guaio. Il pensiero analitico ha duemilacinquecento anni di storia che coincide con la storia dell’Occidente. Prima non si pensava in modo analitico e sequenziale, ma olistico e globale, e oggi, grazie alla televisione e al computer, si torna a pensare in quel modo.
    Le conseguenze sono già visibili nella nostra scuola, che nessuna riforma può migliorare se prima non ci si rende conto di questa trasformazione che pone in conflitto la cultura della scuola con la cultura dei giovani. La scuola educa all’analiticità, al controllo linguistico, all’esplicitazione verbale, alla consequenzialità proposizionale, allo spirito critico, alla necessità di tradurre in parole il proprio mondo interiore e la propria esperienza.
    Rispetto a questo modello, la cultura giovanile è quanto di più dissonante vi possa essere, perché all’esplicitazione verbale preferisce l’allusione, così come predilige l’esperienza vissuta all’analisi dell’esperienza e alla sua nominazione.
    Per i giovani le esperienze è meglio averle, viverle, rievocarle che raccontarle analiticamente e tradurle in strutture discorsive, per cui andare a scuola finisce con l’essere una finzione, quando non una penitenza, finita la quale, si può tornare alla realtà vera e autentica che non si articola in proposizioni verbali, ma in emozioni totali, come la musica, ad esempio, che non è una materia scolastica, ma qualcosa di infinitamente più profondo e coinvolgente, che accomuna una cultura all’altra, mettendo in secondo piano la differenza linguistica e la sua articolazione proposizionale.
    Leggo queste cose in un bellissimo libro di Raffaele Simone, La terza fase. Forme di sapere che stiamo perdendo (Laterza, pagg. 152, lire 22.000).
    La prima fase coincise con l’invenzione della scrittura che permise di dare stabilità alle conoscenze che sono un patrimonio fragile, delicato, sempre esposto al rischio di dare perduto.
    La seconda fase si aprì venti secoli dopo con l’invenzione della stampa che fece del libro, fino allora costosissimo e non riproducibile, un bene a basso costo e alla portata di tutti, che consentì a milioni di persone di attingere a cose pensate da altri a immense distanze di tempo e di spazio.
    Negli ultimi trent’anni siamo traghettati nella terza fase, dove le cose che sappiamo, dalle più elementari alle più complesse, non le dobbiamo necessariamente al fatto di averle lette da qualche parte, come accadeva fino a trent’anni fa, ma semplicemente al fatto di averle viste in televisione, al cinema, sullo schermo di un computer, oppure sentite dalla voce di qualcuno, dalla radio, o da un amplificatore inserito nelle nostre orecchie e collegato a un walkman.
    A questo punto sorgono spontanee le domande che Raffaele Simone opportunamente si pone: come la trasformazione tecnica modifica il nostro modo di pensare? E ancora: quali forme di sapere stiamo perdendo per effetto di questo cambiamento?
    Con l’avvento della scrittura il vedere acquistò un primato rispetto all’udire, ma non lasciò senza cambiamenti la stessa vista che, da visione delle immagini del mondo, dovette imparare a tradurre in significati una sequenza lineare di simboli visivi. Se leggo la parola «cane», la forma grafica della parola e quella fonica non hanno niente a che fare con il cane, e allora la visione dei codici alfabetici comporta un esercizio della mente che la visione per immagini non richiede. Ciò ha comportato un passaggio da un tipo di intelligenza che Raffaele Simone chiama simultanea a quell’altro tipo di intelligenza considerata più evoluta che è quella sequenziale.
    L’intelligenze simultanea è caratterizzata dalla capacità di trattare nello stesso tempo più informazioni, senza però essere in grado di stabilire una successione, una gerarchia e quindi un ordine. È l’intelligenza che usiamo ad esempio quando guardiamo un quadro, dove è impossibile dire che cosa in un quadro vada guardato prima e cosa dopo. L’intelligenza sequenziale, invece, quella che usiamo per leggere, necessita di una successione rigorosa e rigida che articola e analizza i codici grafici disposti in linea.
    Sull’intelligenza sequenziale poggia quasi tutto il patrimonio di conoscenze dell’uomo occidentale. Ma questo tipo di intelligenza, che fino a qualche anno fa sembrava un progresso acquisito definitivo, oggi sembra entrare in crisi ad opera di un ritorno dell’intelligenza simultanea, più consona all’immagine che all’alfabeto. Non a caso si assiste in tutto il mondo ad un arresto dell’alfabetizzazione che da diversi anni non si schioda da quel 47 per cento di analfabeti, per cui sembra si rovesci quel processo, che sembrava irreversibile, che aveva portato l’uomo dall’intelligenza simultanea a quella sequenziale. Radio, telefono e televisione hanno riportato al primato l’udito rispetto alla vista, e ricondotto la vista dalla decodificazione dei segni grafici alla semplice percezione delle immagini che sugli schermi si susseguono, con conseguente modificazione dell’intelligenza la quale, da una forma evoluta, regredisce a una forma più elementare.
    Naturalmente guardare è più facile che leggere e quindi, cari amici del libro, apprestiamoci ad essere sempre più rari e, in questo mondo mediatico, anche un po’ strani. L’homo sapiens, capace di decodificare segni ed elaborare concetti astratti è, come dice Raffaele Simone, sul punto di essere soppiantato dall’homo videns che non è portatore di un pensiero, ma fruitore di immagini, con conseguente «impoverimento del capire» dovuto, secondo Giovanni Sartori (Homo videns. Televisione e post-pensiero, Laterza, 1998) all’incremento del consumo di televisione. E come è noto, una moltitudine che «non capisce» è il bene più prezioso di cui può disporre chi ha interesse a manipolare le folle.
    «Non ho letto il libro, ma ho visto il film», così si giustifica la gente che non legge.
    Ma quali segni di mutamento profondo nell’uso della nostra mente nasconde questa semplice frasetta? Raffaele Simone ne elenca alcuni: innanzitutto il ritmo mentale che nella lettura è autotrainato, nella visione è eterotrainato dall’emittente, per cui chi guarda è costretto a seguire il ritmo imposto dallo spettacolo. Ciò comporta una riduzione della correggibilità per cui chi guarda, a differenza di chi legge, non può fermarsi per verificare se ha ben capito quel che ha visto. La possibilità di fermarsi consente in ogni fase della lettura di richiamare la nostra enciclopedia di conoscenze precedenti, mentre la cosa non è consentita a chi vede, perché la successione delle immagini, non lasciandogli il tempo, non glielo permette.
    La concentrazione, il silenzio, la solitudine sono essenziali a chi legge, mentre si può guardare collettivamente, convivialmente e addirittura facendo altre cose. Condizioni, queste, che non favoriscono per nulla la riflessione e l’approfondimento.
    In compenso la visione esercita la multisensorialità, per cui se si perde quel che trasmette il canale uditivo è possibile seguire quello visivo e viceversa, alla fine qualcosa rimarrà, e l’utente si sente da questo rassicurato. Inoltre, a differenza della lettura, il carattere iconico della visione, consente di afferrare a prima vista il proprio oggetto e quindi di coinvolgere immediatamente l’emozione, che però cattura l’anima senza il tempo di un’elaborazione.
    La «fatica di leggere» non può competere con la «facilità di guardare» e allora, rispetto al libro, la televisione sarà il medium più amichevole perché è quello che «dà meno da fare». Oggi la scuola va male perché da trent’anni a questa parte ha a che fare sempre meno con l’homo sapiens e sempre più con l’homo videns, la cui mente finisce con l’essere diversamente conformata. Ancora buona per conoscenze iniziali complesse come la matematica, che si continua a imparare meglio a scuola che fuori, la scuola va perdendo terreno ogni giorno di più perché, invece di interagire con l’espansione esponenziale delle informazioni, superficiali finché si vuole, ma comunque elementi di conoscenza messi a disposizione dai media, sembra un rifugio in cui ci si richiude per essere protetti dal fluire della conoscenza e dal suo accrescersi.
    La scuola infatti è cognitivamente lenta finché si limita a trasmettere un pacchetto delimitato e statico di conoscenze selezionate, e metodologicamente lenta nella sua difficoltà ad accedere a quei luoghi di conoscenza che non sono solo le enciclopedie e i vocabolari, ma le banche dati e i repertori. Per cui oggi la scuola non è più il luogo della movimentazione della conoscenza, ma quello in cui alcune conoscenze, dopo essere state trasmesse e classificate, si sedentarizzano, stagionano, e si staticizzano.
    Che fare? Non lo so. Ma è già un passo avanti prender conoscenza di almeno due cose: innanzitutto che l’intelligenza sequenziale, che finora ha caratterizzato l’Occidente nella costruzione delle sue conoscenze, cede ogni giorno di più il passo all’intelligenza simultanea; e in secondo luogo che la scuola ha ormai a che fare con un universo giovanile che fatica enormemente di più che in passato a seguire il carattere sequenziale dell’intelligenza a cui la scuola affida quasi esclusivamente la trasmissione del suo sapere.
    Per i passaggi epocali non ci sono ricette pronte, ma sfide di pensiero e di paziente sperimentazione. Mettiamoci al lavoro.

    (da Repubblica, 21 febbraio 2000)


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