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    L'oratorio dei giovani /4. L'apprendimento esperienziale


     


    (NPG 1989-07-28)


    1. La situazione di apprendimento

    L'oratorio imposta se stesso come luogo in cui i giovani, messi di fronte a una situazione concreta, possano esercitarsi a cogliere l'appello che viene dalla situazione, per poi interpretare questo appello e progettare una fattiva risposta, attraversando i vari mondi simbolici che stanno attorno alla vita quotidiana: il mondo della ragione, il mondo del senso e dell'etica, il mondo della fede cristiana e della sua spiritualità. L'intenzione ultima è che il giovane viva in modo sempre più ricco un progetto etico ispirato ai valori assunti consapevolmente nell'attraversare i vari mondi.
    Per arrivare a questo, l'oratorio propone azioni vissute sotto controllo, in modo che i giovani si esercitano a viverle quasi al rallentatore. E così, provando e riprovando certi movimenti quasi su un campo di allenamento, apprendono gli atteggiamenti da esercitare nel dare vita alla vera partita, quella che si svolge fuori dalla mura dell'oratorio. Si procede quindi in modo esperienziale. L'oratorio non offre semplicemente dei messaggi da applicare nella vita quotidiana. Non si limita a offrire delle reti concettuali, a formare delle buone teste, a maturare delle mentalità. Offre invece messaggi che vengano già applicati in esperimenti da laboratorio. L'insistenza su questi esperimenti va chiarita. Quel che si vive qui-ora e dunque quel che si apprende può essere chiuso in se stesso. E una esperienza a termine. Non è questa l'intenzione dell'oratorio. Esso vuol far vivere esperienze che siano significative per la vita quotidiana, attraverso un'azione di transfer: quel che vivo qui-ora mi trasforma e posso imparare a riprodurlo creativamente anche in altri contesti. Dietro l'attenzione alle esperienze concrete sta anche un'altra intuizione.
    L'animazione parte dal principio che ogni azione personale è determinata dall'insieme delle relazioni che ora si stanno vivendo. Essa interviene nella situazione concreta, sulle relazioni che la determinano, in modo da consolidare qualcosa che è poi utilizzabile nella vita quotidiana. Nel dar risposta a un concreto problema si offrono le energie che permettono di fare nuove scelte e imparare a vivere in modo diverso.
    Il soggetto di tale esperimento di laboratorio non è il singolo, ma sempre l'insieme delle relazioni in cui qui - ora vive. Come i problemi hanno avuto origine da relazioni sbagliate o dalla mancanza di relazioni, così ogni nuovo apprendimento vede come terreno di intervento la relazione tra le persone. L'animazione lavora così, scegliendo come unità di base le relazioni, quelle tra educatore e giovani, quelle tra gli stessi giovani nel gruppo e nell'intero oratorio.

    LE RELAZIONI QUOTIDIANE E LE ATTIVITÀ DI ANIMAZIONE

    All'oratorio la relazione tra adulti e giovani prevede due grandi modalità strettamente connesse: le relazioni quotidiane faccia a faccia (o autocomunicazione) e le relazioni mediate dalle attività formative.

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    I due tipi di relazioni danno origine alle due grandi modalità di intervento dell'animazione: l'intervento centrato sulle relazioni e l'intervento centrato sull'attività.
    L'oratorio valorizza il rapporto diretto, faccia a faccia. Si parlava una volta del metodo del cortile, cioè di una formazione che avveniva nella vita quotidiana, seduti sulla classica panchina a chiacchierare, ai bordi del campo dove altri giocano. L'oratorio conosce l'amicizia, il discorrere del più e del meno, lo stare insieme per il gusto di stare insieme. Non è un perdere tempo, un dimenticare tante cose serie che ci sono da fare.
    Il cortile o il vita di ogni giorno, con il moltiplicarsi dei rapporti e dei conflitti, dell'accoglienza e del rifiuto, ha una grande importanza all'oratorio e chiede all'animatore e ai vari responsabili di essere il più possibile presenti tra giovani (una volta si parlava di assistenza).
    La caratteristica di queste relazioni quotidiane è di essere una comunicazione che nasce dal «noi» (il gruppo, l'oratorio) e tende a esaurirsi nel «noi». È una auto-comunicazione: una comunicazione rivolta a se stessi.
    Si parla a se stessi, all'interno del gruppo o dell'oratorio. Non è importante quello di cui si parla, ma il parlare tra di noi. Si parla di tutto, senza badare al «di cosa» si parla, bensì al «come» si parla. Ogni informazione infatti viene caricata di una qualità particolare. Non si capisce l'informazione sfugge il segreto di questa qualità aggiunta: la fede nella vita condivisa nella gioia e nell'entusiasmo di intuire che la si condivide e che questo incoraggia tutti a vivere. La qualità aggiunta è la condivisione dei valori di senso, la conferma delle persone come esistenti, l'affermazione di una profonda solidarietà. Di qualunque cosa si parli, la qualità aggiunta, quella che in fondo spiega l'informazione, è identica.
    Lo sviluppo dell'autocomunicazione porta a condividere simboli e immagini, racconti e rituali che sono specifici del gruppo e dell'oratorio. Si rafforza lo spirito di gruppo, l'appartenenza all'oratorio; si crea tradizione nel nome dei valori dell'oratorio. È una comunicazione con un forte potere sulle persone, che vengono spinte ad aderire con entusiasmo ai valori. I valori non sono visti dall'esterno, lontani da sé, ma come qualcosa di personalmente coinvolgente e significativo.
    Ma l'oratorio non punta solo sulle comunicazioni quotidiane. Punta anche allo sviluppo di relazioni tra i giovani e gli adulti mediato dal fare, agire, operare finalizzato. Si parla in questo caso di gruppo centrato sull'azione.
    L'azione coinvolge l'uso di mezzi e di strumenti, di tecniche e di manufatti che entrano in tal modo nell'ambito del processo formativo.
    In tutti gli strumenti sono depositati nuclei di cultura umana e religiosa. Usare strumenti è apprendere i valori che in loro si nascondono, creando possibili conflitti tra gli strumenti utilizzati e gli obiettivi formativi che si intende perseguire.
    Dire attività è dire l'aspetto esterno di quel che si fa. Va invece sottolineata anche la riflessione, la ricerca intellettuale che questa comporta, prima, durante e dopo. L'attività formativa è l'insieme di azione e di riflessione sull'azione.
    Il gruppo è formativo se sa centrarsi sia sulla relazione che sull'azione, in modo che il legame e lo scambio tra le persone prosegue oltre le attività, per il gusto di ritrovarsi a parlare con convinzione di quel che si vive come un insieme. Si comprende perché i gruppi oratoriani non possano essere gruppi solo di azione, dove le attività (fossero anche di volontariato) si susseguono, con ritmo frenetico, per poi separarsi appena queste sono terminate.

    L'APPRENDIMENTO TRA PARTECIPAZIONE E OSSERVAZIONE

    Sia le relazioni quotidiane che l'azione formativa sono luogo di intervento formativo. Ogni intervento è articolato in due momenti: la partecipazione e l'osservazione.
    Il momento della partecipazione è il coinvolgimento immediato, pratico, attivo, fortemente emotivo nella relazione oppure nell'attività educativa come può essere il gioco o una raccolta- carta.
    Il fare e lo stare insieme sono fortemente formativi perché ci si scambia, quasi sempre in modo implicito, i valori alla base della fede nella vita e perché si entra in contatto appassionato anche se emotivo con informazioni, modelli di vita, valori culturali e religiosi.
    L'oratorio educa nel momento in cui aiuta i giovani a organizzare attività stimolanti che sappiano di avventura, che coinvolgano emotivamente e creino una intensa comunicazione faccia a faccia tra le persone, senza la paura dei conflitti, delle liti e dei bisticci, delle lotte fra gruppi, della stessa contestazione all'animatore o anche del suo coinvolgimento in quel che si fa. L'animatore si coinvolge, vive a fianco dei giovani, suda nel far la raccolta-carta, cammina con loro per i sentieri di montagna.
    Ma per fare animazione questo non è sufficiente. Occorre passare dalla partecipazione alla osservazione.
    L'osservazione distaccata e la riflessione pacata permettono di mettere in luce, evidenziare, discutere valori ormai condivisi, passando da una accettazione emotiva a una accettazione critica, da un atteggiamento viscerale a una revisione sulla base di valori esplicitamente proposti, discussi, riconosciuti. Senza l'alternarsi di questi due momenti, l'animazione non realizza il suo metodo di apprendimento esperienziale.
    Esaminiamo ora prima un processo di animazione legato a un evento relazionale e dopo uno legato a una azione o attività formativa.


    2. L'intervento centrato sulla relazione

    Il primo modello di intervento è relativo alle relazioni interpersonali. Si possono immaginare alcune situazioni del gruppo, alcune problematiche (un conflitto di potere, la lotta tra sottogruppi), altre positive (una festa riuscita). Intervenire in termini formativi cosa può significare? Ci sono alcuni interventi che l'animazione rifiuta.
    L'animazione rifiuta un intervento che cerca di dare una risposta in termini manipolatori.
    Si parla di manipolazione, quando l'animatore o altra persona partecipe della situazione tratta un altro come un oggetto o un mezzo da utilizzare, da forgiare secondo il proprio punto di vista. In questo caso si manipola o si cerca di manipolare i singoli o il gruppo.
    Di diverso tipo è l'intervento cosiddetto di identificazione: è un intervento in cui l'animatore non ascolta con aria distaccata, ma prende su di sé il problema e lo soffre interiormente. Entra in una relazione di profonda empatia e condivisione con i giovani. Sente il bisogno di lasciarsi coinvolgere dai loro problemi. Vuol conoscere non in forma fredda ma per identificazione.
    Si parla dunque di identificazione quando un animatore o un'altra persona in una relazione si adopera per stabilire una relazione simmetrica o di reciprocità, cercando prima di tutto di comprendere il punto di vista degli altri e pensando successivamente il proprio agire alla luce di questa comprensione.
    In questo caso si annulla la separazione, la distanza, la freddezza e ci si coinvolge emotivamente. Si vedono i problemi dalla parte dei giovani, ci si lascia interrogare a lungo dalla loro sofferenza, si cercano nel proprio intimo esperienze analoghe a cui fare riferimento, perché non si può capire se già non si è sofferto qualcosa del genere.

    L'OSCILLAZIONE TRA IDENTIFICAZIONE E SEPARAZIONE

    Tuttavia questo non è sufficiente per descrivere l'intervento di animazione.
    L'intervento prevede non solo l'identificazione reciproca. Intervenire in termini educativi è favorire un apprendimento, un cambiamento, un'evoluzione di una situazione problematica. Soffrire insieme non basta. Occorre individuare una strada, una via d'uscita.
    Bisogna evitare sia la identificazione apparente che quella totale.
    Nel momento in cui la risposta viene data dall'animatore, come uno specialista che si è identificato nei problemi e ora risponde alla luce della sua competenza e dei suoi sistemi linguistici e della sua concezione di vita, si è di fronte a un intervento in cui l'identificazione è solo apparente.
    Non ha senso però una identificazione totale tra animatore e giovani, quando, per tener conto del punto di vista dei giovani, l'animatore trascura o nega il proprio.
    La identificazione totale finisce in un duplice burrone. Il più evidente è che l'animatore rinuncia alla parola. Perde la sua autonomia, è prigioniero del gruppo. Il secondo burrone, più subdolo, è l'annullamento dell'autonomia dei giovani. Il rischio è il plagio: i giovani cadono in una situazione di fusione o assimilazione al modo di pensare e fare dell'animatore.
    Deve invece prevalere un'identificazione operativa, capace di articolare il rapporto tra identificazione e separazione.
    È il giovane che per maturare una sua identità ha bisogno di identificazione e di separazione, di coinvolgimento e di distanza o distacco dalle situazioni di apprendimento. La sua crescita avviene attraverso una continua oscillazione tra il polo dell'identificazione e il polo della separazione. Quando oscilla verso la separazione ritrova autonomia, libertà, possibilità di rielaborazione personale.
    L'oscillazione, se si svolge in modo ritmico, non comporta rifiuto dell'animatore ma criticità, autonomia di giudizio. Tutte premesse per una identificazione fondata sul riconoscimento della diversità, sul rispetto della libertà.

    L'entrata in una nuova relazione

    Come garantire l'identificazione e la autonomia reciproca?
    L'animazione, mentre propone ai giovani di intessere e vivere «dentro» relazioni coinvolgenti, abilita i giovani a intervenire «sulle» relazioni.
    Si attua un intervento di animazione quando di fronte a un conflitto non ci si schiera e neppure si danno giudizi o soluzioni («fate così»), ma si convince tutti a sospendere la relazione in atto, fermarsi almeno per un attimo e accedere a un livello diverso: la comunicazione sulla relazione. Non si colpevolizza, non si mette sotto processo, non si danno giudizi su quel che avvenuto.
    Si propone a tutti di considerare quel che accade come un «problema».
    Certo il problema o conflitto rimane complicato e di difficile soluzione. Ma si è messo termine a un tipo di relazione e si entra in una nuova relazione.
    In questo modo si passa dall'azione immediata (vivere nella relazione) alla osservazione (riflettere e intervenire sulla relazione).
    Nel momento in cui ci si pone nell'ottica di risolvere in generale un problema, si esce dalla relazione manipolatoria e insieme si entra in una relazione identificatoria in cui ognuno cerca di mettersi nei panni dell'altro e ne ascolta le ragioni.
    Ora si agisce tutti insieme sulla relazione, non dentro la relazione. La domanda è: «cosa sta succedendo tra noi?».
    Dal conflitto si passa all'identificazione, dalla relazione si passa al problema o compito da risolvere insieme.

    La ricerca di criteri di interpretazione e cambiamento

    Diventa possibile specificare ulteriormente qual è l'intervento dell'animazione: fare animazione è aiutare i giovani come gruppo o intergruppo a vivere esperienze soggettivamente emotive e coinvolgenti come «partecipanti», per poi comunicare su quel che è avvenuto assumendo il ruolo non più di «osservatori».
    Prima l'animatore partecipa alla relazione conflittuale identificandosi (cioè entrando in relazione empatica con quel che si vive), poi esce dalla dimensione di partecipante e si pone come osservatore e invita anche gli altri a diventare osservatori, stabilendo una nuova relazione fra tutti, finalizzata a un obiettivo esterno: al nuovo rapporto che si sta vivendo. Gli interventi sulla relazione trasformano una relazione conflittuale in un compito comune, dove si interpreta il comportamento della relazione per cercare come può essere modificata. Non si vogliono modificare le persone e imporre loro il proprio punto di vista, ma modificare le caratteristiche delle relazioni. Inizia una ricerca comune. Ognuno ha un suo punto di vista ed è giusto che Io offra.
    Nell'uscire dalla relazione in atto e accettando di comunicare «sulla» relazione (e tutti i problemi sono di relazione) si passa da un modo di conoscere a un altro.
    Nella relazione immediata si attua una conoscenza per identificazione e partecipazione, centrata sullo scambio di emozioni e sensazioni, sulla comunicazione inconscia e simbolica, sull'osmosi valoriale intima e non controllata.
    Compito specifico dell'animatore è incoraggiarsi a comunicare su quel che si è scambiato, facendo prevalere la presa di distanza, il giudizio critico, la riflessione logica.
    Se la relazione era il compito passionale ed emotivo, coinvolgente e affascinante, ora è il momento della riflessione distaccata, della logica. Tutti propongono i loro punti di vista e i criteri e valori di riferimento, perché siano utili alla soluzione del problema o alla valutazione dell'azione con la libertà di accettarli o no, anche se la situazione emotiva di attenzione reciproca crea una pressione all'accettazione.
    Lo stesso animatore propone il suo punto di vista, sulla base della sua esperienza e competenza. Non si nasconde come uno dei giovani. Se ha informazioni da giocare, valori e criteri da offrire, ora lo può fare in una situazione che è asimmetrica. Gli si riconosce la sua esperienza e il suo bagaglio culturale, la sua fede evangelica e la sua esperienza di senso.
    Si comprende cosa vuol dire che le informazioni vengono date legate a problemi vissuti insieme e sperimentati nel raggiungimento di obiettivi da tutti riconosciuti. In questo modo si impara dall'azione e dalla relazione vissuta, dalle quali ci si distacca per osservarle insieme.
    Vale il principio che si può imparare qualcosa su un'esperienza solo quando la si è già vissuta.
    Molto del lavoro di animazione non è allora attivare relazioni e organizzare attività, ma aiutare a passare da partecipanti di relazioni e attività a osservatori di relazioni e attività.
    Quando offre i suoi valori, l'animatore lo fa in modo appassionato (ci crede per davvero) ma distaccato, perché non è il momento dell'emozione, ma della riflessione e della scelta critica. Non cerca di ricattare i giovani con la scusa che quanto dice è per il loro bene. In questo caso usa il credito acquistato nella relazione identificatoria per ristabilire una situazione autoritaria. Non ritiene il suo punto di vista come quello giusto e valido anche per gli altri.
    L'animazione rimane fedele al principio di P. Freire: nessuno educa nessuno; nessuno educa se stesso; ci si educa tutti insieme. Tutti e l'animatore in particolare facilitano che ognuno apprenda da sé, nel contesto dell'osservazione, della propria esperienza e secondo il proprio punto di vista, contribuendo soltanto a favorire le condizioni di apprendimento adeguate. In questo modo l'animazione raggiunge il suo obiettivo di rendere ogni giovane e ogni gruppo soggetto attivo, consapevole e partecipe della sua formazione.


    3. L'intervento centrato sulle attività

    Dopo aver riflettuto su un modello di intervento centrato sulle relazioni personali, è possibile approfondire un modello di intervento centrato invece sulle attività formative.
    L'attenzione all'azione è giustificata dallo specifico modo giovanile di «apprendere facendo», ma anche dalla finalità generale di abilitare a vivere, quasi al rallentatore e sotto controllo del giovane, azioni che permettano di sperimentare circuiti sempre più ricchi in cui collocare l'appello della situazione e la risposta personale per poi trasferire quanto si è appreso alla vita di ogni giorno fuori dall'oratorio.
    L'animazione intende trasformare ogni attività o azione all'oratorio in un'esperienza formativa.
    Il metodo dell'oratorio è esperienziale.

    LA PRESA DI DISTANZA DA ALTRI MODELLI

    Il modello esperienziale si diversifica da altri modelli.
    L'oratorio rifiuta ogni modello di apprendimento di tipo meccanicista, in cui il giovane è passivo ed eterodiretto. Egli deve limitarsi ad assimilare un sapere trasmesso in modo oggettivo, meccanico o idraulico, senza alcun controllo positivo su quanto accade, anche se magari ne è consapevole.

    L'apprendimento meccanicista

    C'è apprendimento di tipo meccanico quando, ad esempio, si fa perno sul condizionamento dei giovani attraverso la ripetizione di abitudini e l'uso di rinforzi positivi (premi) e/o negativi (castighi). In questo caso si chiede al giovane di prendere parte alle attività, di non sottrarsi, di essere fedele. Si punta sull'ottenere alcuni comportamenti piuttosto che altri e, perlopiù, in modo immediato. Si offre sicurezza quando si adeguano ai comportamenti richiesti, mentre si isolano i devianti. La fiducia formativa più che sulle persone e sulla loro capacità di scelta è giocata sulla forza condizionante e formativa dell'azione per se stessa.
    Questo apprendimento, per quanto lento, è capace di innescare nuovi modi di pensare, relazionarsi, agire. Ma avviene secondo procedimenti che ledono la libertà. Il giovane non ha alcun controllo sul processo.
    Di tipo meccanicista è anche l'apprendimento per influenzamento. Avviene quando si verifica un processo di identificazione totale nei confronti di un leader carismatico, di un ambiente, di un quadro ideologico, al punto da rischiare il plagio. L'apprendimento avviene per pressione dall'esterno sull'individuo .
    Sempre in ambito meccanicista viene rifiutato il modello per trasferimento passivo di informazioni. Fare formazione è pensato come studiare e memorizzare i documenti del passato ma anche del presente per maturare schemi concettuali da applicare poi nella vita quotidiana. L'oratorio non misconosce l'importanza dell'apprendimento del grande patrimonio culturale e religioso dell'umanità, ma non lo riduce ad apprendimento ridotto a fare lezioni e studiare documenti.

    L'apprendimento pragmatico

    L'oratorio rifiuta anche i modelli di apprendimento pragmatico che si riducono al fare, al pratico operare e basta, anche se questo operare e queste attività sono gestite direttamente dai giovani. Non basta che i giovani siano attivi perché ci sia formazione. Chi lo crede, si illude che l'azione per se stessa abbia la capacità di aprire nuovi orizzonti e trasformare le persone. Certamente per l'oratorio il fare è indispensabile perché è un modello di apprendimento che coinvolge tutto il giovane e scatena tutte le sue energie. Tuttavia prende le distanze dal fare ridotto ad azione partecipante, senza alcuna azione osservante. Il modello pragmatico coinvolge il giovane, ma non lo responsabilizza in modo adeguato per avere il controllo dell'apprendimento.

    L'apprendimento riflessivo

    D'altra parte l'oratorio prende anche le distanze da modelli di apprendimento riflessivo. Con questo termine intendiamo quei modelli che danno scarso rilievo all'esperienza concreta. Il luogo dell'apprendimento è l'attività interiore, il ri-piegarsi su se stessi, le decisioni intime, lo scandagliamento del mistero della persona e della vita, in tempi e spazi che sono di allontanamento se non di fuga della vita quotidiana. In fondo ciò che è materiale non permette la ricerca di ciò che è spirituale. Di qui il moltiplicarsi di momenti di silenzio e di preghiera, di tecniche di meditazione profonda, di una meditazione che riduce il testo biblico ad occasione per immergersi in mondi intimi, dimenticando gli stessi contenuti «storici» della parola di Dio. Apprendere è esplorare il profondo.

    I DUE MOMENTI DELL'APPRENDIMENTO ESPERIENZIALE

    Non ogni azione che si vive all'oratorio è esperienza. Lo diventa se la si vive percorrendo una determinata sequenza di apprendimento che ricalca il modello già delineato per le relazioni come passaggio da una azione partecipante ad una azione osservante.
    L'azione partecipante è l'azione che si svolge: un incontro di preghiera, un recital, una partita di calcio. L'oratorio procede per attività concrete.
    L'azione partecipante è tale se risulta come un piccolo programma d'azione, inserita nel più vasto progetto di animazione. Non qualsiasi azione affidata al caso è azione partecipante, ma un'azione a cui si imprima una particolare intenzionalità.
    Partecipante vuol dire: coinvolgente, affascinante, capace di soddisfare le attese e domande, identificatoria.
    L'azione osservante si attua una volta che l'azione concreta volge al termine ed è un momento di ritorno o ri-flessione su di essa per trarne, in modo creativo, gli apprendimenti che si sono già interiorizzati in modo implicito.
    L'esperienza formativa può essere rappresentata da due circoli: il circolo dell'azione partecipante e il circolo dell'azione osservante.

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    L'AZIONE PARTECIPANTE E IL SUO PROGRAMMA

    L'azione formativa è sempre espressione di un programma d'azione che attualizza un progetto formativo di ordine più generale che tocca l'oratorio nel suo insieme e l'intera vita del gruppo.
    Indichiamo successivamente le fasi principali di un programma d'azione.
    Un'azione può nascere in modo occasionale da un bisogno, da una domanda, da un problema che si pone dentro il gruppo e l'oratorio o anche fuori.
    L'ambiente non offre ai giovani solo domande. Offre informazioni ed energie, modelli di vita e di valore. E offre norme e regole per rispondere al bisogno, canalizzarlo, esaudirlo in modo significativo ed efficace. Fin dagli inizi dell'azione viene a stabilirsi un intenso fascio di comunicazioni bidirezionali fra ambiente, giovani e oratorio immaginato come sistema aperto che considera di vitale importanza lo scambio con l'ambiente. Il punto d'arrivo è la presa di coscienza del problema e delle sue sfide.
    La fase seguente è lo scatenamento del sogno dentro il gruppo. Prima di chiedersi che cosa fare, il gruppo rinnova il suo sogno, si collega all'utopia che lo anima, scatena la sua immaginazione. Se non si alimenta al sogno (e dunque al suo credo) il gruppo si appiattisce sull'attivismo, ma non matu ra un atteggiamento progettuale.
    Alla luce del sogno, il gruppo ora cerca una risposta elaborando un programma. Ci si immerge in una ricerca creativa: si inventano sequenze d'azione.
    I programmi d'azione, ancor meno del progetto complessivo dell'oratorio, non possono essere dati ai giovani già confezionati. Cosí si blocca la dinamica formativa che proprio il preparare il programma scatena a livello di interazioni tra persone e gruppi e a livello di contatto con informazioni culturali e religiose.
    Chiedersi «che fare?» significa aprirsi al confronto. Esistono numerose alternative e per ognuna, al di là del fascino, ci si chiede se risponde al problema, in che modo attualizza il progetto dell'oratorio e quali sono le conseguenze a breve e a lungo termine.
    Man mano che ci si orienta a un'azione vengono cosi a delinearsi gli obiettivi che si intendono perseguire. Fare programmi è agire per obiettivi, abituarsi a un agire finalizzato. La ricerca di obiettivi porta poi a cercare alcuni valori di riferimento e dei criteri d'azione culturali e religiosi.
    Dalla messa a fuoco degli obiettivi si passa alla configurazione dell'azione, individuando da una parte la strategia e dall'altra i mezzi.
    Una strategia indica come organizzarsi per realizzare l'azione. Il gruppo non lascia l'azione all'improvvisazione. Favorisce lo scambio critico per distribuire il programma in fasi e tappe, indicando i ruoli e i compiti di ognuno, le alternative qualora una strada si rivelasse infruttuosa.
    Delineare la strategia operativa è proseguire quel lento lavoro che porta il gruppo a far esplodere il conflitto tra ciò che si vorrebbe o dovrebbe fare e ciò che si può effettivamente fare, tra ideale e reale, tra sogno e realtà. Il passaggio all'azione implica quindi una crescita di realismo, ma di un realismo che si nutre del sogno e dell'utopia del gruppo e dell'oratorio.
    Si individuano ora i mezzi e le tecniche per dare vita all'azione.
    L'oratorio non si chiude all' interno, ma entra in contatto con l'ambiente circostante, dove la cultura umana ha elaborato mezzi, strumenti, tecniche.
    Non inventa da capo la pallacanestro o come allenarsi a giocarla. Non inventa come aiutare gli anziani soli. Ogni azione rimanda alla società e alla cultura per cercare i mezzi per realizzarla.
    Finalmente ha inizio l'azione concreta. Ora il gruppo vive un momento stimolante, si coinvolge emotivamente, entra in contatto con nuove situazioni, sperimenta conflitti e sintonie all'interno.
    Dell'azione partecipante fa parte anche l'impegno di controllo immediato nello svolgimento effettivo, per verificare se risponde agli obiettivi.
    Non sempre l'azione si indirizza verso l'obiettivo fissato, spesso devia e, come un fiume in piena, si cerca nuovi alvei. Animare è abilitare i giovani a controllare continuamente l'azione nel suo svolgimento e a verificarne al termine la rispondenza rispetto agli obiettivi precedenti.

    IL CIRCOLO DELL'AZIONE OSSERVANTE

    Se non si passa all'osservazione-riflessione sull'azione, si disperdono i valori e modelli di vita scambiati e interiorizzati in un clima di intensa emozione e coinvolgimento.
    Per l'animazione non è sufficiente sapere; è necessario sapere di sapere, sapere in modo esplicito e critico quanto si è appreso.
    Non basta acquisire, occorre rielaborare. Solo in questo modo essa abilita a un'operazione indispensabile: il transfer, cioè la capacità di tras-portare in modo creativo in altre situazioni e contesti quanto si è appreso in un'esperienza.
    Per fare questo il gruppo sposta il suo centro d'interesse. Se finora erano le cose da fare, ora l'attenzione si sposta sul vissuto personale.
    Se il momento partecipante vedeva il gruppo proiettato verso l'esterno, quello osservante porta il gruppo a concentrarsi al suo interno.
    Il gruppo sospende l'attività e accetta di riflettere sulle relazioni che si sono vissute e sui contenuti scambiati in modo emotivo e implicito.
    Compito specifico dell'animatore è aiutare il gruppo a salire al livello dell'operare «sulle» relazioni vissute e «sui» contenuti o valori scambiati.
    È il momento classico della riunione. Non si valuta il risultato né si riprogramma l'azione, aggiustando il tiro. Questo è ancora muoversi nell'ambito dell'azione partecipante. Qui invece si comunica sull'azione.
    Il gruppo si separa dall'azione concreta e vi riflette sopra. Ognuno viene esortato a riprendere la sua autonomia di pensiero, giudizio e parola, sviscerare le cose in modo consapevole e critico.
    Il lavoro di animazione prevede in questa azione osservante alcune fasi.

    La riflessione

    Dopo aver ricordato l'azione vissuta insieme nei suoi momenti esaltanti o problematici, si passa alla riflessione.
    Non ci si chiede più «che fare?», ma «cosa abbiamo vissuto»: come è andata l'azione e come la si è affrontata personalmente, cosa ha insegnato, cosa si è appreso, in che cosa si è cambiati e maturati, cosa è rimasto problematico?
    Riflettere è un'operazione che rimanda al linguaggio logico-razionale.
    L'azione vissuta non diventa esperienza fino a quando il gruppo non riesce ad appropriarsene in termini linguistici adeguati. La riflessione, mediata dal linguaggio razionale, permette al fare esperienza di assurgere dalla semplice sensibilità e materialità, per radicarsi nel vissuto personale, del gruppo e dell'oratorio.
    La riflessione è una interpretazione che si propone di scoprire e liberare i valori e i contenuti culturali e religiosi nascosti in ciò che si è vissuto. Riflettere è di svelare e illuminare ciò che nell'azione è dato in modo immediato, e provare a dire in termini razionali quanto prima si era toccato con mano in modo concreto.

    L'evocazione

    Nel riflettere non ci si riferisce solo all'azione vissuta qui-ora. Il gruppo evoca la sua storia, le sue passate esperienze, i valori in cui ha creduto e che forse sono stati messi in discussione dalla nuova azione. In altre parole, ci si collega alla memoria del gruppo e a quella dell'oratorio.
    Ognuno nell'agire ha provato a incarnare valori e a esprimere la propria fede. Ora questa fede e questi valori vengono riconosciuti, messi in comune e confrontati per proclamare la sensatezza di quanto si è vissuto.
    Il collegamento con le esperienze passate porta più da vicino a rapportare i valori con quel che si è riusciti a fare. È facile cogliere la discrepanza tra ideale e reale, tra sogno e realtà. L'utopia in cui si crede e la fede che anima i membri del gruppo, offrono un giudizio a volte duro sull'operato.
    La ricerca appella alla coscienza di gruppo e a quella personale. Non si impongono interpretazioni, ma si suscita la responsabilità personale, facendo interagire il proprio passato e il presente.
    Il collegamento con la memoria del gruppo e la sua fede permette anche di dare spazio a brevi evocazioni narrative della fede cristiana. Anche se è breve, è un momento intenso, fortemente significativo, perché viene a «ricucire» insieme la storia personale e di gruppo con il racconto evangelico che annunzia la salvezza, che per dono di Dio in Cristo e per la libera collaborazione dell'uomo si è sperimentata pur in mezzo alla povertà che accompagna ogni umana attività. Il vangelo illumina, interpreta, giudica, costringe alla ripresa. È spada che taglia e balsamo che conforta.

    La scoperta

    La scoperta è un momento creativo, punto di arrivo di quella che ora comincia a diventare una vera esperienza formativa. Ha per oggetto i valori nuovi o vecchi affermati, soprattutto il convincimento intimo personale. Certi valori non li si crede piú in astratto, ma perché il cammino percorso ha offerto un intimo convincimento. Si conosce per esperienza: «ora capisco, ne sono convinto!»
    La scoperta non nasce da improvvisazione. Matura invece, nell'esame calmo e appassionato di due serie di dati (le domande soggettive, e il senso e il valore offerti dall'azione) per cogliere le connessioni. Se i dati soggettivi e quelli offerti nell'azione entrano in sintonia e si illuminano reciprocamente, il giovane arriva alla scoperta dei valori nascosti nell'azione.
    La scoperta è un momento collettivo e insieme personale. È un evento collettivo, a cui il gruppo si appassiona e a cui arriva, alla luce dei grandi temi generatori dell'animazione.
    Così vista, la scoperta non è riducibile a un abbandono all'emotività o al coinvolgimento in un qualcosa che influisce togliendo la libertà. È invece il momento supremo della libertà personale. Si radica in uno scambio silenzioso nell'azione concreta, ma matura solo nell'azione osservante vissuta in gruppo. Non è l'azione da sola che è convincente, ma l'azione illuminata e interpretata da valori e racconti, e dallo stesso vangelo.

    La rielaborazione

    La rielaborazione riguarda la scala dei valori condivisa come gruppi e come singoli. L'esperienza formativa può confermare come mettere in discussione la scala dei valori in cui si crede. Ogni esperienza comporta un cambiamento di «mentalità», di modi di pensare e di valutare, di progettare e di agire. Se l'evocazione aveva fatto entrare in sintonia valori personali con valori insiti nell'azione, ora se ne traggono le conclusioni.
    I nuovi contenuti o valori pretendono di entrare a far parte del credo del gruppo, del suo patrimonio e della sua memoria. Cercano di integrarsi con quelli precedenti, oppure li sconvolgono provocando la ricerca di una nuova scala di valori.
    Nella rielaborazione valoriale il gruppo può aver bisogno di un forte input culturale e religioso, cioè di nuove informazioni che possono richiedere confronto con esperti, studio di documenti. L'animatore sollecita a sistematizzare, integrare, senza limitarsi ad ammucchiare in modo confuso o sovrapporre valori e affermazioni contraddittorie.
    La rielaborazione richiede anche di ripensare al modello di vita che si vive nel quotidiano. L'esperienza cerca di allargarsi e trasferirsi alla vita quotidiana. Quello che era profezia vissuta nell'azione singola non può essere portato di sana pianta nella vita quotidiana. Eppure indica alcuni cambiamenti da apportare al modo di progettare e organizzare nel modo quotidiano di vivere.
    Impegnandosi in questa direzione il gruppo apprende a chiudere il circuito di ogni azione che dall'appello va alla risposta attraverso il passaggio obbligato di un progetto etico. In questa fase dell'azione osservante si rielabora pertanto il progetto etico.

    La celebrazione

    Un ulteriore punto di arrivo è l'espressione simbolica dei nuovi contenuti e valori appresi. Avviene in un gesto, in un simbolo, in un credo. Trova la sua collocazione entro una celebrazione dell'azione. Si fa festa per quel che si è vissuto e si celebra, nella preghiera o nell'eucaristia come anche nella riconciliazione, l'evento salvifico vissuto.
    Nella fase di celebrazione il gruppo esalta quel che ha scoperto e conquistato, riconosce che la vita è pervasa da un «dono» misterioso che previene ogni umana iniziativa e spinge ad avere fede nella vita perché Dio sta nella parte dell'uomo e della sua felicità.
    L'azione porta il gruppo a riscoprire tradizionali gesti e simboli religiosi. È facile entrare nel mondo dell'eucaristia al termine di una attività di volontariato che ha richiesto le energie di tutti e che ha coinvolto in una esperienza esaltante. Forse per la prima volta si riesce a far entrare in sintonia il proprio vissuto con quello degli altri e soprattutto con quello di Gesù di Nazaret.
    Se in alcuni casi il gruppo riscopre l'eucaristia e gli altri simboli religiosi, in altri sente il bisogno di inventarne di nuovi. Quando si ripete il gesto, si scatena l'energia che vi si era immessa la prima volta.
    Dentro la celebrazione trova il suo contesto più naturale la narrazione della fede cristiana. Dire narrazione è dire racconto di una salvezza che si è compiuta e si compie sotto i propri occhi.


    T e r z a
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