Pastorale Giovanile

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    Con i giovani lavoratori



    Teresio Scuccimarra

    (NPG 2000-06-4)


    Consapevoli che un impegno pastorale che non voglia essere generico deve prendere le mosse dalla situazione concreta di vita dei soggetti cui ci si rivolge, anziché parlare genericamente di «lavoro», vogliamo interrogarci su quali sono le condizioni di vita dei giovani che lavorano. Nei confronti degli studenti poi ci sentiamo chiamati a prendere sul serio la riflessione sul loro futuro e a sollecitarli e orientarli al confronto con la realtà del lavoro e del mondo del lavoro, affinché giungano preparati ad un impatto che spesso si rivela molto duro e che anche molto sovente produce l’abbandono dei gruppi giovanili e dei percorsi di fede.

    LE SCELTE DI FONDO

    Il punto di partenza: la dignità del giovane lavoratore

    Assistiamo oggi alla moltiplicazione dei lavori e delle possibilità lavorative e alla sperimentazione nell’arco dell’età giovanile di molti lavori. Da una parte tale nuova situazione offre al giovane l’opportunità di sperimentarsi su più fronti e di ricercare l’ambito lavorativo che gli è più confacente, d’altra parte però lo pone in una situazione di prolungata incertezza. I soggetti più fragili e quelli meno attrezzati sul piano della formazione professionale rischiano di non farcela e di essere relegati ai margini del mondo del lavoro e destinati per tutta la vita alla precarietà. Il passaggio dalla precarietà lavorativa alla precarietà di vita è purtroppo esperienza sotto gli occhi di noi tutti. A ciò si aggiunge la tendenza a deregolamentare il lavoro quanto a salario, a orario, a durata del contratto e più complessivamente alle condizioni lavorative. La situazione dei lavoratori, poi, è resa ancor più critica a causa della svalutazione del lavoro manuale e della riduzione del lavoro, nell’opinione comune, alla mera dimensione strumentale.
    A fronte di tale situazione, soprattutto nei confronti dei soggetti più deboli, la comunità ecclesiale è chiamata a farsi carico della vita di questi giovani, a condividerne le gioie e le speranze, ma anche le tristezze e le angosce. Si tratta per le nostre comunità di riaffermare il valore primario della persona del lavoratore e di recepire nella pastorale percorsi che ne riaffermino la dignità. Può infatti l’annuncio del Vangelo intendere la problematica del lavoro oggi solo come dato «culturale» e non interrogarsi a fondo sul giovane concreto che le trasformazioni in atto deve affrontare e spesso subire? Intendiamo insomma ricondurre tutta la questione alla sua dimensione personalista. Giovanni Paolo II ci è maestro: «L’uomo deve soggiogare la terra, la deve dominare, perché come ‘immagine di Dio’ è una persona, cioè un essere soggettivo capace di agire in modo programmato e razionale, capace di decidere di sé e tendente a realizzare se stesso. Come persona, l’uomo è quindi soggetto del lavoro. Come persona egli lavora, compie varie azioni appartenenti al processo del lavoro; esse, indipendentemente dal loro contenuto oggettivo, devono servire tutte alla realizzazione della sua umanità, al compimento della vocazione a essere persona, che gli è propria a motivo della sua umanità. Il primo fondamento del valore del lavoro è l’uomo stesso, il suo soggetto. A ciò si collega subito una conclusione molto importante di natura etica: per quanto sia una verità che l’uomo è destinato ed è chiamato al lavoro, però prima di tutto il lavoro è ‘per l’uomo’ e non l’uomo ‘per il lavoro’. Con questa conclusione si arriva giustamente a riconoscere la preminenza del significato soggettivo del lavoro su quello oggettivo» (Laborem Exercens, n. 6).
    Le parole del papa ci provocano a una domanda: quali sono oggi le condizioni lavorative e di vita che compromettono la dignità del giovane e che ci portano a dire «ciò è intollerabile»?
    Nel riferimento del lavoro alla persona possiamo qui parlare di «etica del lavoro»: «Un modello ideale di lavoro è quello che soddisfa per la persona un incremento del proprio essere (e dell’essere altrui). Si tratta di un requisito di autenticità, in quanto ha a che fare con il mondo interiore del lavoratore. Tale requisito spinge a non accettare come definitiva qualsiasi prestazione del lavoro che riduca la persona a pura ed esclusiva strumentalità. L’etica del lavoro stimola a realizzare, per chiunque, le condizioni di un lavoro degno e positivo, soprattutto là dove queste condizioni siano carenti».[1]

    Il metodo: partire dalla vita. Dalla Revisione di vita alla Lectio divina

    Interrogarsi sulla vita concreta del giovane e soprattutto accompagnarlo nella pratica pastorale a una capacità riflessiva su ciò che sta vivendo, richiede la disponibilità a non porsi immediatamente come maestri e invece a disporsi all’ascolto. Partire dalla vita, ben più che espediente pastorale, è discernimento di ciò che lo Spirito di Dio opera in ciascun giovane e anche della dimensione di peccato che segna l’esistenza e che ci interpella a un cambiamento. La «revisione di vita» presuppone tale volontà di mettersi in ascolto attento e paziente della vita concreta, di interpretarla alla luce della Parola di Dio, di ricercare insieme le possibili azioni per un cambiamento della persona e della situazione.
    Proponiamo una scheda per la pratica della revisione di vita.

    SCHEDA - LA REVISIONE DI VITA

    Vedere
    È la prima tappa: ci si racconta la vita, ciò che ci sta a cuore, che ci dà speranza o ci abbatte. Obiettivo: arrivare a una migliore comprensione della realtà vissuta dai componenti il gruppo; arrivarci sia individualmente sia collettivamente.
    Non si tratta di una discussione su un tema generale ma di uno scambio a partire da fatti della vita e della esperienza quotidiana dei partecipanti che tendono a una più approfondita conoscenza della realtà per meglio governarla; provano a individuare una azione con conoscenza di causa.
    In seguito si può allargare lo sguardo a fatti e situazioni simili, vissuti dai membri del gruppo o da altri.

    Valutare
    Obiettivo: approfondire le cause profonde di questa situazione o di questi fatti cercando di analizzare i meccanismi che li producono.
    Si tratta anche di evidenziare le conseguenze già presenti o che possono derivare; conseguenze che non sempre sono percepite di primo acchito.
    È molto utile una distinzione:
    – «valutare» da un punto di vista sociale, economico, politico, ecc.
    – «valutare» da un punto di vista di fede, di Vangelo o alla luce dell’insegnamento sociale della Chiesa. È bene tuttavia saper individuare i legami che possono esistere tra i due punti di vista.
    Non si tratta di dare giudizi morali sulle persone quanto piuttosto di essere capaci di uno sguardo di fede. Si tratta cioè di lasciarsi interrogare da queste situazioni alla luce del messaggio e della esperienza di Gesù Cristo, non per avere risposte e soluzioni belle pronte, ma per farci guidare nelle nostre decisioni dalla sua maniera d’essere, di comportarsi, di reagire alle situazioni e alle persone.
    A questo livello può essere utile farsi le seguenti domande:
    • Quali sono le cause profonde di questa situazione?
    • Quali sono le conseguenze già evidenti o prevedibili?
    • Sono in gioco valori umani e spirituali? Quali?
    • A chi torna utile questa situazione?
    • Per approfondire l’analisi e prendere una decisione sono necessarie altre informazioni? Quali?
    • Che cosa ci piacerebbe veder cambiare?
    • Su questi fatti hanno qualcosa da dirci le parole di Gesù?
    • E l’insegnamento della Chiesa? (Riferirsi a una pagina della Bibbia o a un testo della Chiesa)

    Agire
    Ogni riflessione deve portare a prendere decisioni. Si tratta inoltre di prendere decisioni realistiche, decisioni cioè che non siano superiori alle possibilità e ai mezzi dei componenti il gruppo.
    Un’azione può essere presa dai singoli o dall’insieme del gruppo. Anche azioni apparentemente piccole possono avere un grande significato e portare a conseguenze significative, se sono vissute in maniera giusta e con determinazione.
    Bisogna tener presente anche che è più facile fare delle analisi che prendere decisioni e mantenerle. A questo scopo sono determinanti solidarietà reciproca e incoraggiamento.
    Per preparare bene le decisioni conviene farsi alcune domande:
    • Che cosa abbiamo scoperto riguardo a questa situazione e a questi fatti?
    • Cosa potremmo fare? Con quali mezzi, per quali tappe successive?
    • Possiamo coinvolgere altre persone o gruppi in questa azione? Quali?
    • Cosa possiamo fare per sensibilizzare o informare altra gente?

    Ci siamo soffermati sulla revisione di vita perché la riteniamo il metodo privilegiato per l’evangelizzazione del mondo del lavoro, e tuttavia pensiamo che la sola revisione di vita sia insufficiente per maturare una spiritualità radicata nella Parola di Dio. È importante giungere – nel rispetto dei necessari tempi di maturazione dei giovani lavoratori – a quell’ascolto più gratuito della Parola di Dio che si esprime nella Lectio divina e che può diventare pratica quotidiana di lettura della Bibbia. Si tratta, anche qui, di non ragionare in termini di alternativa, ma di incontro e di interazione tra due modalità di approccio alla Scrittura per raggiungere quella sintesi di fede e vita che costituisce la sfida della spiritualità laicale.

    La spiritualità

    Quale spiritualità per il laico? Quale preghiera per chi vive gran parte della sua giornata nell’attività lavorativa? Siamo consapevoli che la questione è aperta e che interroga i teologi, prima dei responsabili della pastorale. E tuttavia pensiamo almeno di poter affermare che una cultura cristiana coerente e una presenza di testimonianza efficace sono possibili solo se guidate da una spiritualità radicata nel Vangelo e coltivata nella comunità, in grado di accompagnare e sostenere una vita secondo lo Spirito nei posti di lavoro e nelle professioni, che affronti i problemi con coerenza, competenza e decisione, in una prospettiva di solidarietà e fraternità, superando le ricorrenti tentazioni dell’individualismo.
    È ancora Totaro che, pur mantenendosi sul piano puramente filosofico, può orientarci alla ricerca di una spiritualità laicale per i lavoratori. Egli parla – oltre la già citata «etica del lavoro» – di «etica nel lavoro» e di «etica per il lavoro»: «Un modello ideale di lavoro è quello capace di soddisfare la domanda di oggetti ben formati e affidabili. Si tratta di un requisito di efficacia che ha a che fare con un rapporto riuscito del lavoratore con il mondo delle cose o mondo oggettivo. (...) L’istanza dell’efficacia del lavoro conduce a una qualificazione degli oggetti della produzione per un uso responsabile dei beni materiali, in cui la crescita della quantità fine a se stessa cessi di essere l’unico criterio dello sviluppo. (...) L’etica nel lavoro incoraggia la propensione ad acquisire ed esplicare le virtù e abilità del tipo di lavoro che si svolge». E ancora: «A un modello ideale di lavoro si deve chiedere che sappia soddisfare una domanda di condivisione delle risorse ottenute attraverso l’attività di produzione, a cominciare da quella risorsa fondamentale che è il lavoro umano. Qui occorre realizzare un’intesa sull’avere a partire dal riconoscimento di un agire comune e di una comune dignità nell’essere (in termini più correnti: di una comune cittadinanza). (...) L’istanza della socialità del lavoro mobilita energie e inclinazioni a favore di un riconoscimento reciproco delle opportunità e di un ampliamento della sua attribuzione. Qui occorre combattere la battaglia per il superamento della cultura della scarsità del lavoro come risorsa scarsa e in balia di logiche di esclusione ritenute inevitabili, in nome invece di una cultura della solidarietà. (...) L’etica per il lavoro porta a riconoscere il lavoro come bene da condividere con tutti e da promuovere per tutti, secondo le modalità storicamente più opportune e le procedure da sperimentare con coraggiosa invenzione».[2] Ci pare che queste indicazioni, se interiorizzate e coniugate con lo spirito del Vangelo, ci permettano di affrontare la sfida centrale del nostro tempo, quella cioè di realizzare un’autentica sintesi tra fede e vita, fede e professione.

    Passione del rischio

    La dimensione del rischio appartiene di per sé all’età giovanile. Generalmente però le indagini esplorano le situazioni di rischio sul lavoro da una parte e le stragi del sabato sera dall’altra. Una recente indagine ha cercato gli elementi di continuità tra i comportamenti rischiosi sul lavoro e quelli nel tempo libero. Si è ricavato che sia un’alta identificazione nel lavoro, che eleva il lavoro da valore a mito, sia una scarsa identificazione, che non riconosce al lavoro una centralità, possono costituire il punto di partenza per spingersi in territori dove il rischio diventa superamento di ogni limite. I giovani che svolgono in misura maggiore attività rischiose sono quelli che assegnano al lavoro un’importanza solo strumentale: «Mi serve per mantenermi». È in particolare a questi giovani che il lavoro pesa di più. C’è una connessione quindi tra l’atteggiamento verso il lavoro e la propensione al rischio. Se così è, proprio il significato attribuito al lavoro può dare origine, nell’impegno pastorale, alla ricerca e alla sperimentazione di attività di tempo libero che possano offrire un punto di riferimento, in cui essere riconosciuti e valorizzati all’interno di relazioni significative. In quanto educatori ci sentiamo quindi chiamati a prendere in considerazione l’atteggiamento complessivo verso il lavoro che i singoli giovani vivono, come punto di partenza per un discorso più complessivo sul senso e anche come provocazione alla nostra pastorale perché si confronti con i problemi legati alla sicurezza negli ambienti lavorativi, interagendo con le altre agenzie educative o le istituzioni che di questo problema sono chiamate a farsi carico: pensiamo al sindacato, alle ASL, alle stesse imprese. Siamo inoltre convinti che la pastorale debba recuperare la valenza positiva del «rischio», poiché la propensione al rischio può essere recuperata come risorsa nel momento in cui sia chiaro il «che cosa» rischiare e «su che cosa» rischiare.
    Continua a rimanere a livelli gravi la situazione degli infortuni, anche mortali. Ogni giorno vi sono in Italia 3,6 morti sul lavoro. Le norme di sicurezza sono ampiamente disattese. Nel settore edile, uno dei più segnati dagli infortuni, la causa di questi sta anche nel meccanismo perverso dei subappalti e delle subforniture, che sfuggono a ogni controllo. La situazione, dunque, si aggrava e provoca la comunità cristiana a farsi voce profetica per la vita e la salute dei lavoratori nei luoghi di lavoro. Possiamo auspicare che le «giornate per la vita» considerino con maggiore attenzione questa dimensione. Oltre, però, l’informazione, la denuncia e la preghiera, le comunità e in particolare i nostri gruppi giovanili, potrebbero diventare luogo di sensibilizzazione affinché i giovani si rendano disponibili, nelle proprie aziende, come RLS (Rappresentante dei Lavoratori per la Sicurezza). Esporsi e «rischiare» per la sicurezza propria e dei colleghi di lavoro può costituire una realizzazione della carità.

    Il valore della dimensione collettiva e la multiculturalità

    I cambiamenti del lavoro che si stanno registrando, non solo in Italia, conducono a una progressiva situazione di isolamento del lavoratore. Pensiamo al passaggio dalla grande fabbrica alla piccola azienda, dal posto fisso al lavoro in affitto, dalla «classe operaia» al declinare della dimensione collettiva del mondo del lavoro. Aggrava la situazione un clima culturale che privilegia il privato e che orienta alla difesa di interessi privatistici e corporativi.
    Lo stesso sindacato è esposto al rischio di interventi di mera tutela di interessi di categorie già garantite. «Le illusioni coltivate nel nostro tempo sembrano aver affidato tutte le prospettive di progresso ad una concezione individualistica e utilitaristica dello sviluppo, che sta invece lasciando sul campo disoccupazione, frustrazioni collettive, degrado di intere aree, emarginazione sociale. Risorge di continuo la tentazione – anche in chi è destinato ad esserne probabilmente travolto – di credere che sia possibile provvedere a sé soli e da se stessi, e considerare lo sviluppo irrimediabilmente alternativo alla solidarietà».[3]
    In questa situazione, che espone i giovani lavoratori alla solitudine e che li «educa» al privato, la comunità cristiana può diventare luogo di socializzazione e di recupero della dimensione collettiva. I nostri gruppi giovanili possono diventare luogo di formazione all’apertura e alla logica della solidarietà. La comunità cristiana, nella preoccupazione di formare un laicato capace di presenza significativa nel mondo, può anche prevedere nei suoi percorsi formativi a livello giovanile di educare all’assunzione di responsabilità verso gli altri lavoratori fino al punto di farsene portavoce e ad assumersene la tutela nell’impegno sindacale. D’altronde, da più parti si riconosce che oggi il sindacato ha bisogno di alimentare quella «riserva etica» che gli consente di contemperare le ragioni della tutela individuale con l’affermazione delle ragioni comuni, dei valori sociali, soprattutto oggi del valore della tutela di quanti – a causa dei cattivi lavori o della mancanza di lavoro – sono a rischio di esclusione sociale. La pastorale giovanile può investire nel formare e orientare i giovani lavoratori, e in prospettiva anche gli studenti, all’impegno sindacale e così contribuire ad arricchire dal punto di vista etico e motivazionale lo stesso sindacato.
    L’impegno per il recupero della dimensione collettiva assume nel nostro tempo una declinazione particolare in forza della sempre più massiccia presenza di lavoratori stranieri. In molti modi può realizzarsi l’accoglienza e l’incontro con i giovani stranieri, ma certamente il lavoro può considerarsi una via privilegiata. Al riguardo possiamo anche parlare di un vero e proprio dialogo interreligioso che si sviluppa tramite il dialogo della vita e delle opere, la frequentazione reciproca, la capacità di ascolto e di accoglienza, la forza della solidarietà che, nonostante tutto, non è ancora completamente spenta nel mondo del lavoro e che dunque può lì trovare una stimolante realizzazione. La via della Chiesa è l’uomo concreto e – oltre le barriere razziali e di religione – l’impegno per la sua piena realizzazione, anche attraverso il lavoro, costituisce un primo annuncio della novità del Vangelo.

    PERCORSI E STRUMENTI

    Il giovane lavoratore, soggetto dell’evangelizzazione

    Il giovane lavoratore, essendo sprovvisto di quegli strumenti culturali che costituiscono il bagaglio dello studente, tende a essere considerato come oggetto dell’annuncio del Vangelo. I preti e gli educatori provengono dal mondo dello studio ed è naturale che trovino una maggior sintonia col mondo studentesco. In realtà esiste una «sapienza delle mani» che costituisce una via alla maturità umana non meno di quanto lo sia il percorso della cultura. La nostra pastorale è chiamata a riconoscere tale sapienza e a valorizzare i giovani lavoratori nella loro responsabilità di essere evangelizzatori dei loro coetanei che condividono l’esperienza del lavoro.
    Preferiamo parlare qui di evangelizzazione anziché di pastorale. Riconosciamo infatti che i giovani del mondo del lavoro sono spesso lontani dalle proposte della nostra pastorale giovanile. Ciò perché i momenti e i tempi di incontro dei gruppi giovanili sono inconciliabili con gli orari di lavoro e anche, e più ancora, perché i nostri discorsi, il nostro linguaggio, i nostri interessi sono da essi avvertiti lontani dalla loro vita, dai loro problemi di orario, di salario, di perdita del lavoro, di precarietà lavorativa. Essi sono con noi e tuttavia la loro vita resta fuori dal nostro ambiente e dalla nostra pastorale, ed essi restano a noi «invisibili». A partire da ciò riteniamo sia necessario investire gli stessi lavoratori per l’evangelizzazione di altri lavoratori. Pensiamo vi siano compiti che non si risolvono con la buona volontà, ma che richiedono uno sforzo di inculturazione che vede coinvolti i soggetti a cui ci si vuole rivolgere, fino a renderli protagonisti. Per la Chiesa, per le nostre comunità, per la pastorale si tratta di realizzare un avvicinamento al mondo del lavoro, una conversione all’idea del lavoro come luogo realizzativo della persona e luogo in cui si manifesta l’azione di Dio. Ma si tratta anche di mettere in cantiere una strategia pastorale che punti alla piena valorizzazione dei giovani del mondo del lavoro riconoscendo appieno la loro esperienza di vita e aprendo loro un credito di fiducia. Siamo chiamati innanzittutto riconoscere la distanza che ci separa dal mondo del lavoro e ci tornano alla mente le parole che Paolo VI rivolse ai lavoratori dell’Italsider di Taranto la notte di Natale del 1968: «Noi facciamo fatica a parlarvi. Noi avvertiamo la difficoltà a farci capire da voi. Ci sembra che tra noi e voi non ci sia un linguaggio comune. Perché noi tutti avvertiamo questo fatto evidente: il lavoro e la religione, nel nostro mondo moderno, sono due cose separate, staccate, tante volte anche opposte. Ma questa separazione, questa reciproca incomprensione non ha ragione di essere. Siamo tra voi per dirvi che questa separazione tra il vostro mondo del lavoro e quello religioso, quello cristiano, non esiste, o meglio, non deve esistere».[4]
    Non pensiamo neppure che l’azione educativa di un giovane lavoratore debba ricondursi esclusivamente ad altri giovani lavoratori. La sua opera educativa può anche esprimersi in un’azione di sensibilizzazione e di orientamento per gli studenti all’interno delle nostre realtà pastorali. Certo ciò richiede tempo. Ci vuole infatti tempo perché un giovane del mondo del lavoro acquisisca gli strumenti e soprattutto la capacità di parola per esprimersi in pubblico. Siamo però convinti che «dare la parola» a chi proviene da percorsi scolastici fallimentari e ha patito per anni un senso di inferiorità nei confronti dei coetanei studenti, costituisca una sfida per la pastorale e una verifica della sua capacità di formazione del laicato.

    L’orientamento e la formazione

    Per gli studenti come per i lavoratori si pone il grave problema dell’orientamento. Con questo termine intendiamo comprendere un insieme di operazioni e di potenzialità, offerte ai giovani per consentire loro di muoversi agevolmente all’interno del mondo del lavoro e del contesto formativo. Le carenze della scuola a questo riguardo sono note.
    Sul piano educativo la sfida è di rileggere l’esperienza dei giovani in termini di accompagnamento e sostegno alle scelte e quindi divenire capaci di educare la domanda di formazione dei giovani. «Affermatisi i paradigmi post-fordisti centrati sulla qualità e la flessibilità delle risorse umane, venuta meno l’organizzazione ‘scientifica’ del lavoro e dell’uomo giusto al posto giusto (...), l’orientamento si arricchisce di nuove funzioni. Non viene certo meno la sua missione di sostegno al lavoro in senso stretto, di sviluppo di una vocazione professionale, ma diviene strumento educativo capace di produrre integrazione nella misura in cui riesce a proporre valori e norme la cui interiorizzazione da parte degli individui è necessaria per l’assunzione di comportamenti responsabili, consapevoli, fondamentali per l’elaborazione di qualunque progetto di sé serio e coerente».[5]
    Una pastorale giovanile attenta ad educare al senso del lavoro e alla sua valenza antropologica e teologica sarà anche capace far maturare nei giovani una concezione della formazione professionale non come scuola «di serie B», ma come opportunità avente la stessa dignità di ogni altra proposta formativa.

    L’accompagnamento nelle transizioni

    Abilitare il giovane a non subire, bensì a prendere in mano la propria vita, ridargli fiducia in se stesso, riconsegnargli la capacità della parola richiede un impegno educativo che prevede la fatica dei tempi lunghi, dei cammini graduali e soprattutto un accompagnamento della singola persona nei diversi momenti di transizione dalla scuola al lavoro e da un lavoro ad un altro. «Se l’adolescente esce dal sistema scolastico con la sensazione di aver fallito, il suo ingresso eventuale nel mondo del lavoro avverrà in condizioni di particolare precarietà. Chi voglia dare una mano agli adolescenti che si trovano in una tal situazione non può né riproporgli la scuola tradizionale né indicargli un’opportunità ‘qualsiasi’ di inserimento al lavoro. Si pone perciò l’esigenza di costruire un ambiente relazionale adulti/adolescenti, in cui una tale ‘rimotivazione all’impegno’ possa essere realizzata, grazie anche al rapporto rassicurante con giovani adulti che offrano il loro sostegno incondizionato e non paternalistico. Si può pensare, a questo fine, a ‘laboratori di transizione scuola/lavoro’, in cui le competenze di ognuno siano valorizzate per aiutare il soggetto a fidarsi dei propri mezzi e a sperimentare il confronto con compiti nuovi».[6] Appare evidente che la pastorale giovanile, se davvero intende accompagnare il giovane in queste fasi delicate della sua vita, deve necessariamente entrare in rapporto collaborativo con adulti significativi e con altre agenzie educative.

    La disoccupazione e l’imprenditorialità giovanile

    La realtà della disoccupazione segna pesantemente la condizione giovanile, soprattutto al sud ma anche in aree del nord-ovest, e interpella la pastorale ad un’attenzione specifica verso i giovani che tale situazione devono subire. Per la pastorale giovanile non si tratta di creare una «sezione disoccupati», ma di educare a partire dalla condizione concreta e di non mettere tra parentesi questo momento o questi momenti della vita come incidente di percorso o peggio come tempo da buttare. Le iniziative di orientamento e di formazione e la pratica dell’accompagnamento alla ricerca del lavoro sono tanto più importanti in questo periodo in quanto consentono di restare attivi e di muoversi in senso progettuale sul proprio futuro.
    Un’attenzione particolare merita il progetto in atto al Sud – conosciuto come Coordinamento Policoro – su iniziativa dell’Ufficio di pastorale sociale e del lavoro, del Servizio nazionale di pastorale giovanile e della Caritas nazionali. Queste tre realtà della CEI si sono mosse con la preoccupazione di sollecitare le Chiese locali ad assumersi il problema della disoccupazione giovanile in un’ottica di promozione dell’imprenditorialità giovanile e con uno stile di collaborazione ecclesiale tra i tre uffici. Il progetto si articola in tre linee di intervento.
    In primo luogo, un impegno di evangelizzazione esplicito nei confronti dei giovani disoccupati, nella convinzione dell’urgenza di un annuncio del Vangelo di Gesù che sappia incrociare le domande e le aspirazioni dei giovani disoccupati. Si vuole testimoniare e annunciare una Parola che ancora oggi, se accolta con sincerità e disponibilità, aiuta le persone ad acquistare dignità, ad alzare la testa, a non rassegnarsi, a vivere anche i momenti di difficoltà in una prospettiva nuova. Al fine di perseguire tale obiettivo sono in programma nel corso di quest’anno alcuni fine-settimana di formazione per giovani animatori di comunità. I corsi, che sono proposti a livello regionale e vedono coinvolte le associazioni ecclesiali di evangelizzazione del mondo del lavoro, si terranno in sette regioni del Sud. Una seconda pista di intervento pastorale si è organizzata a riguardo della formazione. Con la preoccupazione di creare nuova mentalità (superamento dell’aspirazione al posto fisso) e alla socialità si sono realizzati tre livelli formativi:
    • livello di base, curato in particolare dal Cenasca-Cisl, per giovani adolescenti che non sono ancora nel mercato del lavoro;
    • livello intermedio, di formazione specifica all’imprenditorialità giovanile in vista di un’assunzione di responsabilità per la costituzione di nuove imprese;
    • terzo livello per la formazione di operatori di comunità: si rivolge a giovani disposti a formarsi per diventare nelle loro realtà diocesane punti di riferimento per la promozione della cultura d’impresa, all’interno di una più ampia progettualità di evangelizzazione. Il secondo e il terzo livello si avvalgono dell’intervento della Società per l’imprenditorialità giovanile (ora Progetto Italia). La terza pista di intervento riguarda i gesti di solidarietà delle Chiese e di reciprocità tra le Chiese. Alcune Chiese del Sud si sono già aperte a gesti di solidarietà, ad esempio, affidando la gestione del museo diocesano d’arte sacra ad una cooperativa di giovani. I gesti di reciprocità si stanno intensificando nello scambio tra diocesi del Sud e del Nord a favore di stage formativi presso aziende.[7]

    Gli adulti

    La presenza di adulti significativi per la loro esperienza lavorativa e per la testimonianza cristiana nel proprio ambiente ci pare essenziale per una pastorale giovanile che intenda educare i giovani al valore del lavoro e concretamente accompagnarli nel loro inserimento nel mondo del lavoro. La pastorale giovanile può valorizzare figure adulte per impostare momenti formativi sulle diverse tematiche legate al lavoro e per mettere in relazione il gruppo giovanile con esperti dell’economia, col sindacato, con esponenti delle agenzie per l’impiego, con uomini delle istituzioni. E anche l’adulto può svolgere il delicato compito dell’accompagnamento personale nelle transizioni di cui sopra. Tuttavia, oltre tale compito di «esperto», siamo convinti che l’adulto sia indispensabile soprattutto come «testimone». Sono pochi gli adulti che parlano coi giovani, e soprattutto che li ascoltano, negli ambienti lavorativi. Nel clima di crescente individualismo che segna l’esperienza lavorativa è fondamentale che i giovani possano venire a contatto con adulti che, in forza della loro fede, lavorano con serietà professionale, restano nella legalità, si impegnano per condizioni di lavoro degne dell’uomo. Forse non sarà così facile per i responsabili della pastorale individuare adulti che rispondano a queste caratteristiche, e tuttavia pensiamo che tale ricerca possa avere anche il valore di provocazione del mondo adulto per avviare una riflessione «da adulti» sul proprio lavoro e a maturare, in quanto comunità cristiana, un atteggiamento e uno stile di vita più educativo nei confronti delle giovani generazioni. In altri termini, anche gli adulti delle nostre comunità possono essere chiamati a mettersi in ricerca sul rapporto fede/vita nella nuova situazione del lavoro e accompagnarli a loro volta a un percorso formativo.

    LUOGHI

    Il gruppo

    La pastorale giovanile conosce il valore del gruppo come luogo privilegiato per la maturazione dei giovani. «L’incontro ‘faccia a faccia’ in un gruppo costituisce la condizione necessaria, anche se non sufficiente, per motivare chi partecipa ad assumere impegni esigenti, a perseguire obiettivi creativi e non scontati, ad accettare di mettere in discussione se stessi sino al cambiamento vero e proprio».[8] Per quanto riguarda poi i giovani lavoratori, il gruppo è tanto più necessario quanto più sono isolati nel loro ambiente lavorativo e privi di luoghi in cui socializzare le loro fatiche e i loro timori. Il gruppo è per loro luogo ideale per potersi esprimere senza paura di fare brutte figure e anche per ricercare vie di soluzione ai propri problemi insieme ad altri che vivono la stessa condizione oppure che – se studenti – se ne fanno carico. Dice ancora Palmonari: «Non posso trascurare un richiamo alla condizione peculiare di marginalità in cui rischiano di trovarsi molti giovani lavoratori. Per questi, in particolare, le esperienze di gruppo possono avere una valenza educativa essenziale, in quanto possono costituire l’unico strumento efficace per salvaguardare la loro maturazione efficace». È appena il caso di notare che il metodo della revisione di vita è praticabile solo in un contesto di gruppo.
    Un discorso più attento merita il caso specifico delle ragazze: per loro vi è sempre un rischio aggiuntivo di discriminazione precoce di status rispetto ai maschi. Il fatto che una tale operazione discriminatoria avvenga spesso nel corso della prima adolescenza induce spesso le stesse ragazze a considerarla legittima. A partire da ciò pensiamo che la pastorale giovanile debba dedicare un’attenzione particolare a una proposta di gruppo alle ragazze di ambiente popolare e a un percorso educativo specifico.

    L’oratorio

    L’oratorio, luogo privilegiato di incontro e di formazione dei giovani, può aprirsi sia per i lavoratori sia per gli studenti alla realtà del lavoro. In oratorio i giovani lavoratori passano, alcuni aderiscono alle iniziative educative proposte, e tuttavia, come già dicevamo, spesso rimangono «invisibili». Oltre la dimensione del gruppo, l’oratorio può offrire sia agli studenti sia ai lavoratori strumenti agili per orientarsi e muoversi nel mondo del lavoro. Ecco alcune idee.
    - Una bacheca o punto informalavoro in cui si possono offrire notizie e informazioni utili per la ricerca del lavoro e presentare le proposte formative offerte sul territorio da enti pubblici e privati. Il punto informalavoro può proporre incontri informativi (magari su richiesta di un gruppo giovanile all’interno di una riflessione che sta conducendo o come azione finale di una revisione di vita) su: l’orientamento del mercato del lavoro, la formazione professionale, la lettura della busta paga, la realtà lavorativa del territorio, i diritti dei lavoratori, la riforma dell’apprendistato, la legge sulla sicurezza nei luoghi di lavoro, la cooperazione, l’imprenditorialità giovanile, ecc.
    - Il punto informalavoro potrà attivare una postazione internet, attraverso la quale abilitare i giovani a percorsi di navigazione sui siti che riguardano il lavoro: il sindacato, i nuovi contratti di lavoro, i vari Informagiovani, i CILO (Centri di Iniziativa Locale per l’Occupazione), il Ministero del Lavoro, l’INAIL (per quanto riguarda la sicurezza), gli Uffici della Pastorale sociale e del lavoro (nazionale e diocesani).
    Una struttura di questo tipo è utile non solo per offrire informazioni, ma anche per interagire con i percorsi formativi dei gruppi giovanili. Infatti le proposte informative sopra indicate a titolo esemplificativo, possono realizzarsi su richiesta di un gruppo all’interno di una riflessione che sta conducendo, oppure possono costituire l’azione finale di una revisione di vita. Anche l’attenzione personale ai singoli giovani può qui trovare concretezza. Infatti è proprio a partire da un informalavoro di questo tipo che si possono progettare quei percorsi di accompagnamento di cui prima dicevamo. L’attenzione ai giovani lavoratori che questo informalavoro suscita può anche rendere attenti i responsabili a individuare quei giovani che nell’impatto col lavoro allentano la loro appartenenza ecclesiale e sollecitarli a fare loro una proposta di aggregazione.
    L’interazione dell’informalavoro con il cammino dei gruppi e l’accompagnamento personale configura una proposta che non riduce questa struttura a mero «sportello informativo», ma che a pieno titolo assume valenza educativa all’interno di una più ampia progettualità pastorale.
    Un punto informativo così concepito richiede, per il suo funzionamento, un collegamento con realtà della società civile e anche con realtà ecclesiali. Per questo secondo aspetto pensiamo in particolare agli Uffici per la pastorale sociale e del lavoro, che si manifestano generalmente attenti alla realtà del lavoro coniugata con la preoccupazione dell’evangelizzazione.[9]

    Le associazioni laicali

    Pur ridimensionate negli ultimi anni, le aggregazioni laicali costituiscono in molte realtà ecclesiali una valida proposta pastorale per la crescita di un laicato consapevole, formato e capace di seria testimonianza cristiana negli ambienti di vita. Nel contesto di secolarizzazione che segna la nostra società e di urgenza di una proposta di fede che superi le mura delle nostre comunità e raggiunga gli ambienti lavorativi e di vita, le aggregazioni laicali pensiamo abbiano ancora a pieno titolo ragione di essere. Anzi siamo convinti che esse debbano in tanti casi riscoprire, rimotivare e ripensare il loro compito specifico a servizio della chiesa e del mondo. «La riscoperta della missione propria dei laici – in particolare delle aggregazioni laicali sorte nel e per il mondo del lavoro – è indispensabile per un annuncio del Vangelo del lavoro alle varie categorie di lavoratori e per la crescita di una presenza cristiana in grado di incidere con proposte di valore nelle scelte che guidano la prospettive dell’impegno sociale e politico ai differenti livelli».[10]
    Si pone qui il delicato problema del rapporto tra parrocchie e aggregazioni laicali. Senza la pretesa di risolvere una questione di tale portata, vogliamo qui segnalare che proprio la realtà del lavoro e l’urgenza dell’evangelizzazione dei lavoratori ci offrono uno spunto di soluzione. Anziché ragionare in termini di alternativa o di contrapposizione tra aggregazioni laicali e parrocchia, pensiamo debba maturare un atteggiamento di collaborazione in un’ottica non solamente funzionale, ma di coscienza comunitaria e di fede. «Le aggregazioni laicali – dice ancora Operti – hanno bisogno delle comunità ecclesiali come dei luoghi naturali per celebrare la loro fede e per vivere pienamente la loro dimensione ecclesiale, e le parrocchie necessitano, a loro volta, delle associazioni e dei loro diversi carismi per non chiudersi in se stesse e per aprirsi pienamente alla dimensione missionaria di evangelizzazione. Non si tratta di affidare le parrocchie a questo o quel movimento, né di pensare che la parrocchia sia capace di risolvere da sola tutti i problemi, ma piuttosto di credere che sia possibile un’interazione che, nel rispetto di tutte le competenze e dello specifico di ognuno, elabori una progettualità pastorale attenta ai diversi ambiti di vita».

    Lo stile della comunità ecclesiale

    Il primato dell’evangelizzazione, la valorizzazione del laicato e l’impegno formativo per una spiritualità laicale, la considerazione del lavoro come uno dei luoghi primari di realizzazione della persona e di socialità, l’attenzione pastorale specifica ai giovani lavoratori, la formazione degli studenti in ordine al futuro lavorativo, presuppongono una pastorale attenta alla vita concreta delle persone e anche uno stile di comunità che privilegia i mezzi «poveri» della testimonianza e che sa esporsi affinché il Vangelo sia segno di liberazione per tutto l’uomo e per tutti gli uomini. È ancora Giovanni Paolo II che ci richiama alla scelta preferenziale dei poveri: «Bisogna continuamente interrogarsi circa il soggetto del lavoro e le condizioni in cui egli vive. Per realizzare la giustizia sociale nelle varie parti del mondo, nei vari Paesi e nei rapporti tra di loro, sono necessari sempre nuovi movimenti di solidarietà degli uomini del lavoro e di solidarietà con gli uomini del lavoro. Tale solidarietà deve essere sempre presente là dove lo richiedono la degradazione sociale del soggetto del lavoro, lo sfruttamento dei lavoratori e le crescenti fasce di miseria e addirittura di fame. La Chiesa è vivamente impegnata in questa causa, perché la considera come sua missione, suo servizio, come verifica della sua fedeltà a Cristo, onde essere veramente la «Chiesa dei poveri». E i «poveri» compaiono sotto diverse specie; compaiono in molti casi come risultato della violazione della dignità del lavoro umano: sia perché vengono limitate le possibilità di lavoro – cioè per la piaga della disoccupazione – sia perché vengono svalutati il lavoro e i diritti che da esso scaturiscono, specialmente il diritto al giusto salario, alla sicurezza della persona del lavoratore e della sua famiglia» (Laborem exercens, n. 8).
    Le comunità cristiane, per maturare questo orientamento e per realizzare queste scelte, sono chiamate a non ridurre la pastorale a «gestione», ma a investire tempo e risorse umane per conoscere la realtà, discernere alla luce della Parola di Dio e operare scelte che diventino segno – ancorché di contraddizione – nell’ambiente. «Si prospetta per le nostre comunità cristiane la posizione etica che è necessario assumere di fronte ai problemi del lavoro e dell’economia. (...) In positivo l’impegno delle comunità cristiane può essere espresso come ricerca di un nuovo tipo di società, pensata come casa ospitale di ogni uomo e di ogni gruppo umano, una casa costruita con il lavoro, con l’economia, la conoscenza, la tecnica a servizio del bene-essere di ogni persona. Ancora una volta le comunità cristiane sono chiamate, e hanno la possibilità, di diventare luoghi di elaborazione e specialmente di sperimentazione di una società dai confini larghi, a misura d’uomo e di famiglia umana, una società dei popoli, non solo delle monete e dei mercati».[11]
    L’impegno per l’evangelizzazione dei giovani lavoratori non è dunque riducibile a una opzione pastorale tra le altre, ma richiede un più ampio orizzonte culturale e una più approfondita riflessione su quale può essere oggi – a trent’anni dal Concilio Vaticano II – il rapporto Chiesa-mondo.
    Il compito di evangelizzazione, inoltre, non può essere realizzato da una singola comunità, da un gruppo ecclesiale, da un oratorio come impresa individuale. L’evangelizzazione è di per sé impresa «di Chiesa». A fronte di una situazione culturale e sociale sempre più lontana dallo spirito del Vangelo ci è chiesto, come Chiesa, di non operare a comparti stagni, bensì di lavorare in unità di intenti e nella modalità di una collaborazione fattiva.
    Già abbiamo detto della necessaria sinergia tra parrocchia e associazioni. Pensiamo anche importante, per assolvere al mandato dell’evangelizzazione del mondo del lavoro, una intesa di fondo con la Pastorale del lavoro e la Pastorale giovanile. Qualche realizzazione negli ultimi anni si è andata consolidando. Pensiamo al Coordinamento di Policoro, all’appuntamento annuale a Loreto della Pastorale giovanile e della Pastorale del lavoro con le associazioni di evangelizzazione, ad alcune esperienze diocesane che stanno sorgendo. Siamo convinti sia una via da percorrere con ancora maggiore determinazione.
    Vogliamo infine segnalare un momento privilegiato in cui le nostre comunità possono prestare attenzione ai lavoratori, non solo giovani. Nel momento della liturgia e della celebrazione della fede si possono educare le persone a lodare Dio a partire dalla vita e dalle esperienze esistenziali. Si tratta di proporre quel culto che sa esprimere nel linguaggio della fede, che la Chiesa ci propone, il dialogo profondo tra Dio e l’uomo che avviene nel vivo della coscienza e delle situazioni. È necessario adoperarsi affinché, tramite le opportunità che la liturgia mette a disposizione (preghiere, omelia, preghiera dei fedeli, segni e simboli, la cura della celebrazione...), si aiutino i giovani lavoratori a portare nel cuore della celebrazione e della lode a Dio, la loro vita, il lavoro e l’impegno per una società più giusta e solidale, non come «un di più», ma come il culto vero e autentico che il Signore si aspetta da noi.
    Oltre i momenti liturgici, si possono opportunamente celebrare nella fede anche momenti dell’esperienza di lavoro che segnano in profondità la vita del giovane. Pensiamo alla gioia dell’assunzione dopo un lungo periodo di ricerca del lavoro, al dolore di un infortunio, alla frustrazione per la perdita del lavoro, alla soddisfazione per la prima busta paga regolare, all’assunzione di responsabilità come rappresentante sindacale dei lavoratori e a tanti altri piccoli e grandi eventi che accompagnano l’esperienza lavorativa. Sappiamo di un paese della Sardegna nel quale la parrocchia ogni anno organizza una festa dell’accoglienza per il rientro a casa dei giovani che erano emigrati per il lavoro stagionale.
    Un momento particolare dell’anno è per il mondo del lavoro la celebrazione del Primo Maggio. La pastorale può, in quell’occasione, ripercorrere la storia del lavoro e delle organizzazioni dei lavoratori, orientare i giovani alla partecipazione laica della festa e, contemporaneamente, proporre una celebrazione che rilegga fatti, situazioni, desideri, aspirazioni dei giovani lavoratori alla luce della fede in Gesù, carpentiere di Nazaret e Signore Risorto per portare salvezza in tutte le dimensioni della vita degli uomini.

    Conclusione: amare il proprio lavoro

    Abbiamo tentato di ripensare la pastorale giovanile con l’ottica prevalente dell’evangelizzazione dei giovani lavoratori. Il percorso fatto ci ha però anche provocati a verificare alcune scelte di fondo del nostro essere Chiesa, a mettere in discussione alcuni stereotipi sui giovani, a rileggere più in profondità l’esperienza lavorativa come luogo della presenza dello Spirito, a chiederci a quali scelte di «parresia» siamo chiamati per essere fedeli a questi giovani in un contesto che fortemente li penalizza, al coraggio di inventare vie nuove per annunciare loro il Vangelo liberante di Gesù Cristo, a scommettere su di loro come primi evangelizzatori dei loro colleghi, a offrire loro spazi di parola nella Chiesa, a porci in attento e discreto ascolto della loro vita e delle loro storia per accogliere con loro il Regno che viene, anche nel mondo del lavoro. Certo, la sfida è ardua, ma il lavoro può costituire, ancora oggi e nonostante i profondi cambiamenti cui assistiamo, un terreno di incontro e di dialogo e un luogo di annuncio del Vangelo.
    Pensiamo abbia ancora valore quell’idea di lavoro (benché velata di pessimismo) che Primo Levi esprime in La chiave a stella: «Se si escludono istanti prodigiosi e singoli che il destino ci può donare, l’amare il proprio lavoro (che purtroppo è privilegio di pochi) costituisce la migliore approssimazione possibile alla felicità sulla terra: ma questa è una verità che non molti conoscono».


    NOTE

    [1] F. Totaro, Non di solo lavoro. Ontologia della persona ed etica del lavoro nel passaggio di civiltà, Vita e Pensiero, Milano 1998, pp. 299-300.
    [2] F. Totaro, cit., pp. 299-300.
    [3] G. Acocella, Rappresentare il lavoro?, in Ripensare il lavoro. Proposte per la Chiesa e la società (a cura di L. Caselli), EDB, 1998, p. 194.
    [4] Insegnamenti di Paolo VI, Vol. VI, 1969, Tipografia Vaticana, Città del Vaticano 1969, 694.
    [5] M. Colasanto, I significati della formazione professionale, in Presenza Confap, settembre-dicembre 1999, p. 35.
    [6] A. Palmonari, L’educazione nel programma di lavoro dei gruppi, in Vangelo e mondo del lavoro (a cura di G. Fornero), EDB, 1997, p. 168.
    [7] Per una esaustiva presentazione dell’iniziativa rimandiamo ai «Quaderni della Segreteria generale CEI», febbraio 1998, maggio 1999, febbraio 2000.
    [8] A. Palmonari, cit., p. 164.
    [9] Significativa l’esperienza condotta negli ultimi cinque anni dall’Ufficio per la pastorale sociale e del lavoro della diocesi di Torino, nominata «Servizio per il lavoro». Ogni anno l’Ufficio promuove un corso diocesano – insieme con l’Ufficio della pastorale giovanile – per la formazione di giovani e adulti già responsabili o che intendono rendersi disponibili per questo servizio negli oratori, accompagna e coordina l’azione del Servizio e lo mette in relazione con la dimensione diocesana. In sintesi il Servizio si articola in tre ambiti: offre un servizio di informazione, propone un percorso e strumenti di formazione, attiva delle iniziative di contatto e di aggregazione.
    [10] M. Operti, Evangelizzare il lavoro oggi: linee per un progetto pastorale, in Ripensare il lavoro. Proposte per la Chiesa e per la società (a cura di L. Caselli), EDB 1998, pp. 292-293.
    [11] P. Doni, La Chiesa interpellata, in La questione lavoro oggi. Nuove frontiere dell’evangelizzazione, A.V.E., Roma 1999, p. 211.

     


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