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    Sul lavoro



    Armido Rizzi

    (NPG 2000-05-22)


    Le tappe dell’evoluzione

    Vi è una certa unanimità tra gli studiosi delle varie culture e civiltà nell’individuare tre grandi tappe nello sviluppo del lavoro, inteso come espressione dell’attività umana nei confronti dell’ambiente circostante finalizzata a trarne il necessario o il desiderabile per la propria esistenza.

    * Il lavoro «parassitario».
    Tale definizione non contiene alcun giudizio di valore, ma ha una funzionalità descrittiva. Esprime efficacemente, seppur in modo fantasioso, un atteggiamento dell’uomo nei confronti della natura. In alcuni tipi di cultura l’uomo assume nei confronti della natura (e del mondo circostante) un atteggiamento di tipo «parassitario». Può sembrare contraddittorio associare il termine parassitario a quello di lavoro che indica un’attività intenzionale e tendente al raggiungimento di una meta, ma si vuol indicare l’atteggiamento di quelle persone o di quei popoli che si sono limitati, non potendo fare altrimenti, a vivere dei frutti offerti dalla natura. Sono queste le culture dei «raccoglitori» (cioè di coloro che si limitano a raccogliere, letteralmente, i frutti dall’albero) e dei «cacciatori» (di coloro che «raccolgono» la selvaggina). In tali culture, non è apportato alcun tipo di contributo da parte dell’uomo per la produzione del suo cibo, in quanto si limita solo a raccogliere i «frutti maturi», siano essi animali o vegetali. Tale modalità di vita, può esistere solo in un habitat molto ricco (si pensi a quello tropicale) che abbondi di flora e fauna.
    Attualmente, non disponiamo di molta documentazione circa questi due tipi di cultura (dei raccoglitori e dei cacciatori) anche se ne esistono ancora testimonianze in alcune popolazioni ridotte.

    * Il lavoro «collaborativo».
    È questa una seconda tipologia di lavoro. In essa l’uomo interviene attivamente, collabora con la natura nella produzione dei «frutti». È questa la cultura della pastorizia (in senso lato) in cui l’uomo non si limita ad usufruire del bene animale presente in natura, ma è egli stesso ad allevarlo per poi usufruirne.
    In questo tipo di cultura nasce anche la pratica dell’agricoltura (nel periodo Neolitico, circa 10.000 anni a.C.). Contrariamente a quanto noi pensiamo, l’agricoltura non è un’attività «nata con l’uomo», ma è sorta millenni dopo la sua comparsa, in seguito ad una grande intuizione: la terra non è più considerata suolo su cui si raccolgono i frutti, ma «grembo» nel quale si preparano, si plasmano i frutti; il frutto è lo stato finale di un cammino vitale iniziato dal seme, all’interno della terra. La terra è ora concepita come «madre» e non più come contenitore (in questo periodo sorgono i grandi miti della terra: Madre, la Natura, ecc.); tale visione dà all’uomo la possibilità di poter collaborare attivamente con la terra nell’attività produttrice e creatrice dei frutti vitali: è questo il lavoro agricolo. In tale tipologia di lavoro, anche se l’uomo ha un ruolo attivo, l’unico principio forgiatore e creatore di vita è la natura; l’uomo deve conoscere e rispettare i suoi tempi (ad esempio, le stagioni), ciò che può fare è gestire in attivo la sua «passività».
    In questo tipo di cultura, sorge una serie di miti che associa la donna alla terra, in quanto quest’ultima viene considerata come grembo, luogo misterioso di potenze vitali di cui l’uomo non può disporre, che non conosce e che sfuggono al suo arbitrio. La materia, la terra-madre, la vita, divengono il principio stesso del Divino. Si assiste alla divinizzazione della vita, e per questo alcuni studiosi parlano di cultura «cosmo-vitalista» o «cosmo-biologica»: la vita è un fenomeno che ingloba tutto il cosmo, dal filo d’erba fino alla «pianticella umana», ha un suo ciclo di nascita, crescita e morte che a sua volta prepara a una nuova vita e l’uomo, seppur attivamente, può solo collaborare con questa forza immane di cui gli sfugge il segreto.

    * Il lavoro «produttore».
    Nei primi anni del 1600, con l’avvento dell’era scientifica e poi della sua applicazione tecnologica, nasce un terzo modo d’intendere il lavoro. L’uomo è produttore, e il prodotto del suo lavoro è considerato frutto della sua intelligenza, del suo progetto, e non frutto della terra. Alla base di tale concezione sta l’intuizione secondo cui nella natura l’uomo non vede più l’elemento vitale a cui offrire la sua umile collaborazione, a cui sottomettersi per assecondarne il naturale sviluppo, ma considera la natura come un grande sistema matematico da cui trarre tante cose utili all’uomo non presenti allo stato naturale sotto questa forma.
    Quando parliamo di attività lavorativa, dunque, dobbiamo sempre tener presenti queste tre modalità in cui si concretizza e che vanno progressivamente da un atteggiamento di passività dell’uomo a uno di collaborazione sino a un’iniziativa attiva, a un essere «protagonista attivo».[1]
    Essendo il lavoro un’attività che ha accompagnato tutta la storia umana, gli studiosi usano definire le diverse culture e religioni con il nome del tipo di lavoro in esse praticato; parliamo quindi di religione dei raccoglitori, dei cacciatori o dei miti e riti agricoli. Il lavoro è quindi considerato un elemento che differenzia le diverse culture e religioni. Da questo punto di vista Marx aveva ragione, almeno inizialmente, quando diceva che è il rapporto produttivo a definire le attività superiori dell’uomo.

    Il valore del lavoro

    Una seconda riflessione verte sulla considerazione che non tutti i lavori hanno lo stesso valore. Esistono infatti delle civiltà relativamente semplici nelle quali, pur essendo presente una divisione del lavoro necessaria al fine di garantire lo scambio dei prodotti, non esiste poi una gerarchia di esso.

    * Lavoro manuale, lavoro intellettuale.
    In alcune civiltà è stata stabilita una gerarchia dei lavori, ad esempio nel mondo greco. La cultura greca, matrice della nostra civiltà occidentale, distingueva, classificava e legittimava la distinzione tra un lavoro manuale e uno intellettuale.
    Il lavoro intellettuale è considerato superiore perché, come diceva Aristotele, è l’attività che definisce l’essere umano in ciò che ha di specifico; inoltre ha un senso in se stessa, ha uno scopo di per sé, e praticandola l’uomo realizza se stesso.
    Accanto al lavoro intellettuale c’è il lavoro politico, di discussione e di dibattito in cui si inventano modalità per la costruzione di una città ordinata dove i cittadini possano realizzarsi. Anche questo lavoro, seppur non strettamente intellettuale, è inteso come fine a se stesso, poiché il creare una buona convivenza è realizzare il massimo dell’uomo su questa terra. Affinché queste due attività (intellettuale e politica) possano esistere è necessario che ci sia qualcuno che svolga le attività manuali.
    Il lavoro manuale è considerato intrinsecamente inferiore agli altri due in quanto non ha ragione in se stesso ma è praticato per necessità di sussistenza e permette al cittadino di dedicarsi al lavoro intellettuale.
    Questi due generi di lavoro vengono svolti da due tipi di persone diverse: i cittadini a pieno titolo, i «liberi», e gli schiavi. Gli schiavi sono tali per costituzione, nascono destinati alle attività manuali, e poiché il lavoro è ciò che definisce l’uomo, lo schiavo è colui che nasce già in funzione del «libero».
    La società greca è costituita da un ordine fatto di differenze che ha una sua logica e che in parte è da recuperare: quella parte che riguarda la funzionalità dei lavori manuali alle dimensioni superiori dello spirito (contemplazione e convivenza).

    * Lavoro alienato, lavoro libero.
    Un altra modalità di distinguere, opponendoli, i tipi di lavoro, come l’uno alienato e l’altro libero, è offerta da Marx. Per Marx la forma meno vistosa, ma anche più radicale, di alienazione del lavoro è la spersonalizzazione del lavoro in cui la ripetitività dei gesti denota bassa qualità e riduzione a pura quantità. Tale modalità nega ciò che per Marx definisce l’uomo: l’essere attivo nel lavoro; ci si riduce a considerare tale attività solo ad un livello formale, di quantità e di merce prodotta. Il prodotto finale non è considerato per una sua qualità intrinseca ma come merce di scambio; è indifferente se si tratti di un barattolo di marmellata o di una stampa della Divina Commedia, ciò che conta è il tempo necessario per fabbricare i due diversi prodotti e il loro costo; il lavoro è valutato in base alla quantità di merce prodotta. È questa per Marx la forma di alienazione più profonda.
    La grande rivoluzione nella mente di Marx, e il senso ultimo della rivoluzione socialista e comunista, doveva essere quello di liberare l’uomo non solo dalla fatica ma soprattutto da questa forma di lavoro spersonalizzato, ridotto a «quantità» e misurato in base a ciò che è stato denominato il «tempo del mercante». Marx vuole, in un certo senso, riconsegnare all’uomo un lavoro di rapporto con la natura, un lavoro dove possa esprimere se stesso, umanizzare la natura imprimendole l’impronta di se stesso e naturalizzare se stesso, diventare cioè parte della creatività della natura ma con una modalità sua propria.
    Questo incontro tra l’uomo e la natura è per Marx il fine stesso della storia che non consiste in un ritorno alla società preindustriale poiché solo attraverso l’industria, egli afferma, possiamo avere con la natura un rapporto di trasformazione più profonda. Ma egli sogna un’industria all’insegna non solo della quantità (che permette di realizzare prodotti non fabbricabili dalle precedenti forme di lavoro) ma anche di una grande qualità. Da questo punto di vista, l’oggetto di fruizione dell’uomo è il prodotto creato in questa sintesi armoniosa tra l’iniziativa umana e le risposte della natura mediate dall’industria. Il passaggio dal capitalismo alla società comunista era allora una trasformazione non soltanto economica ma anche, e soprattutto, antropologica: realizzava la verità del rapporto uomo-natura in quanto mèta della storia umana.

    L’etica del lavoro

    La tradizione marxista, ha in parte alterato il pensiero di Marx, nel senso che ha fatto del lavoro in termini di produttività un simbolo: è divenuto un’etica del lavoro.
    Solo col protestantesimo nasce una riflessione con la quale Lutero e successivamente Calvino vedono il lavoro come la modalità con la quale l’uomo obbedisce alla legge di Dio in questo mondo. Il lavoro fa parte della realtà del regno: è fatto in obbedienza a Dio perché è lo svolgimento della missione che Dio dà all’uomo sulla terra, acquista anche un valore di salvezza. In qualche modo, possiamo dire, è un’opera buona. Le opere buone non sono più quelle che cercano di compiere i monaci allontanandosi dal mondo (penitenza, preghiera ed elemosina), ma la vera e fondamentale opera buona è l’obbedire a Dio nel portare a compimento il proprio dovere professionale. La professione è come la vocazione, una chiamata di Dio a scegliere il proprio compito lì, dove egli chiama. Da qui, nel ‘600-’700, nasce l’idea che nelle professioni, nel lavoro e attraverso il guadagno che esso produce, l’uomo si santifica, si salva. Secondo una famosa tesi di Weber in cui collega l’etica protestante e lo spirito del capitalismo, il lavoro e il guadagno, che da esso deriva, sono l’espressione del compimento della missione dell’uomo. È questa una tesi discussa ma che ha un suo fascino.
    Nei paesi protestanti c’è stato un grande sviluppo industriale, e un fattore che lo ha favorito è forse questo atteggiamento dell’uomo di assumere un lavoro come segno di obbedienza alla volontà divina. È questa una grande valutazione etico-spirituale del lavoro che, dalla religione della fede protestante, penetra nello spirito borghese, nel capitalismo e anche nel marxismo e secondo la quale l’uomo si realizza attraverso il lavoro, non più inteso nel senso estetico di Marx.
    Questa concezione è presente anche nel pensiero di Gramsci, dove la politica è intesa come un ulteriore campo di applicazione nel quale il soggetto umano esplica le sue potenzialità. Contro questa etica, in qualche modo mistica del lavoro, sorgono già all’inizio del nostro secolo, delle critiche che diventano particolarmente frequenti negli anni ‘50 e ‘60 e riguardano l’industria come alterazione dei rapporti uomo-natura. Ad esempio, nel ‘68 la voce più ascoltata è quella del filosofo ebreo Marcuse, che ha scritto un libro molto suggestivo «Eros e civiltà», dove afferma che per i grandi maestri dell’ottocento la civiltà equivale al lavoro, ma questa è una realtà del passato, una necessità dettata dalla povertà e dalla scarsità di mezzi; attualmente i mezzi messi a disposizione dall’evoluzione tecnologica rendono possibile una diminuzione della necessità del lavoro.
    E così, mentre Marx propone una liberazione del lavoro per liberare l’uomo, Marcuse prospetta una liberazione dal lavoro per un tipo di civiltà che non è più comandata dalla necessità di sopravvivere e che non più definita dal lavoro ma dall’eros. L’eros è tutto ciò che collega l’uomo alla natura in termini di godimento fondamentalmente estetico; il corpo dell’uomo è fatto per questo e non ha mai potuto realizzarlo perché è sempre stato schiacciato dalla necessità di lavorare per sopravvivere. Marcuse non è contro la tecnologia, ma contro la contraddizione interna secondo cui la tecnologia che da una parte permette all’uomo, per mezzo dell’intensificazione della produttività, di liberarsi dal lavoro come necessità, dall’altra dà vita a un tipo di civiltà comandata dal principio del lavoro. La vera liberazione è quella dal lavoro che permette il passaggio da un uomo produttore ad un uomo «erotico».

    La teologia del lavoro

    Fino a qualche decennio fa dominava una teologia del lavoro nella quale veniva evidenziata la fatica dell’uomo per sopravvivere. Nella tradizione teologica, nella Bibbia e nei grandi teologi del Medio Evo, tutte le esperienze della realtà umana, e come tale anche il lavoro, sono viste nella loro dimensione di fatica, sotto il segno della redenzione. L’uomo con la sua fatica, il suo patire, partecipa alla Redenzione, redime se stesso e gli altri.
    Solo recentemente, sotto l’impulso della teologia protestante, con il recupero della realtà terrestre negli anni ‘40 e ‘50, e con il Concilio, sono stati sviluppati alcuni elementi nella teologia del lavoro secondo i quali il lavoro non è più segno di redenzione ma di creazione: nel lavoro l’uomo prolunga con le sue mani l’attività creatrice di Dio.
    Il lavoro non è più considerato un peso che l’uomo deve portare in conseguenza del peccato originale, ma fa parte della «vocazione» originaria dell’uomo in quanto essere creato da Dio a cui Egli ha affidato una scintilla che ha la capacità di diventare come lui creatore. La fatica del lavoro dipende sì dalla colpa originale, ma come «vocazione» il lavoro è più originario del peccato originale; il lavoro come tale è con-creato.

    ALCUNI APPROFONDIMENTI

    Il dono

    Una prima considerazione si riferisce al tema delle varie modalità di lavoro nel quale l’uomo passa ad una progressiva accentuazione del momento attivo, e sottolinea il fatto che il rapporto tra l’uomo e il mondo presenta entrambi gli aspetti che l’umanità ha sperimentato nel suo cammino.
    Anzitutto l’aspetto della passività, inteso come recettività. L’uomo vive di qualcosa che non ha prodotto lui originariamente ma che gli viene donato da quel principio di realtà, di vita che è sempre considerato il «sacro», il «divino» inteso sia come la natura stessa nella complessità vitale delle sue manifestazioni, sia come Essere Personale che, attraverso la natura, sostenta la vita dell’uomo (nella Bibbia e nella tradizione ebraico-cristiana). Questa dimensione di dono, e quindi dell’esistenza umana come recettività, è una dimensione essenziale dell’esistenza e una qualificazione essenziale al senso dell’esistenza umana. Il percepire la realtà come qualcosa di passivo, di inerte, che riceve senso solo dall’intervento umano, è una dimensione di coscienza che la civiltà industriale, nei suoi esiti più clamorosi, induce; ma tale considerazione, che non è solo al livello teorico ma di sentimento stesso della realtà fino a diventare coscienza spontanea, depaupera radicalmente il senso dell’esistenza umana.
    Ciò che c’è di bello, di vero, di irrinunciabile in chi elogia le civiltà del passato (vicine alla natura) è il ritrovare il senso di tutto quanto ci circonda come dono che qualcuno o qualcosa ci ha fatto: la nostra esistenza, prima di essere attiva, è ricettiva. Gli esseri umani non nascono maturi e capaci di intervenire attivamente sulla realtà, ma deboli e bisognosi di intervento altrui; e tale fragilità dell’esistere umano è un dato che nessuna risorsa tecnologica ha sinora cancellato.
    Al di là di questo dato c’è una considerazione di principio: si tratta di leggere in questo dato un significato, una vocazione, che evidenzia nell’uomo il suo bisogno di accogliere il dono della natura e degli altri. Questa dimensione di dono si lega molto bene a una fede e a un Dio trascendente. Occorre quindi recuperare, come base, il senso dell’esistenza come dono. È anche vero però che l’umanità non poteva far altro che collaborare con la natura; l’umanità preindustriale ha ricevuto un dono molto duro e non a caso questa madre-terra è stata anche considerata natura matrigna, il bene e il male sono visti come due facce della stessa realtà, di fronte alla quale l’uomo si trova ad accogliere e godere l’una e respingere l’altra con riti di espiazione ed esorcismi.
    L’avvento della scienza, della tecnica e dell’industria, nonostante gli effetti vistosamente negativi, è un evento estremamente positivo perché offre la possibilità di colmare la natura come dono. La dimensione di produzione non è necessariamente in contraddizione con la dimensione del dono: l’oggetto prodotto dall’uomo è come l’incontro di dono della natura e iniziativa umana. Per rendere questo possibile bisogna raggiungere un livello di quantità che l’umanità del passato non aveva mai conosciuto. Bisogna fare attenzione a opporre qualità e quantità, che corrispondono all’incirca a «dono» e «produzione». C’è una soglia, un livello di quantità senza il quale non si può parlare di «qualità»; c’è un livello di «avere» senza il quale non si può parlare di «essere». È giusto contrapporre «avere» ed «essere», ma non bisogna dimenticare che senza una piattaforma di avere non può spuntare «l’essere», o spunta solo un essere di accettazione, di redenzione. Ma un essere che sia un uomo sulla terra ha bisogno dell’avere. Il rafforzamento dell’avere attraverso la produzione, in modo da raggiungere una piattaforma di sufficienza, è una condizione preliminare perché si espanda «l’essere».
    Il compito della nostra civiltà dovrebbe essere quello di coniugare la dimensione di dono e quella di produzione, quella di essere e di avere, di quantità e di qualità.

    Il tempo libero

    Una seconda riflessione verte sul rapporto lavoro-gioco inteso in senso ampio come «eros» o attività gratuita.
    Ritengo giustificata la critica mossa alla concezione mistica del lavoro. L’attività produttiva, nella visione ideologica del lavoro come luogo di realizzazione dell’uomo, conteneva ancora dei resti secolarizzati come visione del lavoro come redenzione o come missione di fatica davanti a Dio..
    È giusto e realistico pensare, più sulla linea di Marcuse che non di Marx, ad una società in cui si riduce il tempo del lavoro produttivo e si amplia quello delle libere attività. Concordo con la critica alla mistica del lavoro produttivo a favore del recupero di attività gratuite, fini a se stesse che contengono un elemento produttivo-creativo, come le attività artistiche, artigianali dove nel lavoro l’uomo mette se stesso, con le mani, il cervello e il cuore. In questo senso il lavoro non è più inteso come produzione di merci da far circolare ma come creazione di oggetti che sono anche valori.
    Ma il gioco è anche un’attività libera, non funzionale unicamente alla sussistenza, ma che l’uomo pratica perché in essa si realizza. Esso non consiste nel non far nulla o nel dedicarsi a qualsiasi cosa; il gioco ha delle regole da rispettare, senza di esse sarebbe caos, non espressione di libera attività ma pura passività.
    Il termine vacanza viene dal latino «vacare» che assume due diversi significati: «vuoto», ma anche «fare dentro di sé il vuoto per riempirlo di qualcosa d’altro» (ad esempio, «vacare Deo» significa essere liberi da qualsiasi altro impegno per occuparsi solo di Dio). Si può parlare di tempo libero non fine a se stesso ma come momento nel quale la persona può dedicarsi ad attività nelle quali esprime le dimensioni più autentiche del suo essere uomo.
    Esiste un’educazione del tempo libero che è altrettanto importante quanto la conquista del tempo libero. Nei paesi ricchi quello del tempo libero è un problema rilevante; non si tratta soltanto di produrre oggetti belli, ma di diffondere e promuovere attività che creino il collegamento tra i soggetti dotati di tempo libero e gli oggetti in attesa di essere goduti.
    Da tempo sono state abolite le differenze tra i liberi e gli schiavi, ma credo che la vera differenza stia tra coloro che sanno «godersi la vita» con attività libere, sensate e belle, e coloro a cui nessuno ha mai insegnato a riempire positivamente il tempo libero di cui dispongono. Ritengo che bisognerebbe trasferire la disciplina dal lavoro al tempo libero; noi ci dobbiamo liberare dal lavoro fatto per altre cose, dalla necessità ma non dalla disciplina, che è il prezzo da pagare alla condizione umana per produrre cose belle. L’acquisizione della capacità di selezionare tra ciò che vale e ciò che non vale, è frutto di disciplina, apprendimento ed educazione.

    Solidarietà, sapienza, intelligenza

    Un’ultima considerazione, strettamente teologica, verte sul lavoro come redenzione e come creazione.
    La concezione del lavoro come redenzione s’iscrive in una teologia che vede la terra come luogo di redenzione e il cielo come fine. Seppur questa visione del lavoro goda oggi di minore fortuna, credo che qualche aspetto di essa ancora permanga e che noi non possiamo cancellarlo totalmente.
    Sussisterà sempre l’aspetto della necessità e della fatica nel lavoro che in chiave spirituale è visto come un peso da portare, come redenzione nostra e degli altri, e credo che questo aspetto del sacro sia bello. Bisogna avere dentro qualcosa di questo senso della necessità per mantenere vivo il senso della disciplina.
    Certamente la nostra teologia oggi non accetta più di definire la nostra esistenza come «valle da percorrere faticosamente verso la città «celeste» e quindi di considerare il lavoro come redenzione. Esso è visto oggi come prolungamento della creazione.
    Noi pensiamo alla creazione come atto di potenza: Dio che con una parola fa essere le cose; l’uomo ci mette un po’ più di tempo e fatica ma anche lui crea. Creazione non cieca, ma fatta di intelligenza, sapienza e potenza. Su questa linea si basa tutta la teologia della creazione e del lavoro come prolungamento della creazione. Noi siamo l’immagine di Dio perché dotati di intelligenza e della capacità di plasmare, tramite essa, le cose e il mondo.
    La creazione è prima di tutto l’atto dell’amore di Dio che decide di fare un altro, un interlocutore capace di vita e felicità. L’atto fondamentale di Dio vuole l’altro come destinatario del suo amore. L’atto originario che dà origine alla Creazione costituisce un mettersi dalla parte dello schiavo o di chi ancora non c’è e dire: «voglio che tu sia perché insieme con me tu goda della bellezza della vita». L’intelligenza e la potenza sono le dimensioni esecutive di questa dimensione di fondo ispirativa e originaria che è l’amore.
    Quindi il lavoro, da cui nessuno può esimersi, la partecipazione all’attività creatrice di Dio è dare «solidarietà» agli altri. L’intelligenza e la potenza sono le dimensioni esecutive della solidarietà e senza di essa diventano produttrici di pura quantità senza più curare il senso e anche distruttrici.
    Solo la solidarietà può essere quel principio egemone che fa dell’attività umana un prolungamento dell’atto creatore che è un atto di una libertà d’amore. Usando un linguaggio metaforico diciamo che Dio ha un cuore, la solidarietà; una testa, la saggezza creatrice, l’inventiva di Dio; e le mani, la capacità esecutiva. E l’articolazione è dal cuore all’intelligenza, alle mani; dall’amore alla sapienza alla potenza e tale ordine è identico anche per l’uomo. L’amore è l’elemento egemone, elemento direttivo di sapienza, intelligenza e potenza; d’altra parte però l’intelligenza e la potenza sono necessarie all’amore: un amore che vuol vivere di se stesso, che pretende di piegare l’intelligenza e la potenza al suo servizio senza entrare nelle loro leggi è un amore falso, un narcisismo profetico.
    Mi sembra che oggi ci troviamo in questo divario: da una parte c’è il prevalere dell’intelligenza e dall’altra c’è la proclamazione dei principi di solidarietà, di amore, del primato dell’uomo, ma manchiamo di elementi di connessione che pongono l’intelligenza e la potenza al servizio dell’amore. L’amore non è un potere ma svuotamento, che per essere tale non deve rinunciare a gestire il potere; è questo un errore che è ricorso spesso nella storia del cristianesimo e che anche oggi rischia di ripetersi. A me sembra che il lavoro ha molto da insegnare anche all’amore. Soltanto attraverso le mediazioni dell’intelligenza e dell’operosità, l’amore diventa a sua volta amore intelligente e amore efficace.


    NOTA

    [1] Naturalmente, a tutti questi livelli l’attività produttiva è sempre seguita da quella di «scambio» dei prodotti, che non è caratteristica solo degli ultimi anni (forma di mercato) ma già esisteva in passato seppur in forma diversa da quella attuale; pensiamo alla pratica del baratto che, successivamente, con l’introduzione della moneta, è stata sostituita dallo «scambio di mercato». Il denaro è un elemento simbolico ed è ciò che permette che lo scambio abbia un minimo di generalità.


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