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    Attenti! Cambiano la scuola e l’università



    Carlo Nanni

    (NPG 2000-05-3)


    1. Quest’anno 2000, non è solo l’anno del giubileo, ma anche l’anno che rivoluzionerà la scuola e l’università italiana. Dal settembre 2000 andrà a regime l’autonomia della scuola di ogni ordine e grado. E entro diciotto mesi (a meno di scivolamenti all’italiana!) è previsto che entri in vigore il Regolamento dell’autonomia universitaria (apparso sulla Gazzetta Ufficiale il 4 gennaio 2000), con i relativi Decreti d’Area.

    2. Con l’autonomia, la scuola non dipende più totalmente dal ministero e dal sistema del governo centrale, ma viene legata piuttosto al territorio e alle amministrazioni locali (seppure sotto «garanzia» ministeriale). Ed è chiamata ad essere capace di offrire, in libertà e creatività, una serie di strumenti cognitivi, di esperienze di apprendimento, di pratiche sociali, che permettano agli studenti di crearsi un proprio bagaglio di conoscenze e di competenze che li mettano in grado di rapportarsi con il mondo e con gli altri, di saper dare un senso alla propria vita e alle proprie scelte, di saper affrontare i problemi che insorgono nel corso dei processi storici a cui si partecipa.

    3. Agli studenti non è più richiesto di essere omologati ad un programma precostituito di istruzione o al massimo socializzazione.
    Da una prevalente funzione di trasmissione del patrimonio sociale di cultura, si passa a mettere al centro della scuola la «progettazione e la realizzazione di interventi di educazione, formazione e istruzione mirati allo sviluppo della persona umana, adeguati ai diversi contesti, alla domanda delle famiglie e alle caratteristiche specifiche dei soggetti coinvolti, al fine di garantire il loro successo formativo, coerentemente con le finalità e gli obiettivi generali del sistema di istruzione e con l’esigenza di migliorare l’efficacia del processo di insegnamento e di apprendimento» (così recita l’art. 1,2 del Regolamento dell’autonomia).

    4. C’è il rischio, non poi tanto ipotetico, che – al di là del problematico significato e della portata operativa di certe nuove parole-programma, quali il POF (= Piano di offerta formativa), competenze, funzioni-obiettivo, saperi, trasversalità, curricolo nazionale opzionale/locale, facoltativo, ecc. – si scada facilmente in una «scuola-mercatino» o «scuola-bazar», rispetto alla cui concorrenziale «offerta» si muovono a loro piacere ed interesse gli studenti/genitori «clienti». Ancor più problematica mostra di essere la questione dei «saperi essenziali» e delle competenze terminali cui si ha irrinunciabilmente da arrivare. Certamente ci sarà da discutere non solo sui contenuti, ma anche sulla «giustificazione» del curricolo e degli standard di valutazione. E sarà da vedere come tutto si compone nel quadro di un sistema sociale integrato di formazione, in cui scuola statale e non statale, scuola e lavoro, scuola ed extrascuola e più ampiamente le diverse agenzie sociali di educazione possano coerentemente collaborare alla formazione e allo sviluppo culturale del paese e dei suoi cittadini.

    5. Anche la scansione dei cicli in parlamento è «blindata» dal governo con 7 anni di scuola di base e 5 di scuola secondaria. Il «mosaico» finale è chiaro. Non ci sarà più la scuola tutta direzionata a inculturare i cittadini (=scuola dell’obbligo) o istruire chi vuole andare all’università. La scuola dell’autonomia intende essere scuola delle competenze spendibili ben presto nella vita. Baderà anche alla formazione professionale (delimitando fortemente l’azione dei centri di formazione professionale o quella delle regioni e del ministero del lavoro).
    Ma la scuola dell’autonomia pretende anche di educare la persona e formare il cittadino in maniera molto più pervasiva ed intenzionale che non nel passato: specie in rapporto con le difficoltà che attraversano le famiglie, che sempre più numerose non resistono all’usura del tempo e delle dinamiche relazionali, o si sfasciano o come sono sbalestrate e disorientate; e più largamente rispetto ad una società civile dilaniata da beghe, da mala-amministrazione, da mala-sanità, da rigurgiti di particolarismo, di ideologismi.

    6. Ma ciò va rapportato anche ad una Chiesa (o meglio a delle Chiese) che sembrano «sedute» sulla sacramentaria o al massimo sulla carità, e paiono aver dimenticato la formazione delle coscienze e il suscitamento di una presenza cristiana nel civile, nelle professioni, nelle istituzioni, nelle amministrazioni, nel politico. Non doveva essere questo il campo d’azione privilegiato del «progetto culturale orientato in senso cristiano», voluto dalla Chiesa italiana a Palermo?
    Si ha un bel dire «meno stato e più società»: la scuola dell’autonomia sarà più territorializzata, ma non meno politicizzata! Per evitare poi di lagnarsi o di piangere «sul morto», non sarà preventivamente da incrementare una pastorale scolastica seria, sistematica, collegata con l’azione delle famiglie, con le associazioni professionali di categoria (AIMC, UCIIM), con le associazioni disciplinari, con i sindacati? La possibilità di tale presenza è prospettata negli organi collegiali scolastici.
    Alle forze organizzate del territorio non è dato solo di incidere sulla elaborazione del POF (di competenza diretta del collegio dei docenti), ma anche di valutarlo, di ripensarlo, di farlo cambiare, modificare, arricchire. Si possono fare iniziative di formazione e di aggiornamento... «accreditabili» a studenti ed insegnanti.

    7. Anche l’università non sarà più quella ancora fondamentalmente umanistica, modellata a piramide (dal generale e dal teorico allo specialistico e al tecnico-operativo). Si va verso un modello, mutuato dal mondo anglosassone (ma che diventa sempre più tendenzialmente europeo), a piramide rovesciata: si parte dall’acquisizione di competenze tecnico-operative (= Laurea in tre anni), e poi - se si vorrà - si andrà verso lo specialistico (= Laurea specialistica con ulteriori 2 anni o Master di specializzazione) e la ricerca teorica e sperimentale settoriale (= Dottorato di ricerca in sede universitaria o presso centri di ricerca).
    Con la conclusione della scuola anticipata a 18, in 3 anni ci si laureerà e si potrà entrare a 21 anni come tecnico-operatore nel campo delle professioni. Così i giovani italiani non saranno più svantaggiati rispetto ai colleghi europei e nord-americani. E magari si potrà limitare di molto la forte percentuale di abbandoni della carriera universitaria che sinora si aveva in Italia.
    Sembra averla vinta il mondo della produzione e il modello ingegneristico-tecnologico (dove già erano più pensabili le cosiddette lauree brevi, che ovviamente ora scompariranno, per dare campo alla laurea pura e semplice dei 3 anni).

    8. Ma cambia pure il modo di essere studenti universitari. Infatti il conseguimento della laurea (e degli altri titoli successivi) avverrà con forme di «accreditamento», vale a dire sulla base del lavoro di apprendimento (ovviamente qualitativamente e quantitativamnte «esaminato» e certificato!) svolto dagli studenti. Esso comprende non solo la partecipazione alle lezioni, a seminari, tirocini, stage, laboratori, ma anche il tempo di studio di letture richieste, il tempo per la preparazione di elaborati o di rapporti di ricerca individuali o di gruppo, il lavoro per la tesi, ecc.
    Ci si domanda come sarà possibile realizzare concretamente ciò, specie nei mega-atenei come Roma o Napoli o Padova o Milano. Ma certo il coinvolgimento degli studenti viene ad essere molto più enfatizzato. L’università sarà sempre meno un «esamificio».

    9. A questo punto mi chiedo: come si potrà intervenire nella formazione dei giovani universitari in modo da sostenere e stimolare la sintesi vita, cultura, fede, professione? Anche in questa sede, una pastorale giovanile non dovrà cercare di «allearsi» con i movimenti o con le associazioni giovanili studentesche universitarie? Non ci sarà da consultarsi e da concertare insieme linee di azione nella stessa direzione, seppure «carismaticamente» differenziate?
    E, più specificamente, non sarà venuto il tempo di far sedere allo stesso tavolo teologi pastoralisti, pedagogisti, educatori, animatori, giovani, universitari per chiarire, determinare, individuare cosa vuol dire progetto culturale orientato cristianamente in questo contesto di forte cambiamento del sistema sociale di formazione?
    Non ci sarà da «convenire», pur nella differenza, sul ciò che si intende perseguire perché si possa realizzare un’educazione cristiana ed una educazione alla fede nell’Italia che ha iniziato il 2000?


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