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    Lo spazio/tempo unico ambito di salvezza



    Carlo Molari

    (NPG 2000-01-28)


    Il problema dell’educazione alla fede religiosa viene diversamente impostato nelle varie religioni o nella stessa religione dalle diverse tradizioni spirituali, secondo i valori che vengono proposti come prioritari e l’interpretazione che viene data della vita interiore e del suo sviluppo.
    La difficoltà principale nel cogliere il valore dello spazio/tempo in ordine alla vita di fede deriva dal fatto che spesso la religiosità umana, nelle sue forme più sviluppate, ha superato la convinzione di una presenza magica delle forze divine negli spazi della creazione e nei tempi della storia, e sottolinea anzi l’inconsistenza delle cose transitorie e quindi tende a stabilire rapporti con Dio fuori dello spazio e del tempo. La presenza divina perciò non viene più legata ad ambiti particolari o a tempi specifici.
    L’uomo religioso evoluto tende, infatti, a concepire l’azione divina come trascendente, slegata cioè da ogni vincolo spaziale e temporale. Anche le religioni di tipo cosmico cercano di svincolare il rapporto dell’uomo con Dio dallo spazio e dal tempo per introdurlo in un ambito libero dal mutevole flusso del tempo e dal variare superficiale dei luoghi, pervenendo al massimo ad una concezione vagamente o dichiaratamente panteista.
    A questo dato si aggiunge spesso una tendenza spiritualista che tende a disprezzare le componenti corporali dell’uomo per contrapporvi la vita dell’anima o lo sviluppo della dimensione spirituale.
    Il cristianesimo invece, nonostante tendenze contrarie sviluppatesi in alcuni periodi della sua storia, ha dato grande importanza alla dimensione corporale in virtù del principio dell’incarnazione e della struttura sacramentale, che utilizza beni materiali, tipici dell’ambito mediterraneo (acqua, olio, vino, sale), ed è strutturata da riti di memoria. La legge dell’incarnazione, centrale nell’esperienza cristiana, orienta lo sguardo in modo prioritario verso la storia, che costituisce l’ambito di crescita dei figli di Dio e dove quindi si svolge l’avventura del Regno, annunciato da Gesù. Per questo la spiritualità cristiana ha sviluppato un particolare atteggiamento nei confronti dello spazio/tempo, non solo dal punto di vista dottrinale ma anche operativo, atteggiamento complesso e diversificato nei secoli, ma individuabile almeno nelle sue linee essenziali.
    Partendo dalla convinzione che la parola di Dio risuona là dove gli uomini si impegnano, godono, amano, soffrono, dove cioè vivono, per il cristiano educare alla fede concretamente consiste nel far percepire la presenza di Dio nella creazione e nella storia e realizzare l’accoglienza della sua Parola/Azione negli spazi del tempo umano.
    Da questa preoccupazione sono nate le diverse iniziative che nel corso della storia hanno caratterizzato la vita delle comunità cristiane. Anche le varie forme di pastorale d’ambiente, sorte nel nostro secolo, intendono rispondere all’esigenza di testimoniare la fede nell’azione salvifica di Dio nei luoghi dove la vita concreta si svolge e nella successione delle piccole avventure umane.
    Attualmente le chiese, in particolare quella cattolica, sono impegnate nella preparazione al grande Giubileo del 2000. È una modalità concreta per cogliere l’incidenza della dimensione spazio/temporale nell’esperienza cristiana, ma è anche l’indicazione del modo relativo con cui la relazione con lo spazio e il tempo viene vissuta. Il giubileo infatti è una ricorrenza anniversaria, legata quindi al tempo, e sollecita pratiche, come i pellegrinaggi, relative a luoghi che rivestono una particolare rilevanza per la fede. Ma il fatto che i tempi approssimativi e i luoghi non sempre sicuri non tolgono nulla al valore della celebrazione, mostra che i valori in gioco sono più assoluti dei luoghi e dei tempi.

    Il Giubileo: lo spazio/tempo nel cristianesimo

    Può sembrare strano che i cristiani diano tale importanza a ricorrenze e a luoghi sacri, stante l’insegnamento esplicito del loro maestro, secondo cui è ormai giunto il tempo «in cui i veri adoratori» adorano il Padre non in luoghi e in tempi sacri, bensì «in Spirito e verità» (Gv 4, 23). In qualsiasi modo questa formula venga interpretata, essa mette in evidenza gli atteggiamenti interiori dell’uomo, la consapevolezza e la libertà, necessari per riconoscere ovunque la presenza di Dio. In nome di questi principi alcuni hanno contestato la connessione stabilita dalle pratiche del giubileo tra la vita spirituale dell’uomo e la visita ad alcuni luoghi in tempi fissati da convenzioni umane.
    Anche Papa Giovanni Paolo II nella lettera (Dopo anni di preparazione, 29 giugno 1999) indirizzata a quanti si dispongono a celebrare nella fede il grande Giubileo, per presentare il suo personale pellegrinaggio giubilare nei luoghi della rivelazione di Dio, richiamando alcuni principi relativi ai luoghi e ai tempi dell’azione di Dio ha riconosciuto che «parlare di determinati spazi in rapporto a Dio potrebbe destare qualche perplessità» (n. 2). «Non è forse lo spazio, non meno che il tempo, interamente sottoposto al dominio di Dio? Tutto infatti è uscito dalle sue mani e non c’è luogo dove Dio non si possa incontrare... Dio è ugualmente presente in ogni angolo della terra, sicché il mondo intero può considerarsi ‘tempio’ della sua presenza». Il Papa ricorda, in merito, che nella tradizione cristiana, è la comunità ecclesiale ad essere chiamata tempio (1 Cor 3,17) «e persino lo è ciascun discepolo di Cristo, in quanto abitato dallo Spirito Santo (cf 1 Cor 6,19; Rom 8,11)» (ib n. 3). Egli ricorda inoltre che anche le basiliche e i templi cristiani «hanno un carattere del tutto funzionale alla vita cultuale e fraterna della comunità, nella consapevolezza che la presenza di Dio per sua natura non può essere racchiusa in nessun luogo, giacché tutti li permea» (ib). Ovunque, quindi, le persone credenti sono in grado di vivere il rapporto con il Padre in «spirito e verità» e di operare alla sua presenza.
    Perché allora l’insistenza sui pellegrinaggi e sulla visita ad alcuni luoghi particolari in tempi determinati? Non si tratta certo di individuare spazi permeati da una energia soprannaturale, o privilegiati da una presenza straordinaria della potenza divina come gli antichi ritenevano e ancora oggi alcuni pensano. Né si tratta, come per i pellegrini medioevali, di affrontare disagi e pericoli, mettendo a rischio anche la vita, per rafforzare la fede e scontare i propri peccati.
    Occorre distinguere nettamente la sacralità del luogo per una presunta presenza particolare di Dio e a causa, invece, di un evento accadutovi nel passato e ricordato come ancora significativo per la storia umana. Nel primo caso il luogo costituisce un ambito fisico di presenza divina come gli Ebrei consideravano il tempio di Gerusalemme, «città della sua residenza per sempre» (Tb 13,17), con un modello comune a tutte le religioni antiche. Nel secondo caso, invece, il luogo non rappresenta l’ambito di una azione misteriosa ancora presente, bensì costituisce il riferimento per la memoria di un evento temporale ancora efficace. Nel primo caso è la presenza fisica di Dio a rendere sacro lo spazio, nel secondo è invece la memoria e la fede degli uomini a costituirlo ambito di presenza. Nel primo caso la sacralità è oggettiva, indipendente quindi, dall’attività umana, nel secondo caso, invece, si richiedono atteggiamenti soggettivi, mancando i quali lo spazio non viene collegato a nessun tempo e ritorna ad essere profano. Nel primo caso l’inesattezza sull’identità del luogo sarebbe deleteria ai fini delle pratiche umane, nel secondo caso, invece, anche luoghi stabiliti con approssimazione o del tutto errati possono svolgere ugualmente la loro funzione di riferimento per la memoria di eventi che restano la ragione del pellegrinaggio. La sacralità non è data da una particolare presenza di Dio, bensì dalla memoria che gli uomini fanno dell’evento accaduto in un luogo particolare.
    Analogo ragionamento deve essere fatto per le ricorrenze temporali come sono gli anniversari. La scadenza delle date non ha valore in se stessa ma come riferimento per la fede e la memoria degli uomini, che rivivendo gli eventi passati ne mostrano l’attualità e l’efficacia nella propria vita. Non è quindi l’esattezza del tempo a fissare il valore della celebrazione, ma la funzione che l’anniversario celebrato esercita per lo sviluppo delle dinamiche introdotte nella storia e per gli ideali espressi dall’evento ricordato. Questo spiega perché si possa conferire tanta solennità a un anniversario che si sa essere certamente errato. Il secondo millennio dalla nascita di Cristo, infatti, è già scaduto da alcuni anni, ma l’evento può essere ricordato nel suo significato anche in una data inesatta. Solo l’esercizio della memoria da parte degli uomini, infatti, rende significative la scadenza dei tempi e la visita dei luoghi. Non sono il tempo o il luogo come tali a conferire valore ai gesti umani, bensì sono questi a dare significato ai tempi e ai luoghi stabilendo la loro connessione.
    L’energia creatrice che un giorno, per la fedeltà di alcuni credenti, e in particolare del «Testimone fedele», il Figlio, si tradusse negli eventi, la cui memoria è impressa in pietre, monti e luoghi, è ancora in azione oggi, e quando essa viene accolta nella fede, stimolata dal ricordo del passato, la vita continua a fluire e ad assumere quelle forme nuove di umanità, che schiere di santi indicano possibili.

    Gesù luogo e tempo della salvezza divina: il principio dell’Incarnazione

    Sono due le componenti essenziali della salvezza in prospettiva cristiana: essa è da Dio e fiorisce nella storia. In quanto è da Dio non può essere attesa dalle creature che, come tali, sono sempre inadeguate alle esigenze della vita in sviluppo. In quanto, però, fiorisce nella storia la salvezza è sempre connessa ai tempi che si susseguono e ai luoghi che si incrociano, ed è quindi sempre condizionata alla presenza attiva di creature.
    Ritenere che la salvezza è da Dio significa affermare: «la verità che ci stimola alla ricerca esiste già come Parola vera e può diventare parola umana. Il Bene che sollecita il nostro amore esiste già in forma piena e può esprimersi in gesti di uomini. Possiamo realizzare la giustizia perché essa esiste già e possiamo accoglierla e introdurla nella storia umana perché si offre a chi la cerca. La Vita che si esprime nella piccola nostra esistenza è già in una modalità compiuta». Con il nome Dio indichiamo appunto la pienezza di quella perfezione che in noi si esprime in modo frammentario.
    Finché resta divina, però, l'azione/parola salvifica non tocca la storia umana; solo quando assume forme umane la Parola di Dio è udibile e la sua Azione è efficace. Gesù per il cristiano è appunto la forma umana della Parola divina. Questo modello interpretativo della storia salvifica è designato con il termine: incarnazione. La formula, rara inizialmente, ma divenuta poi corrente e comune, traduce l'interpretazione dell'evento salvifico secondo un modello, derivato dai libri sapienziali dell'Antico Testamento che ha avuto molta fortuna in ambito cristiano. Si trova negli scritti dell’Apostolo Giovanni per descrivere la presenza dell’azione/parola di Dio nella storia. Nel prologo del Vangelo è utilizzata l’espressione metaforica: «Il Verbo si è fatto carne» (Gv 1,14) e nel prologo della prima lettera è scritto: «ciò che abbiamo toccato del Verbo della vita» (1 Gv 1,1). La formula non indica la discesa di un essere celeste in terra, bensì la rivelazione della perfezione divina nella realtà concreta dell’umanità, la risonanza della sua Parola in forme umane. Per la fede cristiana Gesù non è un semidio, ma una creatura umana, che rivela Dio per il rapporto esclusivo che intrattiene con Lui. Nella sua realtà umana egli è perfettamente ed esclusivamente uomo e non ha alcuna maggiorazione che lo faccia diverso da noi. Gesù è stato il culmine della rivelazione perché è stato così umano da tradurre compiutamente il progetto che Dio ha per l'uomo, è stato così trasparente alla presenza di Dio da consentirne la piena manifestazione nella carne. Gesù è stato costituito Messia e Signore (cf At 2,36) perché ha svelato, nella sua esperienza storica, i tratti essenziali dell'azione/parola divina che salva. Giovanni esprime questa realtà con le espressioni che pone sulla bocca di Gesù: «Le parole che io vi dico non le dico da me stesso; il Padre, che dimora in me, fa le sue opere» (Gv 14,10) e «Io e il Padre siamo una cosa sola» (Gv 10,30). La ragione di queste affermazioni stava nel fatto che le opere di Gesù erano trasparenza perfetta dell'azione divina e che le sue parole esprimevano senza residui la verità di Dio (cf Gv 12, 49-50; 14, 10), perché in Lui l’azione/parola di Dio assumeva espressioni umane.
    Occorre inoltre ricordare che l'incarnazione non è un evento istantaneo, ma un processo che culmina nell’ultima Pasqua della esistenza di Gesù. Egli è stato costituito Messia e Signore (cf At 2,36), «principio di salvezza eterna per tutti quelli che gli obbediscono» (cf Eb 5,9), «Figlio di Dio in pienezza per opera dello Spirito nella resurrezione dai morti» (cf Rom 1,4) nella morte/risurrezione.
    Per evitare una divinizzazione della natura umana di Gesù (che è il monofisismo nelle sue varie forme), a cui corrisponde un trionfalismo ecclesiale e una divinizzazione della storia, occorre ricordare che la legge dell’incarnazione ha il suo risvolto nella kenosi e il suo culmine storico nella croce. Lì Gesù ha raggiunto la sua identità di figlio e ha realizzato la rivelazione suprema dell'amore divino, quando la violenza e l'egoismo degli uomini cercavano di rendere vana la sua missione. Egli nello stesso tempo ha sperimentato il limite della sua condizione di creatura umana, ma anche la necessità di rendere manifesto l’amore di Dio per la speranza umana.
    La legge dell’incarnazione, come appare realizzata in Cristo, può essere quindi espressa in questo modo: la Parola divina diventa udibile sulla terra quando si fa parola umana; l'amore di Dio diventa efficace per gli uomini quando diventa gesto di amore umano; la sua misericordia attinge i peccatori quando diventa perdono di uomini; la Vita, che Egli è, diventa dono per gli uomini quando si fa realtà umana.
    Considerata dalla parte dell’uomo, la legge dell’incarnazione appare come la necessaria conseguenza della incompiutezza dell’uomo. Egli non è in grado di accogliere il dono che gli viene offerto se conserva dimensioni divine né di percepirne la Parola se non quando assume modulazioni umane. Quando però assume forme umane, la parola/azione di Dio è frammentaria, incompiuta, sempre da attendere perché mai pienamente realizzata. Si sviluppa quindi nella successione degli eventi storici e nei luoghi della presenza umana.
    In questa prospettiva l’esistenza di Gesù è il paradigma di una lunga serie di eventi attraverso i quali Dio si è reso visibile agli uomini, e diventa così l'indicazione dello stile della presenza divina nel mondo. Attraverso la vita di Gesù è apparsa con profondità e con chiarezza una modalità di esistenza umana che la resurrezione ha garantito poi autentica.
    Gesù ha mostrato che l'amore vale più dell'odio, che il perdono è più significativo della vendetta, che il servizio è più efficace del potere. Gesù, in questo modo, ha anche mostrato che la fede può consentire a tutti, peccatori o giusti, di accogliere e rivelare la misericordia divina e di vivere, in modo salvifico, qualsiasi situazione storica. Ciò avviene non perché la realtà umana di Gesù e la sua vita abbiano caratteristiche diverse dalle nostre, ma anzi proprio perché esse sono così perfettamente umane da essere costituite da Dio indicazione per tutti, riferimento della sua presenza nel mondo. La vita di Gesù è quindi la modalità storica che ha consentito a Dio di rivelare la sua gloria e agli uomini ha concesso di riconoscere le leggi che regolano il processo della vita e di accogliere il dono di Dio nella loro storia.
    La specificità dell’esperienza cristiana è la fedeltà a questa legge salvifica vissuta da Gesù e verificata dai santi nella tradizione scaturita dalla sua avventura.

    La salvezza è una storia che si svolge nei luoghi degli uomini

    Dalla fedeltà a questa legge è nata la chiesa e si è snodata nei secoli la sua missione. L'incarnazione, perciò, non è solamente un evento fondamentale della storia umana, ma è un paradigma costante dell'azione salvifica di Dio e quindi anche una legge essenziale dell'esistenza redenta. Essa regge tuttora la storia salvifica. La rivelazione di Dio, infatti, non si è esaurita in Gesù. Per questo l'evangelista Giovanni ha espresso la rassicurazione di Gesù con le parole: «In verità, in verità vi dico: chi crede in me, anch'egli farà le opere che io faccio e ne farà anche di più grandi» (Gv 14, 12).
    Le opere che possono consentire il proseguimento della rivelazione di Dio come si è realizzata in Cristo sono le forme nuove di umanità, le invenzioni della solidarietà con gli ultimi e della compassione per i sofferenti. Altre religioni hanno carismi diversi, quella cristiana è definita dalla croce ficcata sulla terra, in uno spazio profano e maledetto, nel tempo segnato dal peccato degli uomini. Essa è diventata nel mondo il simbolo di una solidarietà che non teme la condivisione della morte, di una compassione che sa portare il male altrui fino all'estremo della sofferenza. Questa strada, tracciata dal cammino storico di Gesù, è stata percorsa da numerose schiere di santi che hanno introdotto nella storia umana correnti nuove di umanità e hanno consentito uno sviluppo inedito delle diverse comunità cui sono appartenuti. Essi sono diventati così modelli vivi di spiritualità umana, paradigmi della fedeltà alla vita. Le sfide attuali della storia attendono altre forme di rivelazione, invenzioni nuove di solidarietà che introducano a inediti livelli di umanità.
    La persona singola e l’umanità intera possono pervenire alla loro pienezza solo a condizione che si aprano quotidianamente a un dono nuovo. Ma l’azione attraverso cui la vita fluisce e il dono viene rinnovato si snoda nei meandri del divenire umano. Ogni giorno l'offerta creatrice di Dio, cioè le pressioni del Bene, del Vero, del Giusto sono necessarie all'uomo, ed esse potranno essere accolte in modo sempre più perfetto dall'umanità in cammino, a condizione che vi si sviluppi un adeguato atteggiamento di fede, cioè di accoglienza. Le novità della storia sono, in questa prospettiva, emergenza del Vero, del Bello, del Buono, del Giusto e del Vivente. Anche la stessa capacità di accoglienza è dono, frutto cioè della azione creatrice e gratuita di Dio, che sollecita libertà.
    La storia, in questa prospettiva, appare come il luogo dell'offerta continua di cui l'umanità ha bisogno per raggiungere nuovi traguardi e di cui ogni persona ha bisogno per diventare se stessa. Il dono della vita è troppo grande per essere accolto in un solo istante. L'uomo può interiorizzarne le acquisizioni vitali solo progressivamente, a frammenti, attraverso eventi storici successivi. Ma questo processo si sviluppa nell’ambiguità, perché la vita si offre nei limiti delle creature e attraverso l’intreccio spesso disordinato delle loro azioni. Nessun passato, infatti, e nessun presente possono contenere già i principi sufficienti e adeguati per il futuro. Per la frammentarietà e il disordine che ancora esistono nella storia umana, tuttora incompiuta, non tutto ciò che di nuovo in essa emerge è positivo e autentico. Anche il male, in modo parassitario, utilizza le dinamiche del bene a suo favore e produce novità: vi sono forme nuove di ingiustizia, di egoismi, di divisioni che occorre individuare per sapere come proporre concretamente la salvezza e come divenire oggi testimoni della forza creatrice che salva.
    L'azione dell'uomo, quindi, è necessaria perché la storia diventi salvifica. Perché la storia umana sia luogo teologico, spazio di emergenza dell'azione divina, è necessario che uomini fedeli ne facciano trasparire la forza salvifica e lo facciano là dove gli uomini vivono e soprattutto dove il male diffonde le sue dinamiche. Quando i santi vengono meno, la storia diventa ambigua e gli eventi oscuri. In tale prospettiva l'azione dell'uomo non è solamente una risposta alla richieste della storia, ma anche epifania della perfezione di Dio, emergenza della sua azione creante, espressione del suo amore. In ordine alla salvezza, quindi, non è l'uomo a fare il bene, ma il Bene che in lui cerca possibilità di esprimersi; non è l'uomo a dire cose vere, ma il Vero che in lui cerca di esprimere le sue parole; non è l'uomo a progettare cose giuste, ma il Giusto ad tentare progetti in lui; non è l’uomo che vive, ma la Vita che in lui cerca forme inedite di esistenza. Per questo l'atteggiamento fondamentale dell'uomo è l'accoglienza, la vigilanza e l'attesa. Le opere non salvano l'uomo, rivelano solo l'azione salvifica di Dio se è stata accolta con consapevolezza. È possibile infatti compiere miracoli e non rivelare Dio perché non si opera con la consapevolezza di essere figli suoi. Gesù lo ricordava con chiarezza: «Molti mi diranno in quel giorno: ‘Signore, Signore, non abbiamo noi profetato nel tuo nome e cacciato demoni nel tuo nome e compiuto miracoli nel tuo nome?’. Io però dichiarerò loro: ‘Non vi ho mai conosciuti; allontanatevi da me, voi operatori di iniquità’» (Mt 7, 22-23).

    I tempi e i luoghi della rivelazione: la fede si sviluppa nel tempo

    La vita dell'uomo si svolge nel mistero, ma non si sviluppa nell'ignoranza: l'uomo, infatti, esige di conoscere ciò che gli è offerto per poterlo accogliere interamente. Per questo il mistero si offre nell’esperienza vitale in modo da essere conosciuto e si svela a chi si rende disponibile. È appunto questo svelarsi del mistero nei luoghi e nei tempi umani che rende possibile la fede. Quando la rivelazione è impedita, la fede non è indotta o svanisce, e allora la vita perde consistenza e viene rifiutata. Occorre quindi conoscere bene in quali modi e a quali condizioni si realizza la rivelazione per prepararsi ad accoglierla nell’esperienza quotidiana.
    Nella predicazione e nella teologia degli ultimi secoli la rivelazione veniva spesso concepita come un complesso di notizie comunicate miracolosamente da Dio ad alcuni uomini e conservate in alcune tradizioni religiose. In base a questa convinzione le chiese cristiane spesso si sono contrapposte al mondo come detentrici di conoscenze esclusive, provocando, man mano che le scienze hanno acquisito una loro autonomia, forti divergenze tra la dottrina della fede e la cultura profana. Il Concilio Vaticano II ha presentato, invece, la rivelazione come una serie di eventi, accompagnati da parole (DV 2), attraverso i quali l'uomo è progressivamente condotto dai segni di Dio alla scoperta del suo mistero e alla percezione del senso della storia. In questa prospettiva la rivelazione non è riserva di luoghi sacri o esclusività di momenti religiosi. Essa ha un carattere pubblico e non riservato, ha un carattere vitale e non esclusivamente intellettuale, ha un carattere storico e non speculativo. I simboli di fede, le pagine bibliche, le formulazioni dei Concili, perciò, sono espressioni della rivelazione in quanto narrazioni di esperienze vissute nella storia umana ed esposizione delle riflessioni da queste suscitate. La Parola che alimenta la fede è la Parola della creazione, è la Parola che suscita tutti i profeti e che chiama ogni uomo ad un destino eterno. La rivelazione inizia con la creazione e continua in tutte le fasi del tempo. La Parola, attraverso cui Dio si rivela, perciò, non è rivolta solo ad alcuni popoli, ma a tutti e costituisce un patrimonio comune dell’umanità. La rivelazione si è realizzata in tutti gli eventi, attraverso i quali Dio ha condotto gli uomini alla scoperta del loro destino e la sua risonanza si rinnova in ogni esperienza autentica della vita umana. Ciò non significa che tutte le religioni o tutte le culture siano ambiti equivalenti di rivelazione, dato che ogni tradizione e ogni storia ha la sua specificità nella quale assieme a frammenti di verità sono inseriti errori e insufficienze. A ciascuna religione e cultura incombe il dovere di individuare la propria specifica missione e di proporla all'accoglienza di tutti gli altri.
    In questa prospettiva si comprende meglio la missione di Gesù (e della chiesa) come luogo di rivelazione o decodificatore dei messaggi divini inseriti nella storia degli uomini.
    Da ciò deriva la necessità che nei luoghi dove la storia si svolge siano presenti testimoni che aiutino a cogliere il mistero sotteso e offrano con la loro vita i criteri per leggere i segni dell’azione di Dio.
    La chiesa è la comunità cresciuta attorno all’esperienza di fede di Gesù Cristo, «iniziatore e consumatore della nostra fede», come dice la lettera agli Ebrei (Eb 12, 2). Egli ha realizzato una rivelazione di Dio che ha suscitato una tradizione nuova di credenti in Dio. Considerare Gesù come un testimone di Dio significa fare propria la sua forma concreta di fede, assumere gli ideali di vita per cui egli è vissuto fino a morirne. La comunità cristiana quindi è prima di tutto memoria della fedeltà di Gesù, ricordo degli eventi attraverso i quali Gesù è stato costituito Messia e Signore per noi (cf At 2,36). Riferirsi alla morte e alla risurrezione di Gesù significa richiamare i valori che Egli ha vissuto, per i quali gli uomini lo hanno ucciso e Dio lo ha glorificato. In questo senso ogni testimone della fede richiama con la sua presenza l’efficacia dei valori vitali conservati come Parola di Dio nella tradizione sorta da Gesù di Nazaret, accolti e verificati da generazioni intere e proposti anche oggi come condizione di autentica umanità. Anche la memoria dei santi fa parte di questo richiamo necessario. La missione rivelatrice di Gesù, infatti, è comprensibile solo se l’esperienza di Dio viene nuovamente proposta e se la fede in Lui guida a traguardi nuovi di vita. La serie ininterrotta di santi è garanzia dell’efficacia salvifica del Vangelo, lungo i secoli e presso tutti i popoli. L'impegno principale di una comunità ecclesiale deve essere appunto quello di suscitare nuovi santi che continuino nel tempo l’epifania di Dio e rendano visibile in modo efficace il suo amore. La rivelazione iniziata così nei primi istanti della creazione nella chiesa può assurgere ad espressione dei traguardi di umanità e del destino eterno cui tutti i popoli sono chiamati.

    Spazio/tempo unico luogo di testimonianza e di salvezza

    Da quanto è stato detto risulta con chiarezza che l’educazione alla fede può avvenire solo per la testimonianza offerta nei luoghi dove la vita si svolge e secondo i modelli culturali che vi vengono utilizzati. Non perché essi siano veri in assoluto, bensì perché sono gli unici che consentono di trasmettere messaggi in quel luogo e in quel tempo. Per una testimonianza efficace è necessaria una presenza: essere lì per ricordare che nella vita è in gioco una Realtà immensa, che solo nei frammenti del tempo può essere colta; essere lì per far percepire che nell’amore si esprime un Bene molto più ricco delle persone incontrate, ma che solo attraverso di esse può essere riconosciuto; essere lì per rendere consapevoli che la Verità in azione è molto più ricca delle parole pronunciate, ma che solo attraverso i frammenti può risuonare negli spazi umani; essere lì per indicare una Presenza più grande. I testimoni di Dio portano questo duplice messaggio: l’Eterno è, ma all’uomo si svela solo nei frammenti del tempo; l’Immenso è, ma per l’uomo abita solo gli spazi angusti dei suoi luoghi. Affermare che esiste il Bene, ma non indicare la sua possibile rivelazione nello spazio/tempo, non opera salvezza, può condurre anzi alla disperazione
    La testimonianza di Dio richiede di abitare i luoghi degli uomini per andare oltre il tempo, di percorrere gli spazi al fine di raggiungere la vita oltre le provvisorietà dell’esistenza. Proprio perché Dio è il Tutto, nessun luogo lo può contenere e nessun tempo esaurirne la potenza. Dio è sempre oltre le sue espressioni create e occorre cercarlo sempre altrove dai luoghi dove le creature si incontrano. Un altrove, però, che solo abitando lo spazio umano può essere indicato e raggiunto. Dio è sempre fuori dei tempi storici, ma è raggiungibile solo quando si attraversano i tempi degli uomini.
    Di qui la duplice consapevolezza che deve guidare le scelte pastorali: non c’è altra possibilità per offrire vita che frequentare gli ambiti dell’esistenza umana, ma per indicare quegli squarci di cielo dai quali si intravedono gli spazi eterni. Solo percorrendo i luoghi e abitando i tempi degli uomini come testimoni di Dio si possono indurre dinamiche di vita eterna e indicare orizzonti infiniti.


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