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    La figura di don Bosco: ricchezza, mistero e fascino


    Gaetano Scrivo

    (NPG 1988-1/2-10)


    La figura e l'opera di don Bosco sono familiari nei loro molteplici 2 versanti ai lettori di «Note di Pastorale Giovanile», per cui non è necessario ripresentarle in una visione storica globale. Ci limiteremo piuttosto a ripensare alcuni aspetti caratteristici che ci sembra particolarmente opportuno ricordare in questo primo centenario della morte del santo.

    ATTENTO Al BISOGNI E SENSIBILE AI SEGNI DEI TEMPI

    L'art. 41 delle Costituzioni Salesiane così presenta i criteri ispiratori per le attività e opere della Congregazione: «La nostra azione apostolica si realizza con pluralità di forme, determinate in primo luogo dalle esigenze di coloro a cui ci dedichiamo. Attuiamo la carità salvifica del Cristo, organizzando attività e opere a scopo educativo pastorale, attenti ai bisogni dell'ambiente e della Chiesa. Sensibili ai segni dei tempi, con spirito di iniziativa e costante duttilità le verifichiamo e rinnoviamo e ne creiamo di nuove...».
    È evidente che questo criterio pastorale viene assunto dalla Congregazione Salesiana perché in esso riconosce l'ispirazione di fondo che guidò don Bosco nella sua azione apostolica.
    Uomo per gli altri, la sua vita fu tutta un rispondere alle necessità di quanti gli stavano attorno. Le sue iniziative non nascono a tavolino, e non sono frutto né di ideologie né di astrattismi. Egli si immerge nel reale e nel quotidiano, viene a contatto con la strada, con i diversi ambienti e soprattutto con le persone. «I giovani sono i nostri padroni» ripeteva con frequenza, sottolineando con questa frase il grande rispetto per le persone di fronte alle quali egli si poneva sempre in atteggiamento di autentico servitore. Le condizioni esistenziali di famiglia, di cultura, di lavoro, di relazioni sociali, di vita religiosa, di convivenza umana orientarono il suo concreto servizio. Le sue opere volevano rispondere a sfide e urgenze suscitate dalle nuove situazioni storiche.
    E così ai bambini ed agli adulti dei Becchi, desiderosi di storie e di distrazioni, rispose con narrazioni e giochi di prestigio. Ai giovani, emarginati dalla vita e privi dell'aiuto degli adulti, venne in soccorso, nei primissimi anni della sua vita sacerdotale, con un modello di oratorio aperto a tutte le loro esigenze. Degli adolescenti, immigrati nella Torino preindustriale, si interessò ricoverandoli al loro arrivo, offrendo loro istruzione religiosa e conoscenza professionale, indispensabili ad una vita cristiana ed umana decorosa. In un momento di grave crisi di molti seminari chiusi o semivuoti, convinto che tra i giovani molti presentavano germi di vocazione apostolica, creò un ambiente capace di maturare il dono della vocazione apostolica, sacerdotale o consacrata. I ceti popolari, facile preda della propaganda anticlericale ed anticattolica, trovarono in lui uno scrittore ed un editore capace di difenderli e orientarli. Le lontane popolazioni dell'America Latina, viste più volte in sogno, divennero oggetto speciale del suo slancio missionario.
    E così, per rispondere alle esigenze dei tempi, la sua instancabile operosità lo portò ad impegnarsi nei più diversi settori della società. Fondò «oratori» per masse giovanili animate da preti e laici e sostenute dal consenso cittadino; realizzò opere per studenti ed artigiani con finalità educative, culturali e sociali. Si fece imprenditore di una stampa popolare con intenti prevalentemente catechistici, scolastici ed apologetici. Costruì chiese di quartiere che presto ebbero larga risonanza nazionale ed anche internazionale.
    Per dare continuità alla sua opera e con un taglio moderno di fronte alla legge fondò la Congregazioni dei Salesiani e l'Istituto delle Figlie di Maria Ausiliatrice, i cui membri conservano tutti i diritti e i doveri dei privati cittadini. Fra sostenitori e simpatizzanti promosse l'Unione dei Cooperatori Salesiani, che mantenne uniti nello spirito e nell'azione mediante il «Bollettino Salesiano». Continuò a seguire con affetto e interesse nella loro vita i giovani che erano cresciuti alla sua scuola e che sentirono il bisogno di costituirsi in associazione come «exallievi di don Bosco».
    Allorché il processo di unificazione politica dell'Italia fu causa di rottura dell'unità spirituale e religiosa del paese, si fece strumento di mediazione e di conciliazione fra Governo Italiano e Santa Sede. Una volta trovati consensi in Italia a favore della sua opera di salvezza religiosa e civile degli individui e della società, allargò la cerchia delle sue attività in Francia, Spagna, Belgio, Inghilterra, America Latina mediante la fondazione di oratori, di scuole umanistiche, professionali, agricole, di missioni vere e proprie.
    Si stenta a credere che un uomo solo abbia potuto lavorare tanto e attendere a tante cose insieme. Scrive Alberto Caviglia che in don Bosco sembrano operare in simultaneità più persone, che pur si fondono nell'unica persona di un prete senza apparenze. «Una vita che fu un vero e proprio grande martirio: una vita di lavoro colossale che dava l'impressione dell'oppressione anche solo a vederla» (Pio XI).

    LA SCELTA GIOVANILE

    Nonostante questa molteplicità impressionante di iniziative e di opere, storici e studiosi riconoscono a don Bosco un progetto di vita fortemente unitario. Chiunque abbia una discreta conoscenza della vita di don Bosco non può non condividere questo giudizio. Vorremmo piuttosto cercare le linee unificatrici della vita e dell'azione di un uomo che il biografo danese Joergensen considera uno dei più «completi».
    La prima linea unificatrice può essere identificata nel titolo più vero e appropriato con cui don Bosco è passato alla storia: quello di «amico dei giovani», anzi di «santo dei giovani».Agli occhi della Chiesa e del mondo, di chi crede e di chi non crede, don Bosco è sempre, e rimarrà nella storia, come «educatore». La sua vita non si può concepire che tutta vissuta «in funzione» dei giovani.
    «Naturalmente - scrive don Braido nel suo Il sistema preventivo di don Bosco - la vocazione e missione di don Bosco non si esprime nella sua pienezza fin dai primordi della sua vita. Ma fin da questi, certo, sembra presentarsi nelle sue attribuzioni di fondo: vocazione ad essere un sacerdote e vocazione ad occuparsi dei giovani e della loro educazione cristiana... C'è chi sostiene la priorità cronologica e ontologica della vocazione pedagogica nei confronti di quella sacerdotale... Forse la questione cronologica non ha eccessiva importanza, perché sembra ugualmente evidente che la vocazione sacerdotale di don Bosco, nel suo manifestarsi e nel suo sviluppo, è talmente connaturata con quella educativa, da conferirle il «senso» più profondo e la «forma costitutiva».
    È don Bosco stesso a ribadire continuamente la sua scelta giovanile: «Radunare i fanciulli per far loro catechismo mi era brillato nella mente fin da quando avevo solo cinque anni; ciò formava il mio più vivo desiderio, ciò sembrava l'unica cosa che dovessi fare sulla terra». A nove anni fece il famoso sogno: «Ecco il tuo campo». Appena ordinato sacerdote: «La mia delizia era fare del catechismo ai fanciulli, trattenermi con loro, parlare con loro». Seguirà il drammatico rifiuto di uno stipendio fisso da parte della marchesa Barolo: «Signora marchesa, la mia vita è consacrata al bene della gioventù... Non posso allontanarmi dalla via che la divina Provvidenza mi ha tracciato».
    E per tutta la vita si manterrà fedele alla sua scelta. Nell'ottobre 1886, a chi lo pregava di rinunciare alla fatica ormai per lui insopportabile di confessare, risponderà: «Se non confesso almeno i giovani, che cosa farò io ancora per loro? Ho promesso a Dio che fin l'ultimo respiro sarebbe stato per i miei poveri giovani».
    Ed ancora sul letto di morte: «Che cosa fanno?... Accorrete a salvarli... Maria aiutateli".
    Don Bosco sottomette ogni altra ambizione «alla vocazione superiore - una autentica supervocazione - per la quale sa di essere più espressamente suscitato dalla Provvidenza: l'apostolato delle anime nell'esercizio della carità educativa» (A. Caviglia). Dichiarerà un profondissimo suo conoscitore, il beato Michele Rua, che con lui visse oltre trent'anni: «Non diede passo, non pronunciò parola, non mise mano ad un'opera che non avesse di mira la salvezza della gioventù».

    UNITÀ DEI FINI NEL SUO INTERVENTO EDUCATIVO

    Una seconda linea unificatrice nel progetto di vita di don Bosco è data dall'unità dei fini del suo intervento educativo. Dato che don Bosco ha sposato a tempo pieno la causa giovanile, è lecito domandarsi di che tipo di servizio si è trattato. Quali le priorità dal suo intervento educativo?
    Da uomo di Dio, da sacerdote, don Bosco non ha potuto che assegnare il primo posto alle «realtà sopraterrene». Ai giovani lavoratori, iscritti alla Società di mutuo soccorso, alle migliaia di giovani raccolti nelle sue case, ai Salesiani, alle Figlie di Maria Ausiliatrice, agli stessi Cooperatori Salesiani, ai benefattori delle sue opere non farà che ripetere sempre quella che era la questione fondamentale della sua antropologia: la salvezza dell'anima. Da mihi animas... il suo motto mai smentito. E tale cammino di vita cristiana che conduceva alla santità veniva ritmato sulla parola di Dio ascoltata in chiesa, sui sacramenti della confessione e della comunione, sulla catechesi ben assimilata. Il suo servizio particolare ai giovani fu dunque anzitutto di indole morale e soprannaturale.
    Ma se la preparazione alla salvezza eterna mediante l'istruzione e sacramentalizzazione adeguata fu la costante maggiore della sua indefessa attività (fare «buoni cristiani», diceva lui), l'altra costante fu il fare «onesti cittadini», vale a dire preparare i giovani alla vita terrena mediante l'apprendimento di un mestiere o di una professione utile al soggetto ed alla società.
    Primo passo in ordine a tal fine sarebbe stato la liberazione dei giovani dai loro primari bisogni terreni. I giovani «poveri e abbandonati» non erano in condizioni di fare da sé, andavano raccolti; ed ecco allora scrivere nelle Costituzioni dei Salesiani nel 1858: «Se ne incontrano... di quelli (giovani) che sono talmente abbandonati che per loro riesce inutile ogni cura se non sono ricoverati; onde per quanto sarà possibile si apriranno case di ricovero, ove coi mezzi che la Divina Provvidenza porrà fra le mani, sarà loro somministrato alloggio, vitto e vestito, e mentre saranno istruiti nelle verità della fede, saranno eziandio avviati a qualche arte o mestiere...». Tetto, pane e lavoro, cultura ed anche sostegno corporativo in caso di necessità.
    Leggiamo in un inedito scritto degli anni 80: «Sull'Esquilino nella zona fissata dalla ferrovia e dalla Porta Pia havvi un gran numero di edifici e di abitanti tra cui non esiste né chiesa, né scuole regolarmente costruite. Altro bisogno è sentito in questa città: un istituto per fanciulli poveri ed abbandonati provenienti da qualche città e paese... A fine di provvedere a questo grave bisogno ho fatto un progetto da effettuarsi nell'isolato detto di Castro Pretorio mercè la costruzione: 1. di una chiesa parrocchiale...; 2. di un giardino di ricreazione per trattenere i giovanetti in piacevoli trastulli nei giorni festivi; 3. di scuole serali poi per adulti già applicati al lavoro lungo la giornata; 4. di scuole diurne per i più poveri che non possono frequentare le pubbliche scuole; 5. un ospizio capace di ricevere cinquecento ragazzi poveri ed abbandonati da avviarsi alle arti e mestieri sulla forma di quello di Torino...». Un istituto che - scriverà qualche anno dopo - «non è solamente romano, ma per tutti i giovani d'Italia e del mondo, che si trovano erranti ed abbandonati, senza pane, senza tetto e senza Dio nella città eterna».
    La visione e l'azione educativa di don Bosco risulta così fortemente unitaria: non la si può pensare divisa in due tronconi, contrastata tra l'ispirazione celeste e quella terrena. La formula e la spiritualità dei tre «S» (sanità, sapienza, santità) non è un trinomio costituito da tre termini irrelati.
    Per don Bosco il trinomio si deve considerare come un monomio, un numero a tre cifre, a cui non può mancare, per l'integrità e la completezza, alcun elemento. Non si tratta di tre fini, ma di un fine unico.
    E forse mai un fine educativo fu perseguito con tanta concreta insistenza e sicurezza dai primi agli ultimi giorni di tutta la lunga carriera di educatore.

    UNITÀ TRA VITA E AZIONE

    È una terza linea unificatrice nel progetto di vita di don Bosco. C'è un filo rosso che collega il suo attivismo poderoso. Fra don Bosco e i giovani, fra lui e il suo metodo educativo, fra la sua vita e le sue convinzioni c'è una strettissima correlazione. Alla base della sua multiforme attività di educatore, catechista, costruttore di numerose opere, fondatore di società, editore, scrittore, non ci fu solo, per così dire, il genio dell'educatore, la generosità del filantropo, la sensibilità di un grande cuore aperto ai bisogni dei giovani del suo tempo.
    All'origine di tutto ci furono i potenti dinamismi delle virtù teologali che ne coinvolsero l'intera esistenza. Sommerso in un accumulo di affari e di attività, coglieva l'invisibile nel visibile.
    La fede in Dio è anche certezza di essere chiamato da Dio ad una speciale missione. Scrive lo studioso di don Bosco, don Pietro Stella: «La persuasione di essere sotto una pressione singolarissima del divino domina tutta la vita di don Bosco, sta alla radice delle sue risoluzioni più audaci ed è pronta ad esplodere in gesti inconsueti. La fede di essere strumento del Signore per una missione singolarissima fu in lui profonda e salda... In tutto comunque, don Bosco sentì e vide una garanzia dall'alto. Ciò fondava in lui l'atteggiamento caratteristico del Servo biblico, del profeta che non può sottrarsi ai voleri divini».
    Della costante e profonda presenza di Dio nella sua vita fanno fede innumerevoli dichiarazioni sue e di altri testimoni. Qualche spigolatura: «A che può servire questo lavoro?... Servirà a far conoscere come Dio abbia egli stesso guidato ogni cosa in ogni tempo». Ed ancora: «Dio ha voluto compiacersi di operare cose grandi servendosi di un misero strumento. Desidero che ciò si conosca, perché innalziamo il nostro pensiero a Dio per ringraziarlo di quanto volle fare in nostro vantaggio». Don Rua e don Cagliero affermano: «Don Bosco soleva dire, e noi l'udimmo più volte: «Il padrone delle opere è Dio, Dio è l'ispiratore e il sostenitore e don Bosco non è altro che lo strumento».
    L'asse attorno a cui ruotava il suo progetto educativo e religioso era il primato di Dio, l'assoluto di Dio che determinava lo stile di vita, la situazione esistenziale della comunità dei giovani e degli educatori.
    Ancora una testimonianza, quella del beato don Luigi Orione, che fu allievo dell'Oratorio di Torino: «Ho sempre pensato che don Bosco si è fatto santo perché nutrì la sua vita di Dio. Alla sua scuola imparai che quel Santo non ci riempiva la testa di sciocchezze o di altro, ma ci nutriva di Dio, dello spirito di Dio. Come la madre nutre se stessa per poi nutrire il proprio figliuolo, così don Bosco nutrì se stesso di Dio, per nutrire di Dio anche noi. Per questo, quelli che conobbero il Santo e che ebbero la grazia insigne di crescere vicino a lui, di sentire la sua parola, di avvicinarlo, di vivere in qualche modo la vita del Santo, riportarono, da quel contatto, qualche cosa che non è terreno, che non è umano; qualche cosa che nutriva la sua vita di santo. Ed egli poi tutto volgeva al cielo, tutto volgeva a Dio, e da tutto traeva motivo per elevare noi, i nostri animi, verso il cielo, per indirizzare i nostri passi verso il cielo».
    Indirizzare i passi verso il cielo, vale a dire un'operosità che non si chiude nel presente ma si apre al futuro, alle realtà ultime. Don Bosco: un cuore che si direbbe totalmente assorbito nelle attività umane, ma che nel contempo gravitava verso l'eterno. Una intelligenza della fede, che si aprì alla speranza di un mondo nuovo, che confidò nelle immense possibilità di bene racchiuse nell'animo dell'uomo.
    Contemplando Dio, don Bosco ne scoprì l'amore per il mondo, per i giovani «delizia di Dio, di Gesù e di Maria». Si tratta di una fede che non si limita a contemplare, ma scende sulle strade e sulle piazze del mondo per realizzare la salvezza portata da Cristo.
    E la carità divina diventa paradigmatica del suo stare coi giovani, in mezzo ai giovani. Una carità che soddisfa anzitutto i loro bisogni materiali e primordiali; poi li aiuta a crescere e maturare sul piano umano e sociale ed infine li porta alla fede ed alla santità.

    MISTICO DELL'AZIONE O SANTO SOSPETTO?

    Una risposta a questo interrogativo - posto anche recentemente in alcune pubblicazioni - crediamo che la si possa inserire sulla linea di approfondimento delle suaccennate categorie unificatrici nel progetto di vita di don Bosco.
    È nell'azione che don Bosco trova il mezzo per vivere intensamente l'unione con Dio: un'azione direttamente apostolica e sacerdotale, quale l'evangelizzazione, l'amministrazione dei sacramenti, la preghiera: un'azione caritativa vera e propria, improntata alla carità di Cristo «qui coepit facere et docere», di cui don Bosco vede il volto raffigurato in quello dei suoi giovani: un'azione di indole per così dire profana, terrena, che pure per lui viene a costituire luogo dell'incontro con Dio, grazie alle motivazioni che la sorreggono e all'intenzione che la ispira.
    Spinta fino all'estremo delle sue forze, tale azione diventa «mistica», «estasi» in quanto perfettamente conforme alla legge evangelica della carità vissuta in pienezza, della speranza che spera contro ogni speranza, della fede che assorbe in Dio fino al completo distacco di se stesso.
    Perfetto nell'amore è il santo, dice il Concilio Vaticano II. Ma l'essenza di tale perfezione sta nella carità che non separa il prossimo da Dio, fonte suprema di ogni amore. Cogliere Dio come tutto nella propria anima, vale a dire una mistica di tipo contemplativo, intellettivo, affettivo è quella di altri santi; cogliere Dio nell'esercizio della carità pastorale è la mistica attiva di don Bosco.
    Il suo curriculum terreno, soprattutto se letto alla luce di una cultura «laica», pregiudizialmente chiusa al mistero della santità, si presta indubbiamente ad essere oggetto di sospetto. Un'analisi della sua vita, una lettura degli scritti e in particolare del suo epistolario, potrebbero facilmente far scoprire in lui i tratti più caratteristici di un moderno imprenditore. Con indubbia maestria seppe infatti coniugare prudenza col rischio calcolato, calma con tempestività di intervento, chiarezza di idee personali con promozione della spontaneità dei collaboratori, capacità di approfittare dell'esperienza altrui con volontà di intraprendere vie nuove e di cogliere occasioni che si presentano una sola volta nella vita. Senza dubbio un uomo grande, regista, di una vitalità prodigiosa.
    Ma sarebbe antistorico farne una semplice figura di filantropo, di educatore, di affarista spregiudicato, di operatore pubblico a favore della classe giovanile in ascesa sociale.
    Privarlo della connotazione religiosa è già un tradirlo in ciò che più gli stava a cuore: il suo operare come prete. Prete all'altare, prete in casa del povero, prete nel palazzo del re. Il fine unico di ogni sua azione era la salvezza religiosa, la santità della gioventù e del popolo. Tutto il resto era secondario o mezzo in ordine al fine: anche l'oratorio, l'istruzione, la scuola classica o professionale, l'amorevolezza, il gioco, la musica, le passeggiate.
    Ma anche il fissarsi unicamente sulla sua collaborazione alla diffusione del Regno mediante un modo particolare di tradurre il vangelo in azione, dimenticando di sottolineare la sua «concentrazione» sul mistero di Dio grazie a particolari valori vissuti in forma eroica ed inusitata, è riduttivo di quel capolavoro di Spirito Santo che è stato don Bosco.
    Agli occhi del mondo don Bosco si presenta decisamente come un uomo coi piedi per terra: ai limiti personali che gli si possono obiettivamente imputare (chi ha mai detto che ogni azione di un santo è un'azione santa?) si aggiungono quelli di figlio della sua epoca e della sua terra, e come tale non va esente da lacune culturali, intellettuali, di azione e di pensiero.
    Non è però sufficiente indagare sul terreno storico-sociale. Occorre inoltrarsi nella zona misteriosa della vita dello Spirito, se è vero che un santo è il punto di accordo fra l'immanente ed il trascendente, fra Dio e l'uomo. È sì lecito penetrare nel cammino umano di don Bosco inteso come fenomeno visibile, accertabile, ma senza escludere la storia ineffabile del suo intimo sentire, aperto al soprannaturale ed accessibile all'amore eroico.
    Così l'hanno colto in molti. Lo scrittore fiammingo Joris Karl Huysmans: «Fu l'uomo pratico per eccellenza, eppure visse della sua vita soprannaturale»; lo scrittore italiano Igino Giordani: «Uomo attivissimo... era intimamente un mistico; il suo cuore rimase un tempio dose dimorarono Gesù e Maria»; lo storico non credente Gaetano Salvemini: « Don Bosco fa parte dell'Italia mistica... Egli apparteneva in sommo grado alla sfera dei mistici italiani".
    Fra la versione popolare, non priva di qualche amplificazione, e la versione illuministico-razionalistica che tutto spiega in semplice chiave di superstizione, di psicoanalisi, di antropologia culturale, c'è spazio per un'altra lettura scientificamente ed oggettivamente corretta della santità di don Bosco.
    Una santità abbondante, profonda, trasferita nel mezzo di una città in rapidissima evoluzione, collocata nel ribollimento di persone, avvenimenti, progetti rivoluzionari o reazionari, affermatasi come tale nell'era del trionfo del positivismo ed in tempi in cui la chiesa era da molte parti considerata alla stregua di obiettivo prioritario da distruggere.
    Una santità moderna, dell'uomo d'oggi, «semplice e simpatica, che ha un suo stile e una sua comunicabilità, che ispira fiducia e costruisce amicizia, ma esigentissima nei suoi contenuti evangelici» (don Egidio Viganò).
    Una santità di tipo educativo, che esige il «farsi amare», che elimina le barriere di cultura, di età, di esperienza per condividere la vita dei destinatari della propria azione. «Se voglio camminare nella società d'oggi, coi piedi ben calcati in terra, e sentire gli sbandati e i drogati, i senza lavoro e i senza speranza come fratelli, non come «diversi»; se voglio tradurre il cristianesimo in opere, anche sociali...; se voglio avere un contatto non paternalistico ma paterno, non autoritario ma autorevole, non repressivo ma comprensivo, non di comunicazione ma di comunione, non di alleanza ma di amore, non di complicità ma di collaborazione, non di adulazione assassina ma di salvifica fermezza coi giovani, pane e fuoco del nostro futuro, destinatari di tutto il nostro lavoro e di tutti i nostri messaggi, ho perfettamente capito che devo rivolgermi a don Bosco».
    È la testimonianza di Italo Alighiero Chiusano, che sentiamo di poter fare anche nostra.


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