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    CSF: un’esperienza di avviamento al lavoro



    Alessio Rocchi

    (NPG 2000-06-24)


    L’ambito di riferimento di questa esperienza è costituito dalle attività di orientamento, preparazione e accompagnamento al lavoro che si svolgono all’interno del Centro di Servizi Formativi (CSF) «Artigianelli» di Torino. Le iniziative sono rivolte specificatamente ad adolescenti e giovani marginali, perditempo, sociopatici, esclusi o in difficoltà. Laici e religiosi Giuseppini lavorano in tandem per formare professionalmente questi ragazzi, ma ancor prima per recuperare o restituire un senso alla percezione del lavoro che in essi alberga. Già, perché qui siamo lontani anni luce dalle teorizzazioni filosofico-teologiche in merito all’inevitabilità del sudore che scorre sulla fronte di chi vuol guadagnarsi da vivere. Obiettivi massimi cui si può ragionevolmente puntare sono: favorire il recupero della fiducia in se stessi in quanto ci si sperimenta capaci di fare, di modificare, di partecipare alla cura della propria ed altrui casa; sbilanciare le scelte in favore di occupazioni oneste, anche se poco o mediamente retribuite, insegnando la resistenza contro il fascino di attività illegali estremamente più remunerative; stimolare la crescita del rispetto di se stessi e degli altri; aiutare a sostenere il peso delle frustrazioni e dei fallimenti. Siamo ancora molto distanti da vette etiche quali la solidarietà, l’uso costruttivo del tempo libero, l’imprenditorialità capace di tessere relazioni di giustizia. E, tuttavia, credo fermamente che quanto stiamo facendo, pur senza esplicitazione delle motivazioni e senza altisonanti dichiarazioni di principio, sia parte integrante della responsabilità ecclesiale. Esso si colloca al centro dell’annuncio della lieta notizia che raggiunge le persone nella concretezza del loro vivere, aiutandole a rialzarsi e a camminare verso una vita piena o perlomeno più degna di questo nome.

    I corsi

    I corsi sono quelli di preparazione al lavoro: metà a scuola, metà in azienda. Quelli che i ragazzi consiglierebbero ad amici perché «si studia poco e si lavora parecchio» (Michele). Quelli fatti apposta per chi non può o non vuole fare altro, per chi ha le scatole piene della scuola ma qualcosa deve pur fare, per chi dice di cercare un lavoro ma quello che vuole non lo sa nemmeno lui. «L’atmosfera è quella: storie umane nelle mille storie umane, una classe di scassati, ognuno di noi – direi – particolare» (Monica).
    Corsi brevi, perché figuriamoci se questa gente resiste per più di un anno. Corsi leggeri per allievi fragili. Tanto fragili da dover essere pagati per andare a scuola. Peccato che quest’anno il presalario – grazie ai tagli operati dalla regione – non ci sia stato. «Se devo dire la verità, forse ma forse, la rifarei questa esperienza, però se mi pagassero» (Stefania). E tuttavia, non credo che questo sia stato molto determinante: forse qualcuno avrebbe resistito di più, ma per ragioni assolutamente esterne. La variazione di perseveranza con annate dove i ragazzi venivano pagati non è significativa. Questo mi lascia intendere che le ragioni della frequenza sono principalmente da cercare altrove (nella qualità delle relazioni?), anche se, avendo la certezza di qualche lira a fine mese, ci sarebbero probabilmente meno assenze.
    Occorre individuare modalità di accompagnamento al lavoro e nel mondo della vita che abbiano una maggiore distensione temporale. «Quando la scuola era iniziata non vedevo l’ora di finirla, invece ora che la scuola è finita vorrei tornare indietro oppure farei un altro anno» (Clara). Urgono percorsi formativi o inserimenti in apprendistato in continuità con queste esperienze annuali, che corrono il serio rischio di rappresentare solamente delle isole felici, delle meteore educative fugaci in biografie ben presto condannate a rientrare nel grigiore di una quotidianità senza sbocchi e senza speranze di emancipazione. Che sia davvero una preparazione al lavoro e a tutto ciò che esso, nel bene e nel male, comporta. Che, attraverso la fatica legata all’inserimento nei processi produttivi, i ragazzi sappiano di avere, per un tempo non troppo breve, dei compagni di viaggio pronti a sorreggerli e a incoraggiarli, ma decisi a lasciarli andare in autonomia e libertà, appena possibile. È bello e gratificante vedere Marilena che scrive: «Questo corso per me è stata un’esperienza molto significativa: mi ha insegnato veramente cosa vuol dire lavorare. Il lavoro richiede sforzo e sacrificio; se non c’è la buona volontà, tutto diventa più difficile. Bisogna sacrificarsi e pensare alle soddisfazioni che si ottengono giorno per giorno». Quasi un apologo morale nella sua incisiva brevità. E tuttavia è inutile crogiolarsi nell’autocompiacimento. Se dobbiamo dare priorità ad un obiettivo, sono convinto che esso debba consistere nella predisposizione di itinerari educativi che consentano la consapevolezza di partenze e di arrivi sufficientemente pregnanti, dove allievi e formatori guardandosi indietro scorgono con stupore la lunghezza del tratto percorso insieme e, prima di lasciare la meta raggiunta, sappiano far tesoro di quanto fino ad allora hanno vissuto, in vista di nuove e più importanti ascensioni. È evidente che per far ciò un anno è largamente insufficiente.

    I ragazzi

    I ragazzi o, se preferite il sociopsicopedagogichese, i destinatari della formazione appartengono a quelle che i presunti forti chiamano fasce deboli, tanto deboli da dover mostrare spesso unghie e denti per poter vincere la paura di essere sopraffatti ed estromessi.
    Che cosa è successo nelle loro vite in questi otto mesi di corso? Sinceramente, non lo so. Di certo, per diversi di loro, qualcosa è cambiato. E il cambiamento (intenzionale) è già educazione.
    Credo che sia maggiormente rispettoso dare la parola a loro, più che teorizzare sulle loro vite. È curioso che, in sede di verifica finale, abbiano scritto temi che assomigliano a lettere aperte, spesso con tanto di saluti finali. Da queste composizioni spesso sgrammaticate mi sono permesso di stralciare qualche brano. C’è un po’ di tutto, ma la varietà ci salva dalla noia, il dissenso ci preserva dal plagio e il beneficio del dubbio ci aiuta a scorgere la complessità della vita e l’unicità delle storie individuali.
    «Credo di non essere affatto cambiato, ritengo che un’esperienza simile non sia in grado di modificare in maniera avvertibile la personalità di un individuo» (Fausto).
    «Sono cambiato molto negli ultimi mesi, sono diventato più tranquillo, più ragionevole e meno inopportuno» (Igor).
    «Questa esperienza mi ha cambiato moltissimo sia con i compagni, sia nel campo del lavoro» (Aurela).
    «All’inizio ero taciturno, tutto il giorno mi tenevo lontano da tutti e più loro cercavano di farmi parlare, più mi allontanavo – non conoscevo nessuno –, ma dopo pochi mesi ho cominciato a fare conoscenze… mi dispiace separarmi dai prof e dai miei compagni di classe» (Massimiliano).
    In mezzo a tanti pareri diversi, c’è pure chi vede il CSF come luogo tanto desiderabile da rendere perfino gradevole la levataccia. «Per me alzarsi alla mattina presto era bellissimo, perché ero contenta di venire a scuola; adesso so che non potrò più farlo e io ringrazio questa scuola per avermi fatto incontrare delle persone meravigliose» (Michela).
    Tutto ciò mi fa tornare ad una vecchia intuizione sopita: questi ragazzi (tutti?) hanno davvero bisogno di interlocutori veri e appassionati, di «persone meravigliose», nel senso di adulti capaci di introdurre alla meraviglia, a quella che nasce quando scopriamo che qualcuno si interessa di noi, si oppone con forza al nostro andare alla deriva e, con fatti e con parole, ci aiuta a capire che possiamo realmente riuscire in qualcosa.
    L’entusiasmo e l’ottimismo che accompagnano naturalmente ogni finale (quasi) lieto, non possono e non devono offuscare la fatica degli inizi, le lotte quotidiane, il logorio legato a risultati che sembrano non arrivare mai, lo sconforto che accompagna la sensazione di inutilità e di vuoto, il dramma di chi vede abbandoni e sconfitte. Sì, perché stare con questi ragazzi significa anche questo. E, tuttavia, mi sento di dire che voglio ancora ricominciare, che non ho smesso di imparare delle cose, che il nostro CSF è vivo anche grazie a loro, e che nonostante tutto è stato proprio un bell’anno.

    I formatori

    I formatori sono una squadra giovane per età e per composizione, che ha appena compiuto il primo anno di vita, tutti nuovi del mestiere (si chiama davvero così?), ma con un sacco di voglia, di entusiasmo, di fantasia, di passione. Che non bastano. A far funzionare le cose. A rendere immuni i ragazzi dal fallimento. A garantire loro (allievi e prof) un futuro lavorativo. A fare in modo che le realizzazioni siano all’altezza dei desideri. Non bastano, ma sono importanti. Perché con i nostri ragazzi ci si incontra ad un livello altro da quello verboso e didattico; la comunicazione passa attraverso ciò che abita nelle nostre profondità e il dialogo si instaura o si compromette oltre le metodologie innovative, i progetti di dettaglio e le pianificazioni pedagogiche.
    Ma cos’hanno fatto quest’anno i formatori? Si sono conosciuti, sono diventati amici, hanno chiacchierato, hanno riso insieme, hanno lavorato seriamente e in più d’una occasione duramente. Hanno (in)seguito ragazzi, li hanno consolati-cazziati, sedati-stimolati, amati-odiati, presi-ripresi-compresi. Insomma, hanno cercato di essere degli interlocutori adulti significativi per degli adolescenti significativamente turbolenti o apparentemente spenti. Davide scrive: «Più che insegnanti ho trovato dei veri amici pronti ad ascoltarti e a seguirti in ogni piccolo e grande problema». Ci sono state anche diverse esperienze conflittuali, di cui alcune davvero pesanti. «Con i professori sono andata abbastanza d’accordo, a parte alcune volte che li ho fatti sclerare decisamente» (Maria). Ma, a parte questi episodi, in classe qualcosa è passato. «Con i professori è andata bene perché comunque, quando era il momento di scherzare, erano sempre pronti e per primi loro a fare la battuta, mentre quando era il momento di lavorare, si lavorava e davano tutta la propria disponibilità nel rispondere alle nostre domande, spesso anche ripetitive, ma non hanno mai perso la pazienza» (Carlo).
    Un altro aspetto ha attirato la mia attenzione. Una cosa che nelle scuole «serie» non succede. Gli insegnanti e gli allievi si chiamano per nome. Nonostante il «lei». Forse perché gli stessi formatori, quando citano agli allievi i colleghi, li chiamano per nome come se parlassero di vecchi amici. Mi sembra che anche questo contribuisca a creare un clima di familiarità, tanto caro ad una persona che ha calcato questi pavimenti oltre un secolo fa.
    D’accordo. Tutto molto bello. Ma quali sono le condizioni (necessarie anche se non sufficienti) per riuscire?
    La prima è la definizione di una squadra di formatori, uno «zoccolo duro» che faccia della compattezza educativa, dell’intesa immediata e della comunicazione costante gli strumenti di lavoro fondamentali per interagire al proprio interno e con gli allievi. Questo gruppo deve avere un tempo sufficiente (secondo me, almeno un triennio) per crescere, affiatarsi, consolidarsi.
    La seconda condizione è far tesoro di quanto sperimentato, essere sempre disposti a farsi mettere in discussione, mettendo a punto metodologie didattiche innovative, perfezionando le perizie dei singoli e, contemporaneamente, garantendo la flessibilità e l’interscambio delle competenze.

    Il tirocinio formativo

    Il tirocinio formativo, o come dicono tutti, lo stage, è il momento della verità. Come quando i nodi vengono al pettine. Non solo perché ogni anno c’è qualcuno che tenta di conquistare il record del maggior numero di aziende cambiate nel minor tempo possibile. Nemmeno perché i tutor passano metà della loro vita utilizzando due mezzi di comunicazione di massa (come li ha chiamati un ragazzo): telefoni e citofoni. I primi per sedare titolari inviperiti e i secondi per svegliare allievi assonnati.
    Il punto è che ci si incontra con il principio di realtà connesso al mondo del lavoro. Cadono un bel po’ di illusioni e di fantasie. «Dico che è stata un’esperienza utile perché, visto che non ho voglia di fare niente, almeno con questa esperienza sono riuscita a cambiare e a capire come è importante un lavoro. Anche se non mi piace, però ci si bisogna abituare» (Alessia). È un’esperienza che restituisce alla dimensione quotidiana della fatica di vivere. «Grazie allo stage si imparano molte cose sulla vita di tutti i giorni, ti aiuta a crescere e impari cosa vuol dire sudare andando al lavoro» (Michele).
    Il contatto con questa realtà comporta la scoperta delle molteplici sfaccettature e delle diverse possibilità connesse al rapporto di lavoro. Nel bene e nel male. Ma lasciamo la parola ai protagonisti. «I datori di lavoro erano molto bravi, quando non capivo mi spiegavano sempre tutto oppure, quando non c’erano i datori, gli altri colleghi mi aiutavano tanto. Mi hanno trattato sempre bene e adesso che sono andata via mi è dispiaciuto tanto» (Sonila).
    «Ho anche capito che è molto più facile avere nemici che amici sul lavoro perché spesso tra colleghi sono pronti persino ad ammazzarsi pur di avere un barlume di speranza per poter fare carriera e questo secondo me è molto negativo» (Davide)
    «Mi hanno insegnato molte cose sia dal punto di vista professionale che altro. Mi hanno soprattutto insegnato a farmi rispettare» (Sonia)
    «Ho appreso parecchie cose, ad esempio la serietà di come dev’essere svolto un lavoro o un impegno, la puntualità, che sono tutte cose che prima non avevo o comunque non mi applicavo sufficientemente» (Francesco).
    Santina ci regala anche una nota di folklore umano: «Col mio datore di lavoro mi sono trovata bene, anche perché lui si è sempre interessato, poi è uno che gli piace andare ai concerti e in birreria a ballare. In poche parole, è un uomo moderno».
    I nostri tutor hanno svolto un’azione fondamentale per la riuscita di queste esperienze. Sono convinto che, senza la loro opera di mediazione, avremmo assistito ad una crescita vertiginosa delle esperienze fallimentari. Anche Carlo se n’è accorto: «Grande è stato il lavoro del nostro tutor di stage che ha cercato i locali e ha sempre cercato di risolvere, per quanto fosse possibile, i piccoli inconvenienti ai quali si va incontro».
    Non manca qualche lieto fine, almeno come sbocco lavorativo.
    «Ho capito durante lo stage che questo è il lavoro che ho sempre sognato di fare, e quando lo svolgo sono felice e soddisfatta, e credo che lo sarò sempre visto che ho trovato già un altro lavoro come barista» (Caterina).
    «Questo è stato un anno molto positivo per me, sono stata molto fortunata, perché dopo lo stage mi assumono, mi sento dentro una felicità immensa… perché ogni persona di voi e di loro mi ha regalato un piccolo dono che frutterà nel suo tempo» (Antonietta).
    In sede di bilancio, direi che per queste esperienze formative lo stage ha un’importanza e un peso determinante; lo si vede anche dal fatto che costituisce il 50% del corso. Occorre però fare molta attenzione alla selezione di aziende disponibili a compiere davvero un’azione formativa, evitando di dare in pasto gli allievi a realtà imprenditoriali che perseguono il solo scopo di sfruttarne gratuitamente le prestazioni. Inoltre, l’obiettivo dell’inserimento lavorativo, pur non diventando vincolante, deve influenzare decisamente la scelta delle aziende in cui inserire i ragazzi.
    Prevedere che cosa ci aspetta è davvero difficile. Sono d’accordo con Katia: «Una cosa che comunque non riesco a capire: perché dopo un lavoretto che facciamo noi giovani ci venga sempre chiesto se abbiamo un’immagine del nostro futuro lavorativo».
    Tutto sommato...

    Per finire un trittico di citazioni semiserie

    Uno. In tutto questo scritto c’è un non detto, vi sono delle sensazioni taciute che appartengono all’intimo di ogni persona che ha vagato, più o meno lungamente, nei territori accidentati della preparazione al lavoro. «Questa esperienza mi ha lasciato tantissime emozioni dentro che è difficile tirare fuori e raccontarle, perché sono cose che hai dentro di te e vuoi tenertele come un piccolo segreto» (Antonietta). Mi è capitato di respirarle. Le ho intuite nello sguardo frastornato di qualche formatore.
    Le ho annusate nell’aria impregnata di parole e di gesti. Ma non voglio tradire né tradurre nessun piccolo o grande segreto. Ogni prof e ogni ragazzo portano con sé un patrimonio – magari povero – di cui né questo articolo, né questionari di gradimento o analisi statistiche possono render conto. E va bene così.
    Due. La fiducia in sé e negli altri costituisce il fondamento di qualunque scelta professionale o personale. «Mi auguro un futuro proficuo e sereno, sapendo che ci sono persone che credono in me» (Fausto). Se un giorno scoprissimo di non credere più nei ragazzi, in questi ragazzi, con tutti i loro limiti, è bene cambiare mestiere. Altrimenti comprometteremmo fin dall’inizio, anche se inconsapevolmente, la loro speranza di riuscire. È ovvio, lo so (e forse perfino banale). Ma vigiliamo su noi stessi, teniamo sotto controllo la nostra reale fiducia nei ragazzi e nella loro capacità di cambiare. Accogliamoli senza accettarli. Non guardiamoli dall’alto in basso. O, se lo facciamo, facciamolo solo per tendere loro la mano. E non dimentichiamo che le grandi guide, in alcuni casi, fanno camminare davanti a loro il novizio esploratore. Per vigilarne i passi. Crediamo che anche per i nostri truzzi esistono traguardi umanamente degni e non solo soluzioni di ripiego. Nonostante tutto e tutti.
    Tre. «Tutto sommato direi che è andata alla grande, e poi comunque è andata è stato un successo, anzi un successone» (Carlo). Non è del tutto vero, ma fa piacere crederlo.


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