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    Per una teologia del lavoro: figure teologiche



    Giannino Piana

    (NPG 2000-05-30)


    La riflessione teologica sul lavoro è divenuta oggi particolarmente difficile. Le ragioni di questa difficoltà sono diverse e di diversa natura. La prima (e la più consistente) è anzitutto connessa all’impossibilità di definire, in modo univoco, lo statuto semantico del termine «lavoro» per la varietà e la complessità dei significati che è venuto assumendo nell’attuale contesto socio-culturale. Per ovviare a tale inconveniente è allora importante precisare, fin dall’inizio, il significato secondo il quale il termine «lavoro» viene assunto e l’angolazione sotto la quale viene considerato.
    Il lavoro dell’uomo è qui inteso come dispiegamento dell’attività umana in tutte le sue forme e modalità, in quanto luogo concreto dell’autorealizzazione della persona nei suoi fondamentali rapporti con il mondo, con gli altri e con Dio. Il lavoro esprime dunque la realtà della condizione umana, perché situa esistenzialmente l’uomo nelle sue relazioni fondamentali, facendolo passare dalla tutela della natura allo stato di libertà. Come tale esso rappresenta il modo proprio di essere-al-mondo dell’uomo, e perciò di dare concretezza al proprio essere-con-gli-altri e con-Dio.
    Accanto alla difficoltà di decifrarne la peculiare natura antropologica, se ne aggiunge una seconda derivante dalla concreta situazione in cui il lavoro versa nell’attuale momento storico. Nella società industriale (e post-industriale) esso è andato infatti soggetto ad un processo di progressivo deterioramento, con precisi sintomi di un disagio sempre più allargato e profondo. Le rapide trasformazioni verificatesi in questi ultimi decenni, sia a livello di innovazione tecnologica che di ristrutturazione dell’attività lavorativa, hanno prodotto nuove e pesanti forme di frustrazione e di alienazione, alimentando soprattutto la fatica psicologica e lo stato di insicurezza.
    Gli atteggiamenti e i comportamenti verso il lavoro, che si riferiscono alla sfera della soggettività denunciano, a partire dagli anni ‘80, il logoramento del valore lavoro sul piano individuale e sociale, così da far nascere il sospetto che esso sia ormai irredimibile, e che occorra procedere nella direzione di una liberazione dell’uomo dal lavoro piuttosto che insistere in un’impossibile liberazione del lavoro. È in atto, in altri termini, la tendenza a rifiutare il lavoro come spazio di ricerca della propria identità soggettiva e come momento funzionale ad un progetto politico di cambiamento, accanto a una forte rivalutazione di altri aspetti dell’esperienza umana, quali l’eros e il gioco, la festa e il tempo libero, in quanto dimensioni alternative e autenticamente umanizzanti. La odierna crisi quantitativa e qualitativa del lavoro rende pertanto assai problematica la riflessione sui suoi significati, sia a livello antropologico che teologico.
    Le rapide annotazioni, che qui proponiamo, intendono delineare, in chiave storico-ermeneutica, alcune figure teologiche del lavoro che si sono succedute in quest’ultimo cinquantennio, evidenziando sotto il profilo metodologico le correlazioni esistenti tra il contesto socio-culturale e l’attualizzazione del dato biblico e della tradizione ecclesiale.

    Dall’etica del lavoro alla teologia del lavoro

    Nella manualistica tradizionale la problematica del lavoro veniva sviluppata, prevalentemente o quasi esclusivamente, in un’ottica etica. Ciò che contava era l’elaborazione di un complesso di criteri e di norme capaci di orientare l’attività lavorativa dell’uomo nel quadro di una concezione statica e borghese della società. Il tema centrale attorno al quale ruotava tale etica era quello della «doverosità» del lavoro. Da esso scaturivano gli imperativi più specifici della giustizia contrattuale nella determinazione del salario e della giustizia sociale per quanto attiene al salario familiare, nonché quelli relativi all’organizzazione sindacale e all’esigenza di promozione di una legislazione sociale a favore dei lavoratori. Dietro a questa posizione, che faceva soprattutto appello a 2 Ts 3, 10 (letto in un’ottica decisamente fissista), si annidava un’interpretazione dualistica della realtà di segno cosmologico e antropologico, che affonda le sue radici nella filosofia platonica e cartesiana e che ha a lungo influenzato la tradizione occidentale, non escluso il cristianesimo. Ciò che finiva per essere del tutto assente era tanto una visione del lavoro come opera oggettiva e collettiva, la quale producendo un determinato ambiente umano riproduce anche il modo di essere spirituale dell’uomo, la sua cultura e i suoi bisogni, quanto una visione di esso all’interno della determinatezza materiale e sociale, quindi nel quadro di una concreta collocazione storica.
    L’etica e la spiritualità che ne derivavano puntavano, in modo esclusivo, l’attenzione sulle intenzioni del lavoratore, non tenendo in alcuna considerazione il significato dell’opera prodotta. L’elemento decisivo nella valutazione del lavoro è la volontà di servire Dio e il prossimo in atteggiamento di fede e di amore, e non piuttosto il valore in sé di ciò che viene compiuto, visto nella prospettiva globale dell’autorealizzazione umana e dell’umanizzazione della natura. A ben guardare ciò che fa soprattutto difetto a questa impostazione è l’assenza di un adeguato approfondimento del rapporto persona-società e, più radicalmente, lavoro-promozione umana; è, in altre parole, la totale mancanza di una analisi e di una prospettiva politica.
    A questo modello interpretativo ha giustamente reagito la teologia del lavoro, nata negli anni ’50 sulla scia di una più ampia ed articolata riflessione circa la positività delle «realtà terrestri» e la necessità di un impegno serio dei cristiani all’interno di esse. Il cambiamento delle condizioni tecniche, sociali e umane del lavoro. quanto più il processo di industrializzazione si evolve, costringe la ricerca cristiana a superare i limiti di una semplice etica del lavoro per accedere ad una lettura del lavoro in prospettiva decisamente teologica. Il passaggio dalla fabbricazione alla produzione modifica infatti lo stesso concetto di lavoro: l’unità di produzione come unità collettiva e fortemente differenziata diviene il vero soggetto del lavoro, rendendo problematica l’affermazione della soggettività umana. Non è più sufficiente pertanto interrogarsi su come è possibile santificarsi mediante il lavoro, ma diviene urgente chiedersi come è possibile dare un senso ad una civiltà che è divenuta civiltà del lavoro e dell’impresa economica. La teologia del lavoro si trasforma così in un capitolo di una teologia del mondo, che ha i suoi punti di riferimento nel mistero della creazione e nella missione salvifica di Cristo.

    Il lavoro in prospettiva creazionale, redentiva ed escatologica

    Alcuni interessanti spunti per questa riflessione teologica erano senza dubbio già presenti nella precedente tradizione della Chiesa, per la quale il lavoro umano ha il suo humus nella rappresentazione biblica di Dio che lavora – sia nella creazione che nella redenzione – e dell’uomo, al quale, nel piano originale di Dio, viene affidato l’esaltante compito di portare a compimento la creazione. Solo con l’avvento della società industriale si determina tuttavia una vera e propria svolta positiva nella considerazione del lavoro: svolta che coinvolge lo stesso pensiero cristiano. La trasformazione della professione (Beruf) in vocazione, ad opera della Riforma, sollecita la nascita di una mistica e di un’etica del lavoro, incentrate sul controllo dell’uso del tempo con l’abolizione dell’otium, sull’operosità e sull’accumulazione dei beni, fino al risparmio economico e alla sobrietà della vita personale. Si assiste in tal modo ad un processo di enfatizzazione del lavoro, che si esprime sia nell’attribuire la qualifica di lavoro ad ogni attività umana, sia nel fare di esso il perno attorno al quale gravita l’intera convivenza umana.
    A legittimare questo processo hanno contribuito, in maniera determinante, tanto l’analisi hegeliana, che vede nel lavoro l’espressione della lotta contro la materialità per affermare la propria soggettività libera, quanto soprattutto l’analisi marxista, che, trasferendo l’imputazione del carattere alienante del lavoro sul sistema economico e sull’organizzazione sociale, lo trasforma in spazio privilegiato da cui partire per realizzare l’obiettivo politico della liberazione umana. Il lavoro acquisisce, in questo contesto, piena dignità umana, nel senso che viene considerato come ambito all’interno del quale l’uomo prende autocoscienza di sé e diviene il demiurgo di se stesso e del proprio destino. Lo stesso progresso tecnologico viene esaltato come un accedere alla conoscenza, un modo di raggiungere la verità, uno scoprimento che si realizza nella trasformazione delle energie della natura: la condizione di homo artifex, in quanto consente di razionalizzare il cosmos e di dar vita a nuovi processi di socializzazione, diviene l’epicentro delle virtualità umane.
    Questo compito umanizzante, che appartiene al lavoro nella decifrazione del suo significato antropologico, trova la sua legittimazione più profonda nel contesto della rivelazione ebraico-cristiana. Nel progetto di Dio l’uomo è chiamato, con la sua attività lavorativa, a portare a termine il disegno salvifico, creativo e redentivo insieme, autorealizzandosi come persona nella dominazione della natura e simultaneamente socializzandosi nelle relazioni con gli altri, improntate alla crescita della giustizia e della solidarietà.
    La teologia del lavoro sviluppa ampiamente questi temi, partendo anzitutto dal doveroso riconoscimento della profanità del lavoro come dato confermato, fin dall’inizio, dalla Bibbia (Gn 1-2), e ponendo conseguentemente l’accento sulla responsabilità dell’uomo nei confronti del mondo. In quanto immagine di Dio, l’uomo è chiamato ad esercitare la signoria sul mondo, rendendolo disponibile per se stesso. Il lavoro deve perciò essere considerato come il naturale prolungamento della creazione. Il creato non è solo un dono preconfezionato che Dio ci fa, ma un’opera per la quale egli ci vuole suoi partners in un processo di trasformazione, che tocca la nostra stessa umanità e il nostro relazionarci con Lui. L’attività lavorativa è pertanto una delle forme fondamentali della vocazione dell’umanità, chiamata ad essere soggetto attivo nell’opera creativa e provvidenziale attraverso la libera adesione all’azione divina.
    D’altra parte, nella prospettiva neotestamentaria, il lavoro acquista soprattutto un significato cristologico. Esso diviene collaborazione del credente all’opera redentrice del Verbo, concorrendo alla edificazione del regno di Dio sulla terra. Mediante l’attività lavorativa l’uomo, mentre dà un contributo decisivo all’evoluzione, sia biologica che antropologica, va incontro al Cristo che viene e predispone la terra alla parusìa. Non è certo il lavoro che attua il regno di Dio, ma in esso si esprime ad un tempo la compiacenza divina e la risposta umana alla vocazione originale. Cristo ha lavorato.
    Questa prospettiva teologica è ufficialmente assunta dal Vaticano II, per il quale il lavoro è posto in stretto rapporto con la novità cristiana, cioè con la vocazione del credente alla costruzione di un mondo nuovo nel quale le relazioni interpersonali e l’incontro dell’uomo con la natura ritrovino il loro spazio originario e la pienezza del loro significato. Sono in tal modo poste le basi per una definitiva coniugazione del tema del lavoro con quello della storia: coniugazione che la teologia post-conciliare non mancherà di sviluppare, accentuando la problematica legata alla dialettica politico-sociale a preferenza di quella legata alla dialettica uomo-natura.

    Il lavoro come «luogo teologico»

    La ricerca teologica postconciliare elabora una nuova «figura» interpretativa del lavoro, considerandolo come una delle «dimensioni trascendentali» del messaggio di salvezza. L’aspetto «lavorativo» dell’esperienza umana diviene, in altri termini, luogo privilegiato dell’autocomprensione dell’uomo, perciò momento rivelativo del mistero cristiano in tutta la ricchezza dei suoi significati. Accogliendo le istanze dell’antropologia contemporanea, in particolare delle filosofie e delle ideologie della prassi, la teologia assume il lavoro come ambito a partire dal quale è possibile ripensare l’intero progetto evangelico.
    Il mistero della creazione è qui colto, nel suo permanente divenire, come realtà riscattata dall’incarnazione e dalla pasqua di Cristo e aperta alla piena liberazione di se nei cieli nuovi e nelle nuove terre. In questa visione totale ed unica il lavoro è trasfigurato: esso diventa lo spazio in cui l’azione dell’uomo entra in comunione con Dio, il quale continua a stabilire il suo rapporto creante e santificante nei confronti dell’umanità e del cosmo. L’impegno dei cristiani è pertanto quello di rendere trasparente nei fatti la fede nella realtà di questa comunione divina che chiama alla partecipazione alla sua gloria. La vocazione del cristiano consiste allora nel conferire al lavoro, che egli compie insieme agli altri uomini, una dimensione sacramentale, rendendo esplicito il senso divino sotteso all’impegno di trasformazione del mondo.
    L’attività lavorativa non è dunque un settore dell’impegno del cristiano nel mondo, ma un’esperienza qualificante che verifica la stessa autenticità della fede.
    In quest’ottica è possibile ricuperare pienamente la dimensione escatologica dell’esistenza cristiana. L’incarnazione e la pasqua di Cristo sono infatti insieme l’inaugurazione del regno sulla terra e l’affermazione della possibilità conferita all’uomo di diventare l’artefice del suo compimento. In Cristo, uomo-Dio che tutto riscatta per mezzo della sua azione redentrice, il lavoro entra nella struttura storica dell’uomo nuovo. L’incarnazione è l’assunzione da parte di Cristo della condizione umana segnata dal lavoro; la pasqua è lo svelamento della dialettica di morte e di risurrezione, che connota profondamente – e non può non connotare – il lavoro umano in quanto inserito nella dinamica redentiva. Cristo non dispensa l’uomo dalla legge necessaria del lavoro, ma combatte l’inquietudine eccessiva dell’uomo, il quale conta soltanto su se stesso e dimentica la sua fondamentale dipendenza. La pena che il lavoro comporta non è un male da rifiutare con senso di ribellione; è, come le restanti sofferenze umane, una conseguenza del peccato, che si trasforma, grazie alla passione e alla morte di Cristo, in mezzo di redenzione.
    L’attività lavorativa dell’uomo riceve, d’altronde, la sua vera illuminazione nella prospettiva della vita eterna, che costituisce la realtà decisiva per coloro che coltivano la speranza cristiana. La risurrezione di Cristo è per il credente evento già in atto, che attende il suo definitivo compimento. Il regno di Dio è già presente, e tuttavia non è ancora consumato. L’escatologia cristiana implica, nello stesso tempo, attenzione al presente e proiezione nel futuro assoluto. Il lavoro partecipa, sia pure in misura parziale e provvisoria, alla crescita del regno nella storia degli uomini. L’attività del cristiano assume così una funzione di critica permanente e di annuncio profetico per l’intera società. Essa deve farsi attenta alle condizioni reali del mondo, perciò anche nelle concrete e strutturali alienazioni del lavoro, per favorire lo sviluppo di un processo di umanizzazione, capace di far venire alla luce il futuro dell’umanità e della stessa natura.
    Questa alta concezione del lavoro non può tuttavia ignorare il limite che costitutivamente lo connota. L’obiettivo ultimo della esistenza umana non è il lavoro ma il riposo, in cui l’uomo ritrovando se stesso ricupera un contatto più profondo con le cose e con gli altri e si apre al colloquio con Dio. La riflessione teologica non può limitarsi alla considerazione dei «sei giorni» ma deve estendersi anche al «settimo giorno». L’otium, nel suo significato più autentico, è lo spazio in cui trova soluzione la tensione tra azione e preghiera, tra lotta e contemplazione. L’incontro con il «Dio del settimo giorno» è condizione fondamentale per realizzare il dialogo anche con il «Dio dei sei giorni», per fare dell’intera esistenza un tempo liberato per il Signore. Lo scopo ultimo del lavoro è di predisporre l’habitat umano per offrirlo a Dio. L’opera è bivalente; è fatta non solo per servire, ma anche per essere contemplata. Il comandamento del riposo non è soltanto funzionale alla soppressione dell’alienazione del lavoro, ma soprattutto alla sua trasformazione in offerta e sacrificio graditi al Padre. Permeata dalla carità l’attività dell’uomo assume un significato eterno, perché ciò che rimarrà nell’ultimo giorno è l’amore come partecipazione gratuita alla vita di Dio.
    La prospettiva dell’attesa del compimento assolve così ad una funzione rivoluzionaria di contestazione e di sfida nei confronti di ogni tentazione «economicistica». L’economia non è fine a se stessa è al servizio dell’uomo. Solo in questo modo essa diviene umanamente significante. La riconquista dell’essere, al di là dell’avere e del fare, può attuarsi soltanto nel contesto di una civiltà della contemplazione, che attraversa e nutre di sé lo stesso impegno lavorativo.
    E infatti la contemplazione di Dio e del suo ordine creato, che consente il giusto ricupero della gerarchia dei valori. Il rispetto di questa gerarchia affranca il lavoro, facendolo diventare luogo di vera promozione umana e sottraendolo a tentazioni regressive e distruttrici.

    Verso una nuova figura: il modello trinitario

    La dequalificazione dei processi produttivi, soprattutto a causa dell’innovazione tecnologica, e il manifestarsi, con accenti gravi e preoccupanti, della dialettica uomo-natura, ha determinato, in questi ultimi anni, l’insorgenza di un atteggiamento meno ottimistico nei confronti del lavoro e la necessità di una più vigile attenzione alle ambiguità che lo connotano. Del resto tali ambiguità sono già chiaramente delineate nello stesso messaggio della rivelazione, che considera il lavoro come prolungamento dell’opera della creazione, ma insieme come ambito in cui si rende più intensamente trasparente la condizione di alienazione dell’uomo. I termini usati dalla Bibbia per designare l’attività lavorativa sono, da questo punto di vista, eloquenti.
    L’AT oscilla costantemente tra due opposte concezioni. Mentre infatti la tradizione sacerdotale (Gn 1) riconduce i1 lavoro al comandamento di Dio, connettendolo con il suo operare e riconoscendo in esso lo strumento attraverso il quale l’uomo sviluppa la immagine di Dio; la tradizione jahvista (Gn 2-3) pone l’accento sulla fatica del lavoro, interpretandola come la conseguenza di una maledizione della terra causata dal peccato, che pone l’uomo in rapporto di ostilità nei confronti di essa. La creazione era voluta da Dio per l’uomo, chiamato ad esercitare un’attività (coltivare e custodire), che lo fa essere collaboratore del Signore nella progressiva organizzazione dell’universo. Ma il peccato ha introdotto un elemento di grave tensione nell’esperienza umana: tensione che attraversa le relazioni umane e lo stesso rapporto con il cosmo. Doloroso, sovente sterile, il lavoro rimane, dunque, per l’umanità uno dei terreni sul quale il peccato dispiega più largamente la sua potenza.
    Non diversa appare, del resto, la posizione neotestamentaria. La venuta di Gesù proietta sul lavoro i paradossi e le illuminazioni del vangelo. Il lavoro nel NT è, nello stesso tempo, esaltato e ignorato, quasi si trattasse di un dettaglio senza importanza. E esaltato attraverso l’esempio di Gesù, operaio (Mc 6, 3) e figlio di operaio (Mt 13, 55) e mediante l’esempio di Paolo, che lavora con le sue mani (At 18, 3) e se ne fa vanto (At 20, 34; 1 Cor 4, 12). Tuttavia i vangeli osservano nei confronti del lavoro un silenzio impressionante. Essi non sembrano conoscere la parola che per designare le opere alle quali ci si deve applicare, e queste sono le opere di Dio (Gv 5, 17; 6, 28), oppure per indicare come esempio gli uccelli del cielo che «non seminano né mietono» (Mt 6, 26) o i gigli del campo che «non lavorano né si fanno vestiti» (Mt 6, 28).
    Non si tratta di dati contraddittori, ma di due poli irrinunciabili di un’attitudine cristiana. La venuta del regno relativizza tutto ciò che non va in quella direzione. Il lavoro non viene svalorizzato, ma collocato al suo giusto posto. Esso conserva il suo significato originario, ma trova soprattutto la sua piena comprensione nel mistero di Cristo, cioè nel contesto dell’incarnazione e della pasqua, conservando il duplice carattere di realizzazione umana e di patimento.
    Nel quadro della rivelazione cristiana, il lavoro appare dunque connotato da valenze positive e negative. E nello stesso tempo il luogo della crescita umana e l’ambito nel quale si fa più incisivamente sentire il peso del peccato, non solo per la presenza della fatica e della sofferenza, ma soprattutto perché è insito in esso il rischio dell’alienazione e della illusione prometeica.
    Le aporie segnalate, che divengono più radicali nell’attuale contesto socio-culturale, esigono, per essere adeguatamente composte, un inserimento più preciso del lavoro umano nel quadro complessivo del messaggio cristiano. Si tratta, in altri termini, di ripensare l’attività lavorativa dell’uomo nell’ottica di una rilettura, in prospettiva storico-salvifica, del mistero di Dio, che è mistero trinitario. Il lavoro umano è lo spazio in cui la creazione, che ha ritrovato in Cristo il suo volto più autentico, viene mediante lo Spirito condotta al suo esito definitivo: la consumazione di tutte le cose nel Signore e, nella comunione con Lui, il riscatto della perfetta identità dell’uomo e del mondo. Rileggere il lavoro nel quadro del mistero trinitario significa ricuperarne la dimensione creazionale, redentiva ed escatologica, in un rapporto dialettico e fecondo, che tende a non maggiorare nessuna di esse, ma piuttosto a farne sprigionare le dinamiche tensionali, le quali connotano del resto l’intera esperienza umana. Gli atteggiamenti, di volta in volta ottimistici o pessimistici, che abbiamo visto caratterizzare la tradizione cristiana, hanno la loro sorgente nella sottolineatura unilaterale o dell’aspetto creazionale o di quello redentivo, ma scaturiscono soprattutto da una insufficiente considerazione dell’aspetto escatologico come prolungamento dell’opera dello Spirito: aspetto che ridimensiona il lavoro, introducendo, accanto all’esigenza di impegno storico volto alla trasformazione del cosmo, l’esigenza non meno importante dell’attesa del futuro di Dio come dono assolutamente gratuito, e mettendo conseguentemente a fuoco la tensione irriducibile tra lavoro e contemplazione.

    Conseguenze etiche e spirituali

    Le piste di ricerca teologica tracciate non apportano soluzioni immediate ai problemi concreti del lavoro, ma segnano delle direttive importanti e indicano un’attitudine di fondo alla quale tali soluzioni devono ispirarsi per essere in sintonia con la prospettiva evangelica. Da esse discendono infatti alcune importanti conseguenze di ordine etico e spirituale, che meritano di essere, sia pure sinteticamente, segnalate.

    1. Il lavoro entra anzitutto nel quadro della spiritualità cristiana, non soltanto in quanto è occasione meritoria per il credente, ma anche e soprattutto in quanto è occasione di perfezione sul terreno dell’opera realizzata. Più esattamente, il lavoro si situa nella stretta congiunzione della perfezione dell’opera e della perfezione dell’operaio: condizione che definisce più profondamente la situazione terrestre dell’uomo considerato come essere in cammino verso la salvezza eterna attraverso la vita del mondo. L’aspetto soggettivo del lavoro e il valore oggettivo vanno tra loro mediati, se si vuole ricuperarne la densità originaria: la sua dimensione sociale e il suo ruolo storico nell’evoluzione collettiva dell’umanità in rapporto al progetto della creazione. Solo così si supera una mistica della pura interiorità (di matrice dualista), cogliendo la relazione uomo-natura come sostanziale. L’uomo lavoratore appare in tal modo come il collaboratore di Dio, chiamato a dare il proprio contributo cosciente e libero allo sviluppo della creazione.
    La valutazione del significato etico e spirituale del lavoro umano deve dunque essere rintracciata nel rapporto che si istituisce tra intenzionalità ed efficacia storica, tra testimonianza e risultato concreto. Certo tra questi due poli il rapporto non sarà mai del tutto pacifico; anzi non potrà che essere vissuto in termini tensionali. Ma è assolutamente importante che nessuno dei due poli venga assolutizzato, bensì che si ricerchi costantemente un giusto equilibrio, se si intende tener fede all’istanza etica e operare realisticamente nel contempo in modo incisivo nella storia.

    2. Questa forte valorizzazione del lavoro e del suo significato per la vita dell’uomo deve, d’altra parte, accompagnarsi alla consapevolezza della sua relatività. Il lavoro è un momento fondamentale della liberazione umana, sia a livello personale che sociale, ma non esaurisce la totalità dell’esperienza umana, cioè le possibilità di realizzazione dell’uomo. L’attività lavorativa è l’ambito in cui l’esistenza umana riceve il suo senso, ma è anche stato di necessità e luogo di alienazione. L’ambiguità del lavoro non è, del resto, denunciata soltanto dal cristianesimo, ma dalla stessa riflessione marxista.
    Appare allora chiaro che il senso profondo del lavoro va ricercato nella costante messa in atto di un’interazione positiva tra tempo del lavoro e tempo del non lavoro, tra liberazione del lavoro e liberazione dal lavoro. E, in altre parole, indispensabile superare la frattura tra lavoro e tempo libero, che qualifica profondamente la civiltà moderna. Per quanto distinti, lavoro e tempo libero non vanno antiteticamente opposti. E tuttavia la loro riconciliazione è resa possibile solo a partire da un lavoro liberato: solo esso consente infatti di liberare il momento del loisir: trasformandolo in ambito della piena rigenerazione umana, mediante il riscatto del senso ultimo della stessa attività lavorativa. L’assolutizzazione dell’una o dell’altra prospettiva è fonte di gravi ambiguità, perché la liberazione dal lavoro non potrà mai essere totale, ma anche la liberazione del lavoro rimane un compito mai del tutto esauribile. Di qui l’importanza di riconoscere, da un lato, il valore insostituibile del lavoro per la crescita umana, e di affermare, dall’altro l’assoluta necessità del momento del riposo e della distensione, del culto e della contemplazione per una piena realizzazione umana. Il lavoro, in definitiva, si verifica e si autentica solo, in un certo senso, negandosi, attraverso un processo che è insieme di abolizione e di inveramento, in quanto facendosi riposo, diventa tempo dello spirito, e dunque tempo dell’uomo.
    La spiritualità del lavoro trova la sua compiuta espressione in una spiritualità della liberazione, che si riflette contemporaneamente nell’umanizzazione del lavoro e nel superamento degli aspetti deteriori cui il tempo libero soggiace nell’odierna società dei consumi.
    Questa spiritualità non può tuttavia attuarsi senza una vera e propria rivoluzione culturale, che rimetta al centro quei valori etici e religiosi, che consentono il ricupero del senso vero della vita e conferiscono all’uomo la capacità di reagire al clima produttivistico ed efficientistico dell’attuale società.

    3. Ciò che diventa pertanto urgente è l’elaborazione di un progetto politico, che sottoponga a critica radicale gli assetti strutturali del nostro sistema: assetti che favoriscono e determinano asservimenti crescenti nel mondo del lavoro dipendente, squilibri e sperequazioni nella distribuzione della ricchezza e deterioramento ecologico sempre più accentuato. Ma l’attuazione di questo progetto è anzitutto legata alla creazione di condizioni che garantiscano all’uomo la possibilità di superare la dissociazione, ancora in atto, tra vita spirituale e vita sociale; è soprattutto legata alla produzione di un’etica, che assuma lo spessore conflittuale del mondo effettivo, affrontando i nodi delle riforme strutturali per consentire a ciascuno il compimento del lavoro come vocazione libera e creativa. Il che implica l’adozione di nuovi orientamenti di valore, capaci di interpretare coraggiosamente le esigenze di cambiamento e di fornire regole adeguate per poterlo concretamente realizzare.
    Viluppo inestricabile di liberazione e di alienazione, il lavoro può così diventare uno dei luoghi privilegiati di armonizzazione dei conflitti dell’esistenza, nella prospettiva della ricerca di un’unità che va insieme costruita e invocata, fino al compiersi dell’ultimo giorno. Proprio qui emerge infatti l’esigenza di una stretta correlazione tra vita attiva e vita contemplativa. Nel lavoro l’uomo fa esperienza del Dio creatore che lo rinvia oltre se stesso e lo fa cosciente del proprio limite, che si spezza soltanto nella piena partecipazione alla vita divina.


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    spighe


    Ritratti di adolescenti
    A cura del MGS


     

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