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    Il consumismo: vivere senza passato e senza futuro



    Mario Pollo

    (NPG 1982-1-34)


    Se si consulta qualche vecchio dizionario si vede che il significato del verbo consumare è reso attraverso il rimando alle espressioni, parzialmente sinonime, di «togliere l'essere, distruggere e ridurre al niente».
    Anche se il verbo consumare oggi sembra aver perso parzialmente questi aspetti del suo significato, tuttavia a me sembra che il fenomeno del consumare, così come è presente nella nostra società attuale, per una sorta di nemesi rimandi in qualche modo a questi antichi significati.

    IL CONSUMISMO: MALATTIA DELL'ESSERE

    Il consumismo, ovvero quel complesso di fenomeni sociali che vengono ricondotti a questo termine, appare sempre di più come una pericolosa malattia dell'essere, come una forma profonda di alienazione distruttiva che investe gli abitanti delle società industriali avanzate.
    Vivere per consumare, consumare per vivere è uno dei circoli viziosi più pericolosi per l'essere che, se anche oggi si presenta in forme più attenuate che in periodi recenti della nostra storia, caratterizza in modo rilevante la nostra condizione sociale ed esistenziale.

    Individuo e società: un legame inscindibile

    Ma perché il consumare come si fa oggi è distruttivo per l'essere, e si frappone come un ostacolo alla nostra piena realizzazione umana e quindi sociale? La risposta viene osservando per prima cosa il fenomeno «consumismo» in sé, e poi gli effetti che esso produce nel tessuto della cultura sociale che presiede al radicamento dell'essere umano in una società, in un luogo ed in una storia che siano per lui in qualche modo il fondamento della sua presenza, unica, specifica ed irripetibile nel mondo. In altre parole la cultura sociale deve essere considerata come un terreno indispensabile al nascere, ed allo svilupparsi dell'identità individuale, della personalità umana che rende ogni uomo un essere unico ed irripetibile. Infatti è la cultura umana che rende possibili alle singole unità individuali di essere simultaneamente parte di un insieme e unità irripetibili. La cultura consente l'individualità nel momento in cui rende possibile la società.
    Per cultura qui si intende il patrimonio di testi e di codici in cui si esprimono la concezione del mondo, il sistema di valori, le opinioni, le credenze e le modalità di organizzazione interna di una data società. Quando invece si parla di identità ci si riferisce a quel complesso fenomeno che consente ad un essere di comprendersi come individuo distinto dal mondo e dagli altri esseri umani, e di riconoscersi nel proprio passato e nel proprio futuro. Fondamentale perché questo riconoscimento di sé, come distinto, unico pur nelle variazioni che il tempo induce in ogni personalità umana, possa avvenire, è che l'individuo si riconosca nella storia, e quindi nella cultura del gruppo umano in cui ha la ventura di vivere.

    Lontani dalle frontiere del bisogno

    È noto che lo sviluppo sociale ed umano comporta l'emergere di nuovi bisogni: infatti man mano che una società evolve verso livelli di complessità più elevati, tende a far nascere nuovi bisogni nei suoi abitanti. Così, allo stesso modo, in un rapporto reciproco, man mano che un individuo sviluppa la sua autonomia dalla semplice ma ineliminabile necessità della pura sopravvivenza fisica, tende ad aprire la sua esistenza a nuovi bisogni, alcuni autoindotti ed altri eteroindotti. Non c'è quindi da stupirsi che, in una società complessa come quella industriale avanzata, i bisogni umani si siano spostati ben più in là della sfera in cui solitamente si collocano i bisogni che definiamo primari ed essenziali. Il consumismo non va quindi confuso con l'azione attraverso cui un individuo, un gruppo sociale ed una intera società tentano di soddisfare questi nuovi, magari artificiali, bisogni.
    Il consumismo è piuttosto un modo particolare di rispondere ai bisogni e di indurne di nuovi. Su questo vorrei fare chiarezza per evitare con ipotesi tardoarcaicizzanti di liquidare tutto ciò che di positivo e di evolutivo c'è nella storia umana, per riandare malinconicamente ad una purezza, ad una semplicità e ad una felicità mai esistita se non nel cuore di chi non sa accettare né il presente né il futuro, ed in definitiva non sa accettare se stesso.
    Lo sviluppo di nuovi bisogni, la creazione di nuovi prodotti materiali e culturali è comunque, quando non inquinato dal consumismo, uno dei segni del progredire dell'evolvere del destino umano.
    Infatti quello che rende «consumista» l'azione del consumare prodotti culturali, spirituali e materiali al fine di rispondere a bisogni primari e indotti è una particolare qualità, non l'azione in sé.

    UN INESORABILE CIRCOLO CHIUSO

    Questa qualità è data dal fatto che l'azione del consumare rispondendo ad un bisogno si fissa in un circolo vizioso. La viziosità del circolo è data fondamentalmente da tre aspetti. Il primo è la constatazione che nel consumismo ciò che qualifica la risposta al bisogno non è la qualità del prodotto in sé ma il suo valore di scambio. Il secondo è che i prodotti ed i bisogni indotti che entrano in circolo sono estranei alla cultura della società a cui appartengono i consumatori. Il terzo è che il circolo bisogno-consumo-prodotto si alimenta da solo e dà un effetto di accumulazione e non va in crisi nemmeno quando è fattore di patologia psichica e materiale per i consumatori.

    Il valore di scambio come giudizio di valore

    Con l'affermazione che nel consumismo ciò che qualifica la risposta al bisogno non è la qualità del prodotto, ma il suo valore di scambio intendo riferirmi a quel fenomeno, già osservato da Fromm nel suo Psicanalisi della società contemporanea con il nome di astrattizzazione e quantificazione, e che consiste nello scegliere un prodotto non sulla base della sua rispondenza ai bisogni, ma sul fatto che questo è socialmente certificato con l'attribuzione a quel prodotto di un particolare e magari elevato valore di scambio.
    Un esempio lo chiarirà meglio.
    Se io devo andare a visitare una signora una signora che so che ama i fiori, ho due scelte. La prima di andare in un campo e raccogliere i fiori più belli, la seconda ovvia di andare da fioraio e comprarli. Solitamente capita che se io attuo la prima soluzione essa non abbia molto successo, anche se i fiori sono bellissimi, perché dal mazzo semplice che io consegno si capisce che quei fiori di campo non sono stati acquistati e che quindi non hanno alcun valore di scambio, alcun prezzo particolare. Se viceversa io vado da un fiorista caro, pago profumatamente dei fiori anche meno belli, sarò certo del successo perché egli applicherà sui fiori, attraverso la confezione, un marchio che certificherà il loro valore di scambio.
    Quante volte giudichiamo un prodotto mangereccio, un dolce ad esempio, dal marchio più che dal sapore e dalla sua qualità.
    Così un vestito al di là della sua qualità estetica e della sua funzionalità, viene apprezzato attraverso la certificazione sociale del suo valore di scambio, marchio e prezzo. Il fenomeno è talmente esteso che ormai viene giudicata attraverso il parametro «valore di scambio» anche la realizzazione umana e professionale di una persona. Lo stesso può dirsi per l'opera d'arte che vale non per il suo contenuto artistico, ma per il suo prezzo. È diventato infatti merce di investimento.
    Gli esempi potrebbero continuare ben oltre, ma bastano per comprendere cosa intendo con l'affermazione che è tipico del consumismo il valutare il soddisfacimento dei bisogni non attraverso la qualità, il valore intrinseco dei prodotti ma attraverso il loro valore sociale di scambio.

    Prodotti e bisogni al di fuori della cultura della società

    La seconda caratteristica del consumo come circolo vizioso è costituito dalla estraneità di molti prodotti e di molti bisogni indotti rispetto alla cultura della società in cui si svolge.
    Il consumismo infatti è per molti versi figlio di quel fenomeno sociale e culturale che ha investito le società industriali e che da molti studiosi viene definito «universalismo tecnico». Esso consiste nel fatto che le tradizioni culturali locali intorno ai modi di vita, di lavoro, di produzione, di alimentazione, ecc., sono sostituite, in modo a volte drammatico, da modelli «universali» prodotti dalla cultura tecnica o semplicemente industriale. Questo fenomeno che tende a rendere i modi di vita, di lavoro ed alimentari pressoché simili in tutte le parti del mondo, raggiunge lo scopo di sradicare le persone dalla propria terra, dalla propria cultura sociale e quindi dalla propria gente, privandole della loro identità storica. Ogni cultura locale per quanto povera ed arretrata si voglia giudicare, rappresenta il risultato profondo di un adattamento complesso di quel gruppo sociale all'ambiente fisico naturale e di ogni individuo al gruppo stesso. Al di là della maggiore e minore bontà ai fini della crescita umana individuale e sociale di tale adattamento, e che quindi può essere superato con una profonda trasformazione che investa la cultura di quel popolo, resta il fatto che essa garantisce all'individuo umano la propria identità e quindi le radici con il proprio passato, la propria storia con la parte di sé e della sua vita che viene da lontano.
    Il superamento senza continuità della cultura locale, e cioè senza che avvenga attraverso l'evoluzione anche radicalmente innovativa della tradizione locale e quindi lungo le linee della continuità culturale, tende a far ammalare l'uomo contemporaneo, a privarlo di un importante elemento della propria identità e cioè del passato, della cultura di base che costituisce in qualche modo una delle strutture fondamentali della sua personalità.
    Il consumismo gioca pienamente la sua parte in questo sradicamento umano imponendo modi di soddisfacimento dei bisogni primari, tradizionali e nuovi profondamente estranei alle tradizioni ed alle culture locali.
    Ad esempio, il consumo alimentare tende sempre più a divenire universale e a far superare le abitudini alimentari locali tradizionali. Lo stesso vale per il vestire, per la fruizione degli svaghi e dei divertimenti, per i prodotti delle arti maggiori e minori e per ogni produzione culturale in genere. Di fatto questo rappresenta un contributo allo sradicamento umano, un danno all'equilibrio fisico e mentale degli abitanti delle società industriali. Basti pensare alla tanto vituperata e criticata abitudine alimentare mediterranea che il consumismo e la stessa razionalità tecnica che lo appoggia, hanno descritto per lungo tempo come estremamente dannosa per la salute. Oggi scopriamo che l'ultimo convegno mondiale di dietologia l'ha proposta come l'optimum per mantenere una buona salute fisica e realizzare un buon invecchiamento. Lo stesso potrebbe dirsi per alcune spezie e cibi tradizionali che oggi le ultime scoperte scientifiche dicono essere molto validi nella prevenzione di alcuni disturbi.
    Gli esempi potrebbero ulteriormente continuare, ma a me pare che essi in qualche modo già esprimano il rischio, anche per la salute fisica oltre che per quella morale e psichica, di uno sradicamento attraverso il consumismo del ciclo culturale di soddisfacimento dei bisogni e della creazione dei nuovi. Sia chiaro però che questa non vuole essere una difesa acritica, di chi ha il cuore nel passato e non nel presente e nel futuro, delle culture tradizionali, ma solo ricordare che queste culture se sono superate attraverso una loro trasformazione interna sono progresso, se sono superate attraverso il trauma dell'universalismo tecnico, anche solo nella sua variante del consumismo, sono probabilmente un grosso rischio di regressione della condizione umana.

    Il ciclo senza fine: bisogno-consumo-prodotto

    La terza caratteristica del consumismo è la sua capacità di autoalimentarsi, innescare cioè una progressione che tende a sottomettere sempre di più la gente al ciclo, astratto ed assurdo, della produzione-consumo. È una constatazione oramai diffusa che oggi noi consumiamo molto di più non solo di ciò che produciamo, ma anche di ciò che ci è necessario per una vita soddisfacente. Mangiamo di più di quel che abbiamo bisogno e questo oltre a tutto ci fa male, beviamo di tutto, ascoltiamo musica e messaggi di tutti i tipi, vediamo spettacoli, films di tutti i tipi. Passiamo la nostra giornata a consumare cibi, bevande, suoni, immagini, sensazioni in un'orgia di cui raramente riusciamo a cogliere sino in fondo l'esatta dimensione. La nostra vita da questo consumo risulta arricchita solo parzialmente, per molti aspetti viceversa ne riceve un danno. E nonostante alcune volte ci rendiamo conto degli aspetti negativi di questa condizione, non riusciamo a frenare i nostri consumi. Questo aspetto di costrizione e di condizionamento del circolo vizioso del consumismo, oltre ad essere dannoso per chi lo subisce è fonte anche di gravi ingiustizie sociali.
    Infatti a fianco di un'umanità che consuma sempre di più, o comunque al di sopra del necessario, anche le armi, ve n'è un'altra che soffre e muore di fame. Qualsiasi politica di solidarietà non può essere reale se non passa attraverso la rottura della spirale del consumismo, se non c'è una riduzione degli sprechi che esso induce, se non c'è la consapevolezza che il nostro elevato tasso di colesterolo è denutrizione per altri uomini: qualsiasi trattazione intorno al consumismo non deve dimenticare la profonda ingiustizia nella distribuzione dei beni e della ricchezza che esiste ancora nel pianeta terra.
    Ritornando al discorso più spiccatamente antropologico, mi preme sottolineare che questa progressione condizionante della spirale consumista impedisce all'uomo contemporaneo di selezionare i propri bisogni, di coltivarne il soddisfacimento in coerenza ad un progetto di vita, ad una scelta che ha la sua ragione nei valori ideali e culturali. Gli impedisce, o gli rende oltremodo difficile organizzare la propria vita in modo selettivo, in modo cioè che egli possa guidare la propria «alimentazione» fisica, ideale e culturale e quindi di crescere in modo coerente ad un progetto. Di avere cioè un futuro che non sia il risultato degli accadimenti esterni ma che sia legato alla propria volontà ed al proprio progetto di sé. Di essere cioè un po' artefice del proprio destino umano.
    È per questo che il titolo suona «Il consumismo: vivere senza passato e senza futuro».
    Il consumismo, oltre che uno sradicamento dalle proprie radici, dalla propria storia, è anche una chiusura ad un futuro in cui la libertà di scelta umana possa giocare un ruolo: il consumismo come circolo vizioso in cui il presente consuma inutilmente se stesso.


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