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    Il vescovo degli schiavi


    Virginia Di Cicco

    (NPG 1999-08-02)


    Don Cesare Mazzolari è il Vescovo di Rumbek, in Sudan.
    Ha sessantadue anni. I capelli completamente bianchi. Il volto tondo e sorridente.
    Rumbek è grande quasi quanto l’Italia ma conta tre milioni di anime.
    Don Cesare è pastore tra i pastori: poche mucche ridotte all’osso. Gli occhi si fanno più grandi quando racconta di gente che arriva al villaggio dopo giorni di cammino e di cibo da dare non ce n’è più. Quando parla del mercato degli schiavi: un giovane uomo vale circa cento dollari. Una giovane donna circa la metà. All’inizio non voleva crederci. Poi cominciò a comprare lui stesso gli schiavi da questi mercenari. Per affrancarli.
    Dice che il prossimo anno in Sudan sarà ancora più povero di questo.
    Gli fanno notare che sta parlando del Duemila. Lui sorride e ripete il «prossimo anno». Il messaggio è chiaro: qui gli anni non hanno numero. Si susseguono e basta.
    Tutto è fermo. Morte dopo morte. Carestia dopo carestia. La storia è ferma per i poveri. Il progresso è nullo.
    Il prossimo anno siamo tutti invitati a Rumbek per vedere come procede il Duemila nella terra dei giacigli di paglia, delle cavallette che si alternano con le piogge per rovinare i miseri raccolti, della lebbra che cancella le mani.
    A chi gli domanda perché abbia scelto di fare il missionario, risponde di aver imparato da suo padre che durante la guerra, di notte, portava cibo a chi si nascondeva nelle campagne.
    Ha imparato in silenzio e da allora porta cibo a quanti vivono ancora nella notte della miseria, quella che non si riesce ad immaginare.
    Le mosche si posano ovunque e nessuno le scaccia.
    Lo specchio della nostra cattiva coscienza ha gli occhi sgranati e il ventre gonfio dei bambini che don Cesare accarezza parlandogli dolcemente nella loro lingua.
    E poi quando meno te lo aspetti, cantano. E sono bellissimi. Si aiutano battendo le mani e accennando passi di danza. Cantano la pace, spiega Don Cesare. Cantano la speranza.
    È nato a Brescia ma ha giurato alla sua gente che morrà tra di loro. Quando si allontana lo fa per portare la voce del Sudan che reclama cibo e dignità, ovunque vogliano ascoltarla. Spesso anche dove non vogliono. Reclama giustizia per le cinquanta persone che muoiono di fame ogni giorno.
    Gli domandano se davanti a questo orrore è ancora possibile affermare che gli uomini sono tutti fratelli. Risponde che in cuor loro è così; soltanto in questo periodo sono un po’ distratti. Sembra una trovata spiritosa, ma lui è serissimo. Un tantino dispiaciuto ma pieno di sole nello sguardo. Lo sguardo di un uomo che ha scelto di svuotare l’oceano con un ditale.
    Cerca sempre qualcosa in lontananza. Spera che un aereo atterri all’improvviso e porti cibo con sé. Quello consegnato l’ultima volta sta finendo.
    Spera ma sa benissimo che se non porterà lui stesso il suo piccolo ditale verso l’oceano, bussando a qualche porta e bussando ancora, non ci sarà aereo e non ci sarà cibo.
    Così si prepara a partire di nuovo.
    L’ultima domanda, forse la più indiscreta: Don Cesare è felice?
    Sorride. Sospira. Risponde di sì.


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