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    Gli «invisibili» giovani lavoratori



    Marco Calvetto

    (NPG 2000-05-11)


    Dei giovani si sa molto! Moltissime sono, infatti, le diverse indagini che cercano di ritrarre i loro atteggiamenti, i loro aspetti e le loro reazioni nei diversi momenti e spazi di vita (tempo libero, consumi, scuola…). Però a fronte di queste istantanee parziali pare sia finito il «mito giovanile».

    Invisibili fra gli invisibili

    Della generazione di fine millennio si stigmatizzano solo più le frange estremiste o gli eccessi, gli squatter o, ultimamente, le serate all’insegna dell’ecstasy, per nulla il «soggetto sociale» giovani. Da una parte perché «questi giovani» non si pongono più come una generazione specifica contrapposta alla precedente, come un soggetto che esprime novità e cambiamento, e dall’altra perché oggi nella definizione di «giovane» rientrano fasce d’età molto diverse che vanno dall’adolescenza fino a comprendere buona parte del quarto decennio di vita quando si completa (ma non necessariamente!), dopo un processo lento e faticoso, l’acquisizione dell’autonomia.
    A partire dagli anni Cinquanta e Sessanta i giovani assumono grande rilievo come fenomeno sociale e culturale e come fetta importante di mercato. Divengono inoltre essi stessi oggetto di consumo, mito da promuovere e da vendere attraverso una molteplicità di prodotti definiti appunto giovani, come i jeans, gli scooter, la musica rock, che regalano a tutti, adulti e anziani, l’illusione di poter comprare e di esibire un pezzo di giovinezza. Negli anni Sessanta e Settanta, invece, i giovani, che in precedenza avevano contribuito a produrre continuità e integrazione, diventano attori di trasformazione e di conflitto sociale. Soggetti che operano «rottura» delle regole e dei valori dominanti.
    Passato, poi, il tempo dell’illusione e della «rivolta», i giovani continuano ad essere al centro della scena pubblica. Non sono più tanto un fattore di trasformazione quanto uno specchio delle stesse. Negli anni Ottanta, infatti, i giovani vengono presentati come i protagonisti del riflusso: ripiegati nel privato e nel disimpegno. Essi sono riflesso e attori di alcuni processi che accompagnano e rivelano la complessità sociale, caratterizzata dalla frammentazione e dall’instabilità del mondo esterno. A questa generazione gli adulti guardano con attenzione per comprendere gli elementi della propria inquietudine, della propria insoddisfazione e in definitiva per cogliere in loro una metafora e una profezia del futuro prossimo.
    A partire dagli anni Novanta è diventato più complesso cogliere nella gioventù quelle connotazioni specifiche e spiccate che erano servite per operare delle semplificazioni in un panorama che è sempre stato più vasto e complesso di quanto le definizioni non esprimessero. Sfumandosi le caratteristiche specifiche, questa generazione perde anche di appeal, tant’è che alcuni la definiscono come «generazione invisibile».[1] Invisibile perché risulta difficile leggere e comprendere i caratteri dei giovani separandoli dalla società nel suo complesso. L’attributo di invisibilità in realtà evoca non solo la difficoltà ad osservare e interpretare l’oggetto esaminato, ma soprattutto lo spiazzamento di chi osserva i giovani e non riscontra più in essi i tratti precisi di un solo profilo unitario e semplificatore, magari riduttivo, ma moltissimi. Difficoltà che si accompagna con la contemporanea crisi di soggetti, di manifestazioni, di gruppi in grado di imporre all’attenzione pubblica le condizioni e le ragioni di una generazione «dall’interno».
    Paradossalmente, così, ad un’intera generazione si estende la caratteristica dell’invisibilità che da sempre è stata specifica di una fetta di giovani, e cioè i giovani lavoratori. Infatti, la grande attenzione cui sono stati oggetto i giovani, soprattutto, come detto, a partire dagli anni Sessanta, quando hanno cioè cominciato a porsi come un soggetto collettivo diverso dal resto della popolazione, cui contestavano stili di vita, norme e valori, ha avuto come centro l’analisi della contestazione studentesca. Se a questo si aggiunge poi che a partire da quegli anni prende avvio la cosiddetta «scolarizzazione di massa» e viene consentito l’accesso universitario anche a quanti frequentano istituti non umanistici, si può facilmente comprendere come nell’immaginario collettivo alla categoria giovane si associ per lo più la condizione di studente. Scarsissima è sempre stata l’attenzione verso una fetta molto importante della popolazione giovanile, quella cioè che abbandonava precocemente gli studi per inserirsi nel mondo del lavoro e divenire quasi immediatamente invisibili e di scarso interesse per sociologi, politici, educatori, pastorali.
    Se la categoria dell’invisibilità è propria di un’intera generazione, rimane vero però che i giovani lavoratori continuano ad essere ancora meno visibili dei loro coetanei studenti. Infatti, se si possono registrare comportamenti e atteggiamenti fra giovani lavoratori e giovani studenti non così dissimili per quanto riguarda soprattutto i livelli di consumo nel tempo libero, le amicizie, l’esposizione ai mass media, alla musica o alla discoteca e i modi di abbigliarsi, là dove l’accento cade più sull’essere giovane che sulla condizione (studente o lavoratore), permangono tuttavia delle differenze notevoli fra le due categorie. Infatti, i giovani lavoratori sono molto meno visibili socialmente degli studenti perché difficilmente frequentano le reti informative (ad esempio gli informagiovani), e perché meno di altri aderiscono ad iniziative a carattere associativo.[2] Inoltre più di altre coorti di lavoratori frequentano i segmenti del mercato del lavoro precario, instabile (in prevalenza al sud) e perché il loro ingresso nel mondo del lavoro spesso avviene attraverso un lungo itinerario attraverso diverse imprese di piccole dimensioni dove il sindacato non è presente.
    L’ingresso nel mondo del lavoro coincide anche con la quasi immediata fuoriuscita di questi giovani dai percorsi educativi e di pastorale giovanile delle nostre realtà parrocchiali. Al cambiamento della situazione, da studente a lavoratore, non corrisponde un adeguamento delle proposte da parte delle pastorali alle situazioni di vita di questi giovani. Le riunioni continuano a farsi al pomeriggio, il linguaggio è sempre più complesso e ingenera in questi giovani, che spesso sono fuoriusciti precocemente dalla scuola, la stessa sensazione di disagio della scuola, le proposte tendono a valorizzare chi sa parlare e non chi sa fare. Anche fra i nostri responsabili, come diremo fra poco, giovane corrisponde a studente. La domanda che spesso accoglie i giovani ai margini degli oratori o degli incontri è: «Tu che scuola fai?»...

    Giovani e lavoro

    I giovani che lavorano, invece, esistono, e non sono pochi! Infatti, secondo i dati ISTAT, una percentuale inferiore non di molto al 50% fra i giovani compresi dai 15 e i 29 anni d’età è in possesso della qualifica professionale o del solo diploma di scuola media inferiore od elementare. Quindi si può presumere che questi ragazzi hanno iniziato molto presto a lavorare e che, quasi sicuramente, siano impiegati in lavori manuali! A fianco di questo dato va aggiunto però, ad onore del nostro Paese, che negli ultimi anni è stato colmato il grande divario che ci divideva dagli altri paesi industrializzati per quanto riguarda il livello di scolarizzazione. Secondo le ultime indagini dell’ISTAT e del CENSIS [3] circa il 90% dei giovani, terminata la scuola media inferiore, prosegue gli studi nell’istruzione superiore o nella formazione professionale. Oltre questo dato si deve aggiungere che oggi circa il 60% dei giovani fra i 15 e i 24 anni d’età è in possesso del diploma di scuola media superiore.
    A fianco di questi dati, in qualche modo rassicuranti sul livello d’istruzione, alcune recenti ricerche sui giovani [4] hanno posto in evidenza però come circa il 6% dei giovani compresi fra i 15 e i 18 anni di età sta già lavorando, e di questi i due terzi hanno il solo titolo dell’obbligo, e solo il 5% di questi ha una qualifica professionale mentre il restante 30% è un drop out, ha cioè interrotto un percorso di studi intrapreso.
    Quindi, nonostante il progressivo innalzamento del livello di scolarizzazione, che in qualche modo ha anticipato i disegni riformatori di innalzamento dell’obbligo, i giovani che lavorano, e fra loro alcuni che iniziano a lavorare molto presto, ci sono. Però nonostante questo di essi, ripetiamo, si parla sicuramente meno di qualunque altra categoria sociale. Fra le varie ragioni del silenzio che circonda i giovani lavoratori, oltre la scarsa cultura e rispetto del lavoro a scapito di altre dimensioni personali come quella del tempo libero o dei consumi, incidono notevolmente il problema della dispersione scolastica e, come accennato, il falso immaginario secondo cui giovane fa rima con studente, per cui, estremizzando, se sei giovane e non sei studente probabilmente c’è qualcosa che non va, e l’attenzione si sposta dall’analisi della condizione all’area del disagio.
    Un giovane che lavora, soprattutto se non ancora maggiorenne, richiama immediatamente a delle situazioni di difficoltà e di cattiva coscienza. Proprio il fenomeno dei drop out, cui si è accennato brevemente prima, non può non richiamare alla memoria uno dei problemi più spinosi e ancora irrisolti della nostra penisola, e cioè la grande dispersione scolastica e l’incapacità di rispondere alle esigenze formative del territorio. Infatti, se da un lato sono aumentati i livelli di scolarizzazione, dal momento che ormai più di nove ragazzi su dieci terminata la scuola media inferiore prosegue gli studi, il rovescio della medaglia presenta una dispersione scolastica al primo biennio delle superiori pari a circa il 20%. E questo fenomeno dei drop out colpisce l’intera penisola, senza grosse differenze fra nord e sud.
    I giovani espulsi dai percorsi scolastici o formativi presentano dei caratteri abbastanza tipici. Innanzi tutto si tratta in prevalenza di giovani provenienti da famiglie con un basso capitale culturale, di ceto operaio, di lavoratori manuali, che hanno interiorizzato un’immagine molto negativa di sé in relazione alla propria difficoltà nei confronti dello studio, o comunque dell’ambiente scuola, da cui sono stati già respinti perlomeno una volta. La scuola in questi giovani richiama un ambiente segnato da incomprensioni con gli insegnanti e da una spiccata incapacità a comprendere e ad adeguarsi alle regole. Una scuola che in nessun modo ha saputo (sa) valorizzare le diverse intelligenze in particolare «l’intelligenza delle mani» di moltissimi di questi giovani.
    Negli ultimi anni inoltre si assiste ad un fenomeno nuovo e cioè al sorgere dei «drop out attivi». Sono quei giovani che piuttosto che subire le continue frustrazioni che derivano loro dall’insuccesso scolastico scelgono di abbandonare i percorsi scolastici per inserirsi immediatamente in quelli lavorativi, dove sperano di trovare maggiori e immediate gratificazioni. Ovviamente questo fenomeno è particolarmente presente nelle realtà territoriali ad economia diffusa, dove è presente un mercato del lavoro dinamico e in cui risulta facile trovare un’occupazione, si pensi a tutto il nord-est, ma anche ad alcuni distretti produttivi dell’area adriatica e del centro Italia (le Marche, Prato…).
    I giovani che si immettono, consapevolmente o meno, nel mercato del lavoro dichiarano nella maggioranza dei casi un elevato livello di soddisfazione verso il lavoro svolto. Questo dato è messo in evidenza da tutte le ricerche svolte,[5] secondo cui più i lavoratori sono giovani più sono soddisfatti del lavoro svolto, nonostante la loro occupazione non sia gratificante o professionalizzante.
    I giovani che lavorano quindi, nell’immediato, si sentono tutt’altro che a disagio. Il lavoro per loro rappresenta una sorta di rivincita nei confronti della scuola, di una società che li ha «espulsi» precocemente, una possibilità concreta di autonomia e di gratificazione personale maggiore dei loro coetanei studenti. Per la prima volta nella vita si sentono «promossi»!
    Questi giovani, quindi, per quanto siano invisibili, sicuramente non sono nell’area del «disagio sociale», anzi; se però si prova ad andare oltre l’immediato mostrano chiaramente una «debolezza sociale», che potrebbe penalizzarli pesantemente nel prosieguo della loro esperienza lavorativa dove dovranno affrontare cambiamenti, transizioni produttive e culturali cui probabilmente non sono attrezzati né professionalmente né culturalmente.
    La scarsa visibilità dei giovani che si inseriscono nel mondo del lavoro è determinata anche, come detto, dalle modalità con cui quest’ingresso avviene. Infatti, l’inserimento nel mondo del lavoro avviene prevalentemente nel settore dell’artigianato e dell’industria, in imprese di piccole o piccolissime dimensioni con contratti di formazione lavoro e di apprendistato dove svolgono le mansioni più tipiche del lavoro manuale e operaio. Più spesso poi sembra delinearsi un primo inserimento lavorativo fatto di lavori a tempo determinato e precario, sia nel settore del lavoro operaio, sia nel terziario meno qualificato (pony express, commessi, pizzerie, volantinaggio…). Per tutte queste ragioni è giusto parlare non tanto di mondo del lavoro, quanto di mondo dei lavori, perché non esiste (come non è mai esistita!) una rappresentazione prevalente di lavoro, ma moltissime, e ognuna con un’organizzazione propria del lavoro e del tempo, tali da non permettere di rendere visibili tutti insieme una categoria di giovani. Una categoria che sempre più non presenta molte differenze di sesso. Infatti, il numero delle ragazze che si inseriscono oggi nel mondo del lavoro, a differenza di un tempo, è pressoché simile a quello dei ragazzi.
    Per quanto poi riguarda l’inserimento nel lavoro, questo avviene soprattutto grazie alle relazioni a livello locale, e all’integrazione della famiglia d’origine nella realtà sociale, e non tanto grazie all’orientamento scolastico e alle reti informative presenti sul territorio. Il passaggio dalla scuola al lavoro si svolge così in maniera sfumata e non facilmente osservabile sia per le modalità con cui avviene sia perché spesso si verifica nel settore che non è «presente» in Italia, ma che, nonostante questo, coinvolge milioni di persone, e cioè il lavoro nero. Proprio partendo da questo settore e dalle sue dimensioni occorre ridimensionare anche il tasso di disoccupazione giovanile in Italia, che per quanto rappresenti una percentuale rilevantissima soprattutto in alcune aree del nostro paese, più spesso deve essere declinato come lavoro precario o come sottoccupazione. Disoccupazione quindi, almeno per quanto riguarda i giovani, che corrisponde non tanto a povertà e a miseria materiale, quanto a problema di attesa e di disagio. Situazione questa che non va sottaciuta, perché il problema dei giovani non è semplicemente quello del lavoro, ad ogni costo, ma di un lavoro che sia effettivamente occasione di creazione d’identità personale e collettiva, di un lavoro in altre parole che sia effettivamente di qualità, dove i parametri per la sua misurazione non siano solo lo stipendio, ma anche la sicurezza, le relazioni positive con i colleghi di lavoro, la possibilità di crescere professionalmente, la stabilità.

    Alcuni tratti dello scenario

    È importante a questo punto sottolineare alcuni aspetti del contesto odierno che influenzano grandemente gli atteggiamenti e le rappresentazioni della realtà non solo dei giovani lavoratori, ma probabilmente di intere generazioni future.
    Tutti siamo più o meno consapevoli dei grandi stravolgimenti cui è sottoposta la società del nuovo millennio, però è pressoché impossibile addivenire ad un’analisi dei cambiamenti condivisa e accettata, sia perché è sempre molto difficile leggere gli eventi senza il senno del poi e, d’altro canto, perché ogni analisi è sempre una semplificazione indebita di una complessità altrimenti intraducibile. La premessa inevitabile e banale quindi non può che essere quella del tentativo di compiere un rapido excursus di alcuni recenti mutamenti cercando di leggerli con la categoria dell’ambivalenza. Ogni cambiamento, infatti, è sempre foriero di grandi rischi, ma anche di grandi opportunità.
    Non c’è analisi della società attuale che non parta da un avvenimento di cui si è tanto parlato, e tanto si parla, che a citarlo oggi viene quasi da sorridere, perché indicato come crocevia di qualunque evento a lui successivo, e cioè la caduta del muro di Berlino. Quell’evento, anche materiale, ha segnato la crisi di tutte le ideologie dominanti del secolo, e sbriciolandosi il muro si è anche frantumato il nostro modo di rappresentarci e catalogare gli eventi. È innegabile che a partire dal novembre 1989 è iniziata una nuova era. Altrettanto innegabile è però il senso di smarrimento generato in tutti dopo l’entusiasmo iniziale. Alcune nazioni si sono trovate improvvisamente con un’identità da ricostruire, fra una storia dimenticata e una storia da dimenticare, e altre nazioni si sono ritrovate orfane del nemico su cui avevano costruito la propria di identità. In mezzo le persone si sentono smarrite, imprigionate da un concetto di «libertà» che nessuno è stato ancora in grado di declinare se non come libertà di consumare. Con il muro è crollato anche il discrimine, che rendeva chiara la differenza fra giusto e ingiusto. Forse era riduttivo, forse sbagliato, però a tutti era chiaro una volta scelto da che parte stare, che progetto e che ideale di mondo si voleva costruire. Oggi la sfida è proprio quella di andare oltre lo smarrimento e la disillusione generata e avere il coraggio di pensare e sognare un mondo nuovo, lasciandoci alle spalle le colonne d’Ercole del dopo muro.
    Se con il crollo del muro è venuto meno anche il nostro modo di rappresentarci e di prefigurarci la società, parallelamente oggi assistiamo a cambiamenti che incidono parecchio sulla nostra capacità e possibilità di guardare il mondo e di rapportarci con esso e con le altre persone. Tutti noi sperimentiamo quotidianamente, infatti, quanto sia cambiata la nostra vita con la diffusione di massa di nuovi ritrovati tecnologici come il cellulare, il personal computer e ora internet (solo per citarne alcuni). Senza addentrarsi in una discussione etica in merito, può essere importante sottolineare perlomeno due aspetti di questa rivoluzione tecnologica, e cioè da un lato, come si accennava, ai cambiamenti apportati al nostro modo di vivere, di comunicare, di comprare, e dall’altra alle conseguenze sulle persone. Sono cambiamenti che in breve tempo modificheranno le rappresentazioni tradizionali della realtà e i rapporti fra le persone, che saranno sempre più improntati a velocità, immediatezza, aprogettualità, e magari anche virtualità. Inoltre, l’imponente progresso tecnologico rischia di creare un altro grande muro fra quanti sono in possesso delle nuove tecnologie, quanti le conoscono, e una massa di persone escluse da questo nuovo mondo che, guarda caso, coincideranno ancora una volta con i più poveri.
    I progressi tecnologici hanno indubbiamente aumentato il processo verso quel fenomeno indicato con il termine «globalizzazione», termine anch’esso oggi abusato e di cui però non si coglie appieno il significato e soprattutto le conseguenze di cui sarà artefice. La globalizzazione semplicisticamente implica la creazione di una rete planetaria di scambi in tutti i campi dal sapere, alla produzione alla cultura.
    Anche rispetto a questo fenomeno occorre distinguere fra fatto e valori. Innanzi tutto occorre ricordare che la globalizzazione esiste, e non da oggi. Se sia buona o cattiva è una domanda che bisogna porsi per capire come vada indirizzata, corretta, osteggiata o favorita, perché indubbiamente questo fenomeno ha delle ripercussioni enormi sulla produzione di beni e di servizi, sulle forme della loro circolazione, sul rispetto dell’ambiente e sulla tutela dei diritti fondamentali dell’uomo in quanto cittadino e in quanto lavoratore.
    Dire se la globalizzazione sia buona o cattiva è un altro dei grandi interrogativi del nostro tempo, ma indubbiamente la prospettiva di mangiare un panino in un «non luogo» con lo stesso sapore e circondato dallo stesso arredamento di un locale che potrebbe essere indifferentemente a Roma o a Pechino o a New York è una prospettiva non solo poco allegra, ma deleteria per tutti. Il grande rischio, infatti, che la globalizzazione porta con sé è quello dell’appiattimento culturale e istituzionale dei diversi paesi. La varietà, in questo caso, mal si concilia con le regole del libero scambio, ma è il fondamento di quel capitale sociale (inteso come insieme dei beni relazionali ed etici di un dato contesto culturale) che è l’unica vera risorsa per ogni strategia di sviluppo.
    Se questi grandi cambiamenti stanno influenzando notevolmente il nostro modo di vivere, di rapportarci con gli altri e di rappresentarci il mondo, non possono non incidere anche sul mondo del lavoro. Il mondo del lavoro è cambiato considerevolmente negli ultimi anni tanto che non si era ancora apprestata una definizione per la nuova era che si stava affrontando che ci si è trovati catapultati in un mondo diverso. Mentre, infatti, i sociologi si dibattevano fra post fordismo, toyotismo, eccetera, un nuovo modo di intendere il lavoro si è presentato loro innanzi, con alcuni tratti del vecchio scenario, alcuni del mondo che stavano indagando e con altri aspetti completamente nuovi. Negli anni ’70 e ’80 a fronte dei cambiamenti radicali del mondo del lavoro, che per la prima volta lasciavano intuire uno sviluppo economico senza sviluppo sociale, i sociologi si sono divisi fra ottimisti e catastrofisti rispetto alle prospettive del mondo lavoro e di milioni di lavoratori. Si è iniziato a parlare di «fine del lavoro», di tempo da liberare dal lavoro, di retribuzione senza garanzie. Tutto questo gran parlare ha generato una profonda confusione che da un lato ha portato a perdere di vista il profondo significato del lavoro nella vita delle persone e dall’altro ad un fatalismo generalizzato che conduce le persone ad accettare passivamente la realtà. Il lavoro non è finito, ma è profondamente cambiato nei tempi, nei modi e nei luoghi di produzione oltre che nei prodotti. La produzione non è più incentrata solo sulla produzione di massa di manufatti, l’organizzazione del lavoro non è più verticistica, i grandi luoghi di lavoro tendono a divenire dei contenitori di varie tipologie di lavoratori con mansioni e ruoli molto diversificati, dove a volte in orari differenti, ma utilizzando gli stessi macchinari, si producono oggetti profondamente diversi. Tutti questi cambiamenti, che non possono più essere definiti come post-qualcosa, stanno incidendo profondamente anche sui contratti di lavoro che sempre più sono caratterizzati da grande flessibilità e provvisorietà.
    Il lavoro, quindi, e non solo da oggi, sta cambiando vorticosamente, ne sta cambiando la posta in gioco e stanno cambiando anche i conflitti, la loro conduzione e la possibilità della loro composizione con il rischio, ancora una volta, che a rimanere sul campo di battaglia siano i più deboli. Infatti, il nuovo scenario impone alle persone, sempre più nomadi multiattivi, rischi, saperi e capacità d’autonomia, che solo le persone dotate di grandi conoscenze tecniche e sociali sapranno affrontare senza finire schiacciati da un mondo che ancora una volta corre troppo in fretta.

    Mondi e valori

    I grandi cambiamenti tratteggiati a slogan sono campo di ricerca e di discussione di sociologi, economisti, filosofi, teologi…; i giovani lavoratori continuano a navigare a vista, a sperimentare e a sopportare i cambiamenti provando a vivere secondo modelli valoriali tradizionali e coltivando piccoli sogni.
    Non ne conoscono le cause, ma sperimentano quotidianamente le conseguenze di un mondo che sta cambiando, che richiede loro nuove competenze, spesso sconosciute. Le grandi trasformazioni pretendono flessibilità, capacità di adattamento, competenze tecnologiche e competenze relazionali. Il cambiamento oggi è la stabilità! Si passa indifferentemente dal mondo della scuola al mondo del lavoro, per poi magari ritornare a scuola, avendo cambiato nel frattempo un paio di lavori e perdendo i contatti con la parrocchia e gli amici d’infanzia per trovare nuove compagnie e nuove proposte aggregative.
    Il cambiamento non è neutrale per la persona, dipende grandemente dal significato ad esso assegnato dall’individuo e dal contesto sociale in cui questo è inserito. È molto diversa la scelta del giovane laureato di cambiare lavoro o di andare a lavorare all’estero dal continuo peregrinare da fabbrica a cantiere di un giovane a bassa scolarità delle nostre grandi città! A fronte di questa situazione sono pochissime le agenzie educative che preparano ad affrontare, elaborare e progettare i cambiamenti. Le nostre comunità parrocchiali per prime continuano imperterrite spesso a riproporre percorsi educativi e di fede stabili e continui come se la vita delle persone fosse la stessa di sempre e comunque qualcosa di altro e non interessante per la proposta di fede.
    I cambiamenti, oltre a non essere neutrali, incidono profondamente sulle nostre rappresentazioni della realtà. Ogni mondo percorso ha i suoi stili, le sue norme, la sua cultura, le sue visioni del mondo, e così si passa indifferentemente dalla proposta culturale dell’azienda in cui si lavora, alla visione del mondo proposta dal rito collettivo del sabato sera ai sermoni domenicali.
    Tutto ciò non può non creare una grossa difficoltà ad ordinare e gerarchizzare i diversi valori che si sperimentano e che guidano l’agire. I valori tradizionali continuano ad esistere, anzi sono al primo posto in tutti i sondaggi; però, oltre ad essere valori solo più individuali, sono declinati e vissuti in maniera molto diversa rispetto al passato. Per i giovani, ad esempio, il lavoro è considerato come una delle cose più importanti della propria vita. Il lavoro è pervasivo, invade ogni luogo e tempo di vita, però non è più uno spazio valoriale. Altri luoghi hanno assunto una rilevanza nella formazione delle idee e dei valori. La conseguenza di ciò è che spesso, soprattutto fra chi svolge mansioni manuali, nei confronti del lavoro si ha un atteggiamento strumentale o di fuga, di importanza relativa alla misura in cui permette di accedere ad altri mondi vitali.
    Mondi separati e lontani quelli frequentati dai giovani, dove di lavoro raramente si parla. Il lavoro non è più esperienza fondante nella costruzione della persona e della società non tanto perché i giovani non sperimentino questa dimensione, quanto piuttosto perché è sottaciuta e scarsamente valorizzata soprattutto nei luoghi educativi (la famiglia, la scuola, il gruppo parrocchiale, l’associazione…).

    Formati e sarai tu a decidere

    Le grandi agenzie educative, ma più in generale tutte le componenti della nostra società, sono chiamate ad uno sforzo di fantasia senza precedenti per affrontare la rivoluzione produttiva e culturale cui sono sottoposte, e in questo contesto diviene strategico il ruolo della formazione, in particolare della formazione professionale.
    Quest’ultima, sorta per fornire la preparazione di base per quei giovani che per i più svariati motivi sceglievano corsi veloci per l’inserimento nel mondo del lavoro, sta assumendo nuove caratteristiche proprio per affrontare i problemi dell’occupazione e dello sviluppo.
    Negli ultimi anni ai tradizionali soggetti, come dicevamo, si sono aggiunti via via adulti in cerca di una riqualificazione e giovani diplomati e laureati desiderosi di acquisire degli strumenti più idonei per affrontare le mutate esigenze del mondo del lavoro. Pur con queste nuove offerte di formazione differenziate, lo specifico di questo settore, strategico in ogni società che guardi con lungimiranza al proprio futuro, devono continuare ad essere quelle persone che partono più svantaggiate nell’affrontare il mondo del lavoro nell’epoca della new economy. In particolare quindi di quei soggetti che, come si diceva, presentano una sorta di debolezza sociale e che meno di altri sono in grado di intuire la formazione come valore strategico per affrontare i cambiamenti.
    Al di là dell’adeguamento delle competenze tecniche e professionali, la sfida fondamentale che la formazione deve affrontare è una sfida educativa, nella prospettiva di fornire alle persone parametri per orientarsi e per scegliere.
    In una stagione in cui pare prevalgano le tensioni individualistiche e utilitaristiche, ma in cui le persone sono anche alla ricerca di un significato profondo in ciò che si fa, un’educazione che poggi sul ritorno ai grandi valori dell’esistenza umana e in particolare ai valori connessi col lavoro può essere la strada per cogliere le opportunità rappresentate dal nuovo evitandone i rischi.
    La sfida cui sono chiamati i soggetti della formazione professionale potrebbe essere quella della costruzione di un’etica nel e del lavoro, dove il lavoro non è più strumentale alla ricerca di altre strade per la realizzazione delle persone, ma si interseca con queste. Un’etica del lavoro che deve poggiare sull’etica professionale e sull’educazione alla legalità, ma anche, in un periodo in cui pare che i grandi valori si declinino solo più al singolare e le grandi esperienze organizzate sono in crisi, sull’educazione alla socialità e alla partecipazione. Senza entrare nel merito dei grandi cambiamenti, anche legislativi, cui è sottoposta la formazione professionale, diventa strategico per affrontare queste sfide la connessione dei soggetti formativi con altre realtà, sicuramente le imprese, le istituzioni, ma anche e soprattutto le esperienze associative, i luoghi dei piccoli racconti, che possono essere utili intermediari fra singoli e percorsi formativi.

    «Non sei fregato veramente finché hai da qualche parte una buona storia, e qualcuno a cui raccontarla» [6]

    Riporre al centro dell’esperienza di vita delle persone il lavoro, non per cadere nel lavorismo, ma per ridare spazio ad un’esigenza profonda delle persone nella costruzione della propria identità, altrimenti costruita a compartimenti stagni percorsi da schizofrenici, richiama alla necessità di offrire la possibilità di spazi di confronto, di ascolto in cui le persone possano tornare a raccontarsi. Finito il tempo delle grandi narrazioni che permettevano alle persone di raccontare se stesse, gli altri e il mondo partendo da un punto di vista esterno, forse è arrivato il tempo delle piccole storie quotidiane.
    I giovani che lavorano nei posti più disparati, nelle ore più assurde con le persone più incredibili, seduti nel bel mezzo di una rivoluzione, hanno delle gran belle storie da raccontare, solo che spesso a differenza di Danny Boodmann T.D. Lemon Novecento, seduto su una carica di dinamite, non hanno nessuno a cui raccontarla e così si convincono che non sia molto importante… e rischiano di essere fregati!
    I luoghi del racconto in un periodo di cambiamenti epocali divengono ancora più fondamentali per permettere alle persone di trovare un collegamento, un filo rosso che riunisce i diversi mondi percorsi e per trovare, a partire dall’interno, una sorta di continuità in ciò che si vive. Luoghi inoltre in cui sia possibile essere accompagnati nell’individuazione di criteri che permettano di scegliere, perché se è vero che i mondi vitali sono molti più di un tempo anche le possibilità di scelta si sono moltiplicate, ma la capacità di scelta e di orientamento non è per nulla scontata nei giovani. Oltre le informazioni, infatti, oggi è necessario acquisire delle abilità cognitive che solo delle riflessioni critiche e la formazione, come detto, possono dare.
    L’esigenza avvertita dai giovani di avere dei luoghi per il racconto richiama anche alla necessità dell’individuazione di persone che sappiano ascoltare (il Tim Tooney di Novecento). Una generazione orfana, «senza più santi né eroi», che è alla ricerca disperata di persone in grado di comunicare veramente, che sappiano cioè ascoltare e non tanto parlare quanto piuttosto aiutare a costruire dei significati.
    Qualcuno sostiene che, finito il tempo della scoperta, quello che ci apprestiamo a vivere è il tempo dell’invenzione. Non si scopre più la natura, ma la si inventa. Senza cadere negli estremismi che questa affermazione può portare con sé, ma cogliendone anche in questo caso la ricchezza e le opportunità, rimane vero che oggi sono da ripensare, da rivedere, da reinventare tutti i percorsi, i luoghi, le proposte educative e di evangelizzazione che ci siamo dati nel passato, non per buttarli a mare, ma per adattarli ad un contesto molto diverso. Così come rimane vero che la grande risorsa della nostra società e della nostra Chiesa, oggi come ieri, sono i tanti giovani che ci sembrano così lontani, apatici, insensibili, che il sabato pomeriggio, dopo aver lavorato magari per più di 50 ore nella settimana precedente, si riversano non più nei centri storici, ma nei grandi centri commerciali, che passeggiano con gli amici mentre comunicano con messaggi in codice con qualcun altro chissà dove per decidere come passare la serata, capaci di grandi azioni e di profonde riflessioni, ma spesso ignorate o incomprensibili perché al di fuori dei nostri codici valoriali e comportamentali, ma sicuramente premonitori del nostro futuro.


    NOTE

    [1] I. Diamanti (a cura di), Una generazione invisibile, Il sole 24 ore, Milano, 1999.
    [2] R. Frisanco, Atti del convegno «Promossi in lavoro», Roma 18 gennaio 2000.
    [3] Si veda anche il Rapporto 1997 sull’occupazione presentato alla Commissione Europea.
    [4] Fondazione Corazzin-GiOC-CISL, Atti del convegno «Promossi in lavoro», cit.
    [5] Si veda, oltre al già citato convegno «Promossi in lavoro», M. Ambrosini (a cura di), La fabbrica dei giovani, ed. Solidarietà, Rimini, 1995: rapporto di ricerca su giovani e rischio condotto da D. Marini per GiOC e Fondazione Corazzin, pubblicazione interna; e D. Marini, Lavoratori adolescenti in Italia, 1999, Fondazione Corazzin.
    [6] A. Baricco, Novecento, Feltrinelli, Milano, 1994.


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