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    Una madre della strage degli innocenti



    Gioia Quattrini

    (NPG 1999-09-62)

    Simone è un bambino buono. Vivace ma buono. Giusto ieri, al tramonto del sole, io lo chiamavo per la cena e lui stranamente non rispondeva. Allora gli sono andata incontro e l’ho trovato tutto impolverato, dai riccioli ai piedini, con due strisce nere di pianto sotto gli occhioni, seduto nella polvere, che con le manine paffute aiutava un gruppo di formiche a farsi il nido. O meglio, così pensava la sua ingenuità, in realtà quei piccoli esserini correvano di qua e di là, pieni di paura per quell’oggetto non identificato. Ho dovuto spiegargli che le formichine non erano arrabbiate con lui, soltanto non riconoscevano la sua manina come un intervento amico. Si è lasciato portare a casa sconsolato, lui sempre così allegro.
    Mio figlio quando è allegro canta. Quindi canta sempre. Cantava bene che ancora non parlava. Inventa filastrocche, apparentemente incomprensibili ma piene di tesori nascosti. Saltella per il giardino e il suo più grande amico è l’albero di fichi che suo nonno piantò quando nacque suo padre. Se qualcuno lo sgrida corre da lui e si siede sotto la sua ombra e chiacchiera a lungo.
    Mio figlio quando è triste racconta fiabe al suo albero preferito. Fiabe di un mondo dove tutti gli esseri viventi, perfino le pietre, hanno un’anima, e con quella parlano tra loro e vivono di una vita piena di sole e aria. E quando qualcuno muore e l’albero piange, Simone lo consola raccontandogli di un giardino meraviglioso, più grande e più bello di questo che li ha visti nascere entrambi, dove suo nonno ha incontrato di nuovo il proprio cane e la pianta di rose che si era seccata perché la nonna aveva dimenticato di darle acqua per alcuni giorni. E il cane e le rose e tutti avevano fatto una grande festa quando era arrivato il nonno, e ne fanno una ogni volta che arriva qualcuno di nuovo a far loro compagnia, e trascorrono così il tempo dell’attesa. Attendono i loro cari che sono rimasti a vivere nel mondo dove si patiscono fame e sete, freddo e caldo, dolore e paura. E l’albero non piange più. E Simone non è più triste perché ha consolato il suo amico.
    Mio figlio costruisce da solo i suoi giocattoli. Spesso somigliano agli arnesi da lavoro del babbo e li usa per costruire il suo rifugio. Ogni giorno uno. Piccoli legnetti di scarto, pietre e grandi foglie. Tutto ciò che riesce a trasportare. I suoi amichetti lo aiutano ma è lui che dirige i lavori. Sono ammesse nel gruppo anche le caprette e i vitellini. Perfino i cani randagi dei dintorni per i quali i bimbi hanno una vera predilezione. E’ molto divertente vederli al lavoro. Piccole api che non conoscono la fatica e non si fermano mai finché il nido non è costruito. Così in fondo al giardino c’è un piccolo villaggio di nani, che a vederlo fa tenerezza. Il vento o il primo scroscio di pioggia causano non poche rovine, ma i nanetti infaticabili non si perdono d’animo e curano le cose ferite, come dice Simone. Quando arriva l’ora di mangiare o dormire, dividerli dal loro villaggio è cosa difficilissima e bisogna promettere e promettere che potranno tornarci non appena svegli. Se questa sera non li avessimo chiamati e li avessimo lasciati a dormire lì – come ci hanno chiesto mille volte – forse le cose sarebbero andate diversamente. Avevano costruito anche una piccola casa per le farfalle, ma non riuscivano a spiegarlo alle loro amiche colorate, molto amate eppure così sfuggenti.
    Mio figlio è innamorato delle farfalle, che per me somigliano molto alle sue carezze. Tanto leggere da fare il solletico. Ho dovuto parlargli cento volte delle loro ali e dei loro colori, e del fatto che quando nascono sono nascoste in una specie di guscio che non prometterebbe niente di buono. Ogni volta che ho proposto di catturarne una, per qualche attimo, così che lui potesse avere il gusto di vederla da vicino, ha sempre rifiutato con una smorfia di disprezzo per me che avevo osato pensare una simile malvagità. Così mi diverto e un po’ mi commuovo quando lo vedo correre, naso all’insù, dietro una di loro, sperando che prima o poi si posi su un fiore, cercando freschezza e riposo.
    Quando per caso avviene, tiene il respiro e cammina pian piano, ma avvicina troppo il nasino e la farfalla vola via di nuovo lasciandolo mortificato. Io corro ad abbracciarlo forte e cerco di consolare la sua tristezza.
    Io so che ci sei. E so anche dove cercarti. Per questo grido le mie parole verso il cielo. Per colpirti. Colpirti forte. Colpire te. Te e nessun altro.
    Ti scaglierò contro tutta la mia fede, che è grande. Questa renderà il mio peccato ancora più nero. Come io voglio che sia.
    Conosco il tuo disegno. Era scritto: «Un grido è stato udito in Rama, un pianto e un lamento grande; Rachele piange i suoi figli e non vuole essere consolata, perché non sono più».
    Pensava a me, Geremia. Ora lo so. Il mio nome è Rachele e non voglio essere consolata.
    Mio marito, uomo saggio, spera che, nonostante questa strage di bimbi innocenti, Erode non sia riuscito ad uccidere almeno il piccolo figlio di Dio, l’Emmanuele venuto a salvare il mondo. Questa speranza – dice lui – renderebbe meno buio il nostro dolore e la notte appena trascorsa. Questo pensiero – dico io – di una strage inutile di bimbi innocenti, nonostante la salvezza del piccolo figlio di Dio, lascerebbe buio il mio dolore così come è buio e buia la notte così come è buia.
    Che l’Emmanuele, venuto per salvare il mondo, si sia salvato mi lascia completamente indifferente. Non toglie e non aggiunge nulla. È un progetto del quale non mi sento di far parte se non come una marionetta fa parte della farsa che recita.
    Intorno a me, le altre madri, con le vesti ancora sporche del sangue dei loro figli, trovano conforto pensando ad un sacrificio che riscatterà il mondo, cambiando il corso della storia degli uomini. Io sola sento dentro di me tanta rabbia. Io sola così indocile. Io sola.
    Simone aveva sei anni. Non era nel tuo progetto che morisse ma è corso a difendere il suo fratellino dalle spade dei soldati di Erode e questi non sono stati a guardare l’età.
    Non ho più figli. Non ne avrò più.
    Dovrai cercare altrove gli strumenti per realizzare i tuoi scopi, le vittime innocenti e il loro sangue. Qualunque sia il dono che stai per fare al genere umano, io l’ho pagato. Nessun dono per me. Io l’ho pagato.
    Siamo stati creati come tu hai voluto che fossimo. Non possiamo salire le montagne per sfiorare il cielo, non possiamo camminare sui mari per raggiungere terre lontane, non possiamo impedire che venga la notte. Noi, con le nostre piccole menti, come potremmo penetrare un disegno lontano come le vette dei monti, profondo come le acque del mare e buio come la notte? Un disegno solo tuo, da accettare a capo chino, magari chiedendo scusa perché ci è difficile comprendere.
    Mia madre dice che la rabbia mi perderà. Che tu mi punirai per non aver creduto, per non aver accettato, per non aver voluto capire. Tu mi punirai. Ed io penso: «Ancora?».
    Il senso di questo discorso è forse che sto soffrendo per colpa mia? Che la mia sofferenza non basteranno secoli ad attenuarla, per colpa mia, perché conterò giorno per giorno immaginando, provando ad immaginare i miei figli crescere e sorridere?
    Per colpa mia? Perché non voglio rinunciare a loro, sostituendoli con pallide figura di angeli? Perché non accetto che Dio disponga dei figli che io ho partorito?
    Domani seppellirò i miei figli. Non li hanno uccisi i soldati di Erode. Né Erode stesso con il suo ordine senza senno. Anche loro, come me, come i miei figli, stupidi strumenti.
    Domani seppellirò i miei figli. Quando vorrò pensare a loro andrò a passeggiare nel villaggio dei nanetti oppure mi sederò sotto l’ombra del fico e immaginerò i miei figli giocare in un giardino meraviglioso, con il nonno, il vecchio cane e la pianta di rose che la nonna aveva fatto seccare.
    Immagino la bellissima festa che li ha accolti quando sono arrivati, magari un pochino spaventati. Li vedo impiegare il tempo che ci separa dal nostro nuovo incontro preparando una festa ancora più grande. Li vedo sorridere e aspettare. Per sempre lontani dalla fame e dalla sete. Dal freddo e dal caldo. Dal dolore e dalla paura. Rincorrono farfalle. Aiutano le formiche a costruire il nido.
    È questo che vedo. Non perché tu da sempre lo abbia detto agli uomini. Perché era Simone a dirlo al suo albero che piangeva.


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