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    Fedeli alle nostre speranze



    Stefano Lupi

    (NPG 2000-07-32)


    Professore: «Avere speranze è cosa diversa dalle illusioni. Poniamo che uno abbia sete: secondo l’illusione vede acqua dappertutto e lecca un muro perché gli sembra una cascata. Secondo la speranza egli ragiona e cerca d’indirizzarsi verso un luogo dove sa che esiste una fontana. Può cadere stecchito lungo la strada ma era diretto verso una fontana.» Allora, ragazzi, cosa rispondere a Vasco Pratolini?
    Francesco: Se ho ben capito, la conclusione è che la speranza è l’unico motore di una vita che voglia avere un senso e uno scopo.
    Marco: Eppure io ho sempre pensato che la speranza fosse qualcosa sulla quale non confidare troppo. Qualcosa che finisce facilmente per trasformarsi in una sorta di zavorra, un peso al quale si resta legati e che impedisce quasi di prendere vero possesso della realtà.
    Anna: È vero. Anche io ho avuto spesso questa sensazione. In effetti sono giovane e credo di avere mille speranze, ma ci sono dei momenti in cui coltivarle mi sembra una perdita di tempo, una distrazione, un indugio che allontana il momento in cui cominciare davvero ad affrontare quello che poi in fondo la realtà è. E la realtà difficilmente potrà combaciare con ciò che io spero: sarei una perfetta ingenua se lo pensassi.
    Professore: Quello che dite mi fa pensare che il termine speranza venga vissuto da voi con un atteggiamento di passività. Come se sperare sia costruire sogni, guardarseli e attendere d’incontrare nel mondo qualcosa che almeno gli somigli.
    Pratolini però è chiaro: sperare non è questo, è addirittura il contrario esatto. Sperare non è attendere ma costruire.
    Marco: Vediamo se è chiaro: sperare dunque è mettersi in cammino verso ciò che desideriamo entri nella nostra vita, e lavorare duro perché sia più simile possibile a ciò che abbiamo sognato.
    Francesco: E se durante il cammino, risulta evidente che l’impresa non ha alcuna – dico alcuna – possibilità di riuscita? Sarebbe giusto insistere? O cambiare progetto?
    Patrizia: Non capisco che significato potrebbe avere persistere nel cammino verso una sconfitta certa. Mi sembrerebbe uno spreco di energie e di tempo, È da persone mature rendersi conto che è stato commesso un errore e rimediare cambiando percorso e bersaglio.
    Anna: Veramente credo che quando si parli di speranza non abbia molto significato parlare in termini di vittorie o di sconfitte. Ho la sensazione che la speranza, quella forte, quella profondamente dentro di noi, la speranza di costruire qualcosa di veramente importante, ci accompagni tutta la vita. Una spinta continua a tentare ancora, a non arrendersi.
    Patrizia: A queste condizioni non potrebbe esserci il grosso rischio di arrivare alla fine e non aver concluso niente?
    Professore: Sapete ragazzi, Max Weber diceva: «È confermato da tutta l’esperienza storica che il possibile non verrebbe raggiunto se nel mondo non si ritentasse sempre l’impossibile». Se ci si ferma un attimo a riflettere, le speranze degli uomini, quelle appunto che danno senso e scopo alla vita, sono sempre dei progetti enormi. Il missionario in uno sperduto villaggio dell’entroterra africano pensa davvero che un giorno o l’altro la fame nel mondo venga sconfitta. È un folle? Immaginate i magistrati e quanti li difendevano, morti nel tentativo di compiere un’impresa che noi tutti sentiamo impossibile: sconfiggere la criminalità. Dunque sarebbero morti invano?
    Francesco: Istintivamente verrebbe da rispondere di sì. Perché sacrificare la propria vita per un risultato che non vedrai mai raggiunto e che probabilmente mai nessuno vedrà realizzato completamente?
    Professore: Immaginate ancora la prima volta che Gandhi ha spiegato agli indiani la sua politica della non violenza dicendo che in questo modo li avrebbe liberati dai colonialisti inglesi: avranno pensato che mai un simile sogno avrebbe potuto realizzarsi. Oppure immaginate il primo schiavo negro che ha rotto la catena. Oppure la prima volta che qualcuno ha proposto il suffragio universale? Se la fine del colonialismo, l’uguaglianza degli uomini e il voto come diritto per tutti vi sembrano banalità è soltanto perché per vostra fortuna siete nati che queste conquiste, nonostante siano ancora in pericolo, erano già avvenute. E qualcuno di quelli che speravano in queste conquiste è morto senza vederle realizzate. Uno per tutti: Martin Luther King.
    Allora cambio domanda: secondo voi, questi morti sono morti leccando un muro o diretti verso una fontana?
    Anna: Certamente sono morti andando verso una fontana. Probabilmente chi lecca il muro siamo noi quando, guardando la televisione, scuotiamo la testa davanti il pessimo andazzo delle cose e poi cambiamo canale perché comincia la nostra soap preferita. È tutta lì la nostra speranza che il mondo diventi migliore, tutta nello scuotere la testa. Nessuno che faccia un passo per tentare con le proprie mani: dunque, così facendo, non nutriamo alcuna speranza ma soltanto inutili illusioni. Siamo noi i poveri.
    Professore: Allora ripeto la domanda iniziale: i magistrati e quanti li difendevano sono morti invano? Il missionario che passa tutta la sua vita sotto lo stesso cielo, tra quattro capanne di paglia a combattere con la fame, combatte invano?
    Marco: Ora non ho dubbi a rispondere di no, però fino ad un’ora fa probabilmente avrei pensato il contrario. A dire la verità l’idea che il senso e lo scopo della vita non siano raggiungere l’obiettivo sperato ma camminare verso di esso mi mette una grande energia.
    Francesco: Certo, in questo modo anche sperare, che prima sembrava una cosa, come dire, alla portata di tutti gli esseri umani, adesso mi appare come la vera impresa difficile. Sperare seriamente, nel senso che ora credo di aver capito, è difficilissimo.
    Professore: Penso che tu abbia veramente ragione, Francesco, ma vedi, non si deve avere paura: non conosceremo mai la nostra altezza finché non saremo chiamati ad alzarci. E soltanto allora, se riusciremo ad essere fedeli alle nostre speranze, la nostra statura giungerà fino al cielo. Lo ha detto, più o meno così, Emily Dickinson.


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