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    Utopia cristiana, educazione, futuro



    Angelo Scivoletto

    (NPG 1988-1/2-49)


    I giovani sappiano che il mondo esisteva prima di loro e i vecchi sappiano che continuerà ad esistere dopo di loro: la sorridente ironia di questo pensiero, espresso da Papa Giovanni, ci aiuta a metterci di fronte ai complessi interrogativi contemporanei con animo non sgomento, ma fiducioso, con attenta intelligenza, con perdurante meraviglia per il «viaggio» dell'uomo attraverso il mistero dell'esserci e del tempo.

    UN VIAGGIO DI CIVILTÀ CARICO DI INCOGNITE

    Tutto sembra confermare che il viaggio della civiltà umana, pur carico di incognite e in costante condizione di fragilità, prosegue lungo le linee della conoscenza scientifica e dell'espansione tecnica.
    L'uomo, infatti, da una parte si protende indefinitamente nello spazio, dall'altra si scopre manipolatore genetico, arbitro di vita o di morte.
    Ciò per riferirsi ad alcuni paradigmi, tra i più vistosi, del progresso umano.
    Essi si collegano alla immensa rete di acquisizione che sono ormai la fonte quotidiana della crescente trasformazione della mentalità collettiva, non solo nei Paesi avanzati, ma anche, in certa misura, nei Paesi in via di sviluppo.
    È vero che il numero delle centrali che governano i fenomeni della modernizzazione è sproporzionatamente esiguo in confronto ai miliardi di uomini che popolano la Terra, ma da quei «vertici» giungono gli effetti che vanno irreversibilmente modificando e riorganizzando la «figura di questo mondo».
    Di riflesso, anche se l'uomo è sempre identico e riconoscibile pur nel variare delle sue espressioni storiche, sembra che quella modificazione di ambiente tecnico-culturale possa decisamente condizionare o coinvolgere, nel soggetto, sensazioni, percezioni, giudizi, sentimenti, desideri, progetti, relazioni.
    L'homo viator è alla ricerca di nuovi approdi non solo nel cosmo che si slarga ai suoi occhi, ma anche all'interno di se stesso, non meno vasto, quasi un abisso. Kant disse di «due cose» che lo riempivano di alta meraviglia: il cielo stellato e la legge morale.
    Oggi la meraviglia si rinnova, appunto, anche per la possibilità aperta all'uomo di «passeggiare nello spazio» o di discendere nella profondità dell'io.
    Tale rapporto tra durata interiore del soggetto e condizionamento ambientale va certamente riconosciuto, ma si deve evitare l'equivoco catastrofista di chi teme la debilitazione automatica o il rimpicciolimento dell'uomo o la metamorfosi della sua identità di fronte all'accrescimento tecnologico del mondo.
    Se così fosse, paradossalmente, saremmo alla vigilia della scomparsa dell'uomo e di tutti i suoi problemi o, più fantasiosamente, gli uomini delle aree arretrate assisterebbero al declino degli uomini delle aree avanzate e rinunzierebbero, con necessaria virtù, a ogni idea di progresso, se questo dovesse davvero capovolgersi in inevitabile disastro della soggettività e della libertà.
    Queste ipotesi (perché di pure ipotesi si tratta) sono certamente alquanto strane e anche assurde, e ciò vuol dire che, nonostante tutto, è ben presente nell'uomo il valore dell'uomo.

    Un destino nelle mani dell'uomo

    È chiaro allora che i processi educativi si caratterizzano secondo il livello di umanesimo di ogni epoca: ci sono periodi di bassa e di alta marea, periodi oscuri e altri più umani, ma il bilancio complessivo è a favore di una resistente volontà di trascendimento del soggetto nei confronti dell'ambiente culturale e tecnico in cui egli ha pensato ed ha agito. Perfino dalle orribili tragedie provocate dal nazismo è insorto il disperato appello di «ricostruzione dell'uomo» per rendere di nuovo umanamente riconoscibile il mondo.
    Non si devono perciò lanciare allarmi per la crescita del mondo quale si va configurando mirabilmente nel nostro tempo, anzi occorre un atto di simpatia e di rinnovata meraviglia per tutto quanto l'intelligenza riesce a realizzare. L'allarme deve venire dal rischio, sempre incombente, della volontà negativa, dalle possibili scelte distruttive dovute non più alla retta ragione, ma al suo inquinamento, cioè alla ambiguità e alla inaffidabilità morale dell'uomo, all'uso perverso della libertà.
    La miseria e la grandezza dell'uomo - sono le parole di Pascal - si intrecciano o si alternano tra loro così imprevedibilmente, da legittimare, in pari tempo, timore e fiducia; ma, a lasciar fare all'uomo, tutto è possibile: se con la ragione promuove l'avanzata della scienza e della tecnica, con la volontà può, da una parte, dar prova di solidarietà, di dedizione e di amore, dall'altra può abbrutirsi nell'egoismo, nell'odio e nella violenza. In armonia o in contrasto tra loro, ragione e volontà sono inestricabilmente il nodo misterioso da cui procede la storia.

    IL RISPETTO DELL'UTOPIA ORIZZONTALE E DELL'UTOPIA VERTICALE

    È all'interno di quel «nodo» che opera il dono di Dio secondo la Rivelazione cristiana, condizionatamente alla risposta della creatura umana a quella ineffabile Presenza.
    Accogliere tale «annunzio» vuol dire liberare i processi educativi dalle «utopie orizzontali» che durano quanto l'onda che passa, l'onda dell'esserci e dello scomparire, e aprire l'animo alla «utopia verticale», quella che vede nell'incontro reale con la persona-Cristo la possibilità di costruire «l'uomo nuovo» e di seminare, per così dire, il soprannaturale nella vicenda storica.
    Per questa via, a suo modo nascosta - ma non segreta o privilegiata - fatta di fede, di grazia e di contemplazione, nasce nondimeno il «cittadino» concreto, leale e solidale, di cui la società ha forte bisogno. Accade, come i fatti dimostrano, che quanto più si è innamorati di Dio, tanto più si è operatori e testimoni nel mondo. È il caso di San Giovanni Bosco: egli manifestò la sua fiducia nei giovani e si interessò di loro minuziosamente e amorevolmente in ragione del suo totale abbandono nell'Amore di Dio.
    L'educatore cristiano è chiamato a trasmettere tale fiducia, ad alimentare l'indispensabile utopia della fraternità e dell'amicizia, a rispettare la condizione mondana e secolare come luogo della «visibilità» dell'amore. Le utopie che sono il risvolto enfatico delle mode culturali tradiscono l'assenza del fondamento, si esauriscono nel loro uso ideologico, lasciano delusi e disorientati i giovani che, dopo averle assunte con slancio quasi mistico, le scoprono vuote di significato e di attualità.
    C'è chi pensa che anche l'utopia verticale sia oggi alquanto impallidita e che perciò i giovani siano come in sospeso tra la generazione adulta «post-cristiana», quieta e paludata, che trasmette stancamente generici messaggi di bontà, e il paradigma attraente della funzionalità dell'avere, della «sistemazione» nella logica del produrre e del consumare, persuasi di potere e di dovere solamente programmare una esistenza possibilmente indolore e sempre più distolta dagli angosciosi e vani pensieri di limite e di morte. Essi sarebbero perciò tentati da questa utopia minore, accetterebbero l'esperienza spazio-temporale come unica dimensione della realtà e come sola concretezza, pur precaria. Gli adulti ostenterebbero - più per nostalgia, forse, che per convinzione - il solito rammarico per la «crisi dei valori» della nuova generazione smarrita, ma in pratica ne condividerebbero l'assillo per il benessere quotidiano e l'indifferenza etica.
    Discussioni come queste nascondono altri equivoci, soprattutto quando attribuiscono alla secolarizzazione la funzione di causa dirompente, quasi necessità storicistica, contro il cammino della fede nel mondo. La secolarizzazione è invece, semplicemente, nella sua radice, la condizione dell'uomo che conosce il significato della fede e della salvezza e che però è impegnato nella realizzazione della propria esistenza personale e sociale, nel rispetto e nell'impiego delle regole della natura e della cultura.
    Ogni processo educativo si muove perciò legittimamente in questo orizzonte, compresa l'educazione «laica» dell'utopia orizzontale, non priva di valore e di efficacia, essendo in definitiva partecipe del «progetto uomo» il cui «bene» è patrimonio di tutti, ed usando come tutti la «luce della ragione» che è premessa fondamentale di convenienza.
    Sfugge perciò ai «profeti di sciagure» il fatto che, pur immersa nella cultura del tempo, l'utopia cristiana è sempre identica nella sua straordinarietà: essa incanala le sue energie nella vita quotidiana, nei gesti semplici, nella dimensione stessa della secolarità ed accompagna il procedere stesso del mutamento sociale. Tale «vita di grazia» non è cultura, anche se anima le culture: perciò non può una cultura, come tale, «mettere-in crisi» o assorbire o annullare l'utopia cristiana.
    Questa diventa inefficace solo quando la libertà dell'uomo la rifiuta.
    Ecco perché, mentre le scienze e le tecnologie avanzano irreversibilmente coi millenni, l'utopia cristiana sembra spesso ricominciare daccapo e, a volte, quasi arretrare, essendo «condizionata» dall'accoglienza o dal rifiuto da parte della libertà dell'uomo. Ma è tutta intera in se stessa, sin dall'inizio, essendo coincidente col mistero stesso di Dio.
    Se fosse stata invece, per così dire, oggetto di espansione automatica, come talune cose del divenire, duemila anni sarebbero bastati per evangelizzare più volte tutta la Terra.
    Quando l'evangelizzazione è accolta, essa viene a toccare e a ispirare tutta la persona che l'accoglie e perciò a riflettersi nelle relazioni sociali, nei processi vitali ed educativi considerati nei loro molteplici esiti storici, civili e politici, per cui i cristiani «sono nel mondo ciò che nel corpo è l'anima» e davvero diventano elemento di novità e di testimonianza nel divenire della «città terrena», anche se - e appunto perché - sono rivolti all'approdo finale della trascendenza.
    La Rivelazione non destina ovviamente l'uomo al mondo, ma lo impegna concretamente in esso. Se c'è in lui alienazione, non c'è religiosità.
    Perseguitato o tollerato o amato, il cristiano è, dunque, interessato al proprio tempo, alla situazione sociale e ai suoi problemi, alla fatica della quotidianità; e svolge la sua azione come conseguenza della «chiamata all'amore» che lo caratterizza quale membro del Corpo Mistico, sia o non sia riconosciuto come tale dalla comunità che lo circonda.
    Su questa dinamica concreta - orizzontale e verticale simultaneamente - si fonda l'invito ai giovani a «trasformare» se stessi e il mondo che essi esprimono, vivendo il Vangelo.

    EDUCAZIONE E NOVITÀ CRISTIANA

    Altro equivoco da eliminare è quello di coloro che presentano il messaggio cristiano come un patrimonio educativo di tutto rispetto, consolidato dalla tradizione e dalle istituzioni ecclesiastiche, un insieme di regole per la civile convivenza, quasi un galateo per i benpensanti, uno strumento di sicuro conformismo. Difficile ormai teorizzare una tale «devianza», ma non ne mancano i residui in taluni atteggiamenti di fatto. Ridurre la religione a educazione, è cosa grandemente malinconica. Molti equivoci derivano dall'avere spesso adottato impropriamente questa equazione.
    È l'educazione, invece, come ogni altro processo umano, che può essere trasformata e diventare creativa ed anche rivoluzionaria, se è fermentata e mossa dalla «novità» cristiana. Certo, come il meno si ricava dal più, cosi l'educazione e la coscienza morale derivano anche dalla Rivelazione, il cui fine però scavalca i modelli e le regole dei comportamenti formali e si insedia nell'Assoluto che è amore e salvezza ontologica. L'educazione può perciò diventare anche una abitudine, ma la religione è la continua scoperta di quell'amore, in continua creatività.
    Don Bosco - per intenderci - ha usato l'educazione, che è un mezzo e che ha i suoi positivi effetti anche civili, per aprire la vita, nel cuore dei giovani, alla evangelizzazione, alla vita di grazia e di preghiera, di servizio e di santificazione. Il modello, del resto, viene da Cristo che è Maestro e che educa alla vita soprannaturale. Senza questa caratteristica, lo stesso Don Bosco sarebbe stato soltanto un illuminato educatore dei suoi tempi, che vide ragazzi da avviare al lavoro, famiglie da difendere, istituzioni da prefigurare, laboratori e scuole da organizzare, cortili da aprire al giuoco e alla ricreazione pur di togliere i fanciulli dalla strada.
    Un Don Bosco così ridotto sarebbe da collocare tra i filantropi generosi ed abili e tra quanti hanno fatto del bene alla società in un suo delicato passaggio di civiltà, e precisamente all'origine dell'avvento industriale.
    Ma ben sappiamo quale fosse il fondamento di quell'agire educativo: lo stesso Don Bosco lo disse esplicitamente, richiamando, appunto, l'inno alla carità di San Paolo. Egli ha vissuto eroicamente la sua vocazione di amore, in cerca di anime e a questo subordinando ogni altra cosa, ed ha servito il proprio tempo investendolo, con la sua fedeltà, della grandezza di Cristo.
    Gli accadeva così di provocare anche nuovi fermenti e sviluppi nella catechesi e nella informazione cattolica e di influire sulla stessa qualità della cultura popolare in Italia.

    LA POTENZA SCONVOLGENTE DELL'ANNUNCIO EVANGELICO

    La meravigliosa «sproporzione» tra paradosso cristiano (la grazia) e problematica umana (la storia) - cioè, oltre ogni immaginazione, l'invito del Creatore alla libertà della creatura! - è l'intatta dinamica che lo Spirito suscita negli uomini di tutte le generazioni, pur servendosi del velo del tempo e rispettando le mediazioni dell'annunzio È ciò che avviene ora per noi e per i giovani del nostro tempo, è ciò che è avvenuto sin dalla Risurrezione, è ciò che avverrà in tutta la durata del futuro.
    Non c'è dunque complessità sociale o scientifica o tecnologica che possa mettere nell'ombra lo «scandalo» dell'Incarnazione. Il Vangelo non diminuisce con il crescere del «mondo umano», ma continua a rivelare la sua divina grandezza.
    L'«annunzio» è sempre sconvolgente di fronte alla «situazione culturale» di ogni tempo. Ed è chiara la ragione: «Il cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno».
    Dovrebbe perciò essere sdrammatizzata la questione del cristianesimo «quantitativo», né si dovrebbe insistere - come purtroppo oggi si va facendo - su una specie di sociologia delle religione per la quale la religiosità è sempre «in eclisse» e la società sempre «in ascesa», tradendo con ciò la persuasione che l'accettazione o meno della Rivelazione cristiana dipenda dal tipo di cultura di un dato momento storico. Pensieri del genere non sono altro che dei preliminari all'ateismo» che intende le religioni solo come periodiche, e perciò passeggere e ritornanti, forme culturali delle varie comunità umane, che si traducono in totem aggregativi, funzionali alla propria esistenza e continuità.
    Certamente, la cultura è, come si è detto, occasione ed ambiente con cui - nella normalità dei processi intergenerazionali - lo stesso messaggio cristiano viene a incontrarsi o a scontrarsi e di cui, comunque, deve scrupolosamente tener conto, perché appunto si rivolge all'uomo concreto e temporale.
    Ma ciò non vuol dire che la «situazione collettiva» o la contestualità storica possa invadere talmente la libera coscienza dell'uomo sino a renderla impermeabile al mistero e all'azione della grazia che è, nientemeno, vita di Dio in lui.
    E se poi anche si ammettesse uno stato di impermeabilità, una situazione di questo tipo, paradossalmente, non sarebbe vissuta nemmeno come problema o disgrazia o mancanza, come si può constatare, in certo senso, nelle realtà antropologiche primitive o in quelle non cristiane.
    Sappiamo che, in effetti, la cultura ingloba a suo modo la «notizia» cristiana e la tradizione religiosa che ne consegue: in questo senso, senza esaurire nell'educazione il mistero del dono e della fede, anche il processo educativo si fa strumento dell'annunzio e può contribuire - come prima si diceva, sull'esempio «salesiano» - a una integrale costruzione dell'uomo.
    Ma è bene ribadire che non resiste una «educazione cristiana» di tipo solo culturale, se non come abitudine non riflessiva o come salvaguardia delle forme e della tradizione esteriore e, in definitiva, come «rito memoriale», non eucaristico o di presenza reale, rivolto più a rievocare le credenze parentali che a professare con la vita l'attesa della salvezza.

    UN'EDUCAZIONE PER L'OGGI

    Visto ciò che va distino e ciò che può convivere tra religione ed educazione, non accada però di svalutare quest'ultima o emarginarla in un ruolo minore o poco significativo. Essa rimane alla base della nativa - biologica e culturale - vocazione dell'uomo a trasmettere se stesso alla nuova generazione, e non è raro - anzi, ne è una «condizione» - che, anche in dimensione storico-orizzontale, essa prepari il soggetto uomo alla ulteriore opzione religiosa e perciò alla integrale armonia di natura e soprannatura.
    In questo senso, ogni processo educativo - adulti/giovani, maestri/discepoli - è in ogni epoca altamente impegnativo e problematico. Se esistono differenze in meglio o in peggio nelle fasce di civiltà da noi conosciute, ciò è derivato dalla dinamica con la quale la soggettività ha trattato il materiale disponibile della cultura, dell'economia, della tecnica, ma non dalla influenza totalizzante dell'ambiente sull'uomo. Il tasso differenziale è sempre a favore della «persona», anche se vi sono situazioni in cui si stenta a riconoscerne l'identità.
    Si è detto che l'ambiente è l'occasione esistenziale indispensabile per la operosità del soggetto che realizza la sua vita e la sua storia. Il contrario è regresso o morte, è ciò che temiamo, è ciò che quasi istintivamente siamo portati a negare - in stato di allarme - cercando «qualcosa» - a costo di inventare miti o utopie minori - pur di sfuggire alla irrazionalità o alla catastrofe.
    L'educazione è perciò lo svolgimento di una intesa, all'interno della condizione «ambientale», tra generazioni conviventi. La generazione adulta afferma la propria identità trasmettendo la propria cultura - comprese le credenze e le ragioni di tali credenze - alla generazione giovane, la quale va scoprendo e costruendo la propria identità nell'ascolto critico e nel dialogo con la generazione adulta.
    Ne scaturisce, anche dialetticamente, la presa di coscienza del valore uomo e una condivisione di progettualità intergenerazionale, per la crescita conoscitiva e la migliore fruizione dell'ambiente.
    Tale coscienza di successione e di sopravvivenza si perfeziona in coscienza comunitaria, che è l'atto di trascendimento - di reciprocità e di solidarietà - che gli uomini sanno di poter celebrare tra di loro. Essa non si esaurisce con il raggiungimento di scopi immediati e contingenti, ma continua a crescere quando i suoi membri entrano in comunione ecclesiale, in fruizione di grazia e in espansione di amore, e si aprono non solo all'interno dell'«appartenenza», ma - gioiosamente - al resto del mondo. Sotto questo profilo, si può ora riprendere il leit motiv di queste riflessioni e ripetere con maggior chiarezza che l'evangelizzazione o utopia cristiana coincide con l'educazione, se questa nasce dall'amore «annunziato» e «praticato» secondo il Vangelo.
    L'avventura della scienza potrà anche portare alla «ominizzazione» dell'intero universo, ma è quell'utopia verticale che salva il soggetto. E l'infinito sarebbe, in definitiva, motivo di indifferenza o di smarrimento, per una soggettività destinata al nulla.
    È quell'utopia che dà senso a tutta la fatica storica ed educativa della famiglia umana in cammino.
    Di questo sublime giuoco, tra natura e soprannatura, è ripiena quella semplice raccomandazione di Don Bosco ai suoi figli «chiamati» ad essere educatori-apostoli: «Ricordatevi che l'educazione è opera del cuore e che Dio solo ne è padrone, e che noi non riusciamo a cosa alcuna se Dio non ce ne dà l'arte».


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