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    Un «itinerario» alla scoperta del bello



    Natale Maffioli

    (NPG 1999-08-34)


    «Ma se affascinati dalla loro bellezza
    arrivano a considerarli dei, sappiano che il Signore di queste cose
    è ancora più grande:
    colui che le ha fatte è la sorgente stessa della bellezza» (Sap 13,3).
    «Perché, a partire dalle creature grandi e belle,
    ci si può fare un’idea del loro autore al quale assomigliano» (Sap 13,5).

    Queste pagine vogliono essere unicamente una sorta di approccio ad un «itinerario» che ha come proposito la scoperta del vasto mondo dell’arte.
    Il problema dell’educazione ad una corretta fruizione dell’immagine e dei suoni è uno dei compiti specifici dell’educazione fin dai primi anni di vita. Questa consapevolezza è maturata in questi ultimi tempi grazie all’invadenza, sempre crescente, dei mass-media.
    Un incontro critico con il mondo delle immagini e dei suoni, prodotti dal cinema, dalla radio e dalla televisione, non può avvenire a scapito del patrimonio storico delle immagini, dei suoni e del nostro passato più o meno remoto. Il mondo dell’arte non possiede meno chances di altri ambiti culturali nel sollecitare una ricerca di senso; può anzi evitare alle nuove generazioni di rimanere impigliate, senza memoria e progettualità, nelle difficoltà e negli allettamenti caleidoscopici del presente.
    Ma è opportuno porre una premessa: educare al bello è possibile perché è bene il possesso del bello. Questo implica una precisazione sul possesso, non inteso come categoria negativa, come rapina di una presenza che deve essere per tutti, ma in termini positivi: di appropriazione come capacità di leggere in trasparenza le cose e nelle cose per cogliere l’ordine da cui sono profondamente segnate.
    Lo storico dell’arte E. H. Gombrich sostiene che, in fondo, non è così vero che l’esperienza estetica sia garante di una esperienza morale: alcuni tra i più grandi collezionisti della storia sono stati i più grandi tiranni. L’assunto non è condivisibile se si considera che il cuore dell’esperienza, per alcuni di questi, era legato al possesso inteso come disponibilità assoluta e all’esibizione compiaciuta del materiale artistico. L’opera d’arte era uno strumento di potere e una ulteriore affermazione di tirannia.

    Il mondo dei pregiudizi

    Un percorso formativo alla scoperta e al godimento del bello deve fare i conti con alcuni, radicatissimi, pregiudizi.
    Ecco il primo e più diffuso. L’arte è il campo d’azione degli oziosi o degli studiosi che hanno tempo da perdere ed è irrilevante ai fini educativi. Lo dimostra la scuola italiana con l’insegnamento, quanto pochi altri inutile, della Storia dell’Arte.
    Noi leggiamo e facciamo poesie, ammiriamo e produciamo delle opere d’arte non per compiacere una stretta cerchia di appassionati o una élite di ricchi commercianti, ma perché siamo uomini. L’attività del contemplare e produrre il bello è dell’uomo in quanto tale. F. Schiller giunge ad affermare che l’arte è fondamentale nella nostra vita perché ci apre alla dimensione della libertà.[1]
    E qui, unicamente per amore di immagine, viene spontaneo pensare ad alcune battute di un film che ha fatto fortuna pochi anni or sono: «L’attimo fuggente»; il film, pur senza porsi come trattato di pedagogia, offre spunti interessanti. Quanto dice il protagonista riguardo alla poesia è altamente suggestivo: «Non leggiamo e scriviamo poesie perché è carino. Noi leggiamo e scriviamo poesie perché siamo membri della razza umana. (...) La poesia, la bellezza (...) sono queste le cose che ci tengono in vita».
    L’esperienza che chiamiamo estetica non può essere ridotta ad uno svago, anche se, come vedremo meglio avanti, può avvalersi di tecniche ludiche per essere efficacemente comunicata. È una cognizione fondante della personalità umana, nel senso che sulla serena appropriazione del bello si devono fondare altre esperienze per vivere quella che V. Lanier chiama «una buona vita».[2] Questo incontro, che non può essere eluso, lo si deve fare, in un modo o nell’altro, ma certamente con risultati estremamente diversificati.
    Altro pregiudizio da debellare è questo: una cosa bella fa «spontaneamente» breccia nel cuore sensibile delle persone, perché tutti, anche se in diversa misura, sono «naturalmente» sensibili alla bellezza.
    Al riguardo basti la drastica affermazione di Nelson Goodman: «Non esiste occhio innocente. Quando si pone al lavoro l’occhio è sempre antico, ossessionato dal proprio passato e dalle suggestioni vecchie e nuove che provengono dall’orecchio, dal naso, dalla lingua, dalle dita, dal cuore e dal cervello».[3] Tutti siamo educati ed educabili.
    Bisogna poi mettere in guardia dal ripiegare su letture basate non su quanto si può veramente leggere in un’opera d’arte, ma su quello che vorremmo che l’opera fosse. I danni più gravi sono provocati da una deprecabile abitudine, tutta italiana, di ricercare nell’arte non significati, ma solo emozioni e sentimenti.
    Si sente dire che bisogna lasciare le cose dell’arte ai grandi o, almeno, a giovani che abbiano raggiunto una certa qual consapevolezza rispetto al mondo.
    Al contrario: a questo ulteriore pregiudizio si deve ribattere che è necessario iniziare precocemente ai valori del bello, con esperienze non settoriali o da specialisti. Partendo da esperienze attentamente predisposte e guidate, la cognizione renderà i giovani capaci di passare da una percezione globale a giudizi sempre più analitici.
    Altrettanto diffusa è l’idea che si possa stabilire una identità tra arte, come prodotto bello, e storia dell’arte.
    Certamente la conoscenza della storia dell’arte, ad un certo livello, è indispensabile per adire alla comprensione piena del fenomeno estetico e di conseguenza del bello; però, nell’itinerario formativo, non è indispensabile come disciplina strutturata, ma unicamente come concretizzazione del fenomeno e del campo d’azione nell’ambito estetico.
    Da ultimo, si devono debellare anche le più piccole ramificazione di un inveterato preconcetto che si oppone a questa evidenza: il linguaggio artistico non è un linguaggio simbolico, ma rappresentativo.[4]
    In questi ultimi tempi si assiste ad un largo utilizzo delle icone bizantine sia per la catechesi che per la decorazione di ambienti dedicati alla preghiera. L’icona bizantina ha significati e correlazioni col Mistero, che immediatamente sfuggono ai più e necessitano di una preparazione specifica non superficiale. Noi siamo figli del Rinascimento occidentale, non dell’Ortodossia orientale. Certo, si dirà che i contenuti delle icone bizantine si possono spiegare. Si corre però il rischio di sovrapporre le categorie interpretative riservate alle icone, e mal assimilate perché avulse dal contesto culturale, alle immagini cristiane prodotte dall’arte occidentale, con il risultato di ottenere dei letali fraintendimenti.

    Il compito di educare

    Il padre di Mardocheo, il futuro celebre rabbì di Lechowitz, si lamentava della pigrizia del figlio nello studio. In città giunse un santo rabbino. Il padre gli condusse Mardocheo perché lo correggesse. Il rabbino volle rimanere solo con il ragazzo, lo strinse al cuore e se lo tenne a lungo affettuosamente vicino. Quando il padre ritornò il rabbino gli disse: «Ho fatto a Mardocheo un po’ di morale; d’ora in poi la costanza non gli mancherà». Quando, ormai adulto e famoso, Mardocheo, divenuto rabbì di Lechowitz, raccontava questo episodio, diceva: «Ho imparato allora come si convertono gli uomini».
    Ogni atto educativo nasce da un profondo senso di responsabilità e di amore: l’educazione, come promozione globale della persona,[5] diceva don Bosco, è «cosa di cuore».
    E che l’educatore sia compreso da questo senso di responsabilità è determinante, perché una esperienza del tutto particolare, come quella del bello, deve essere assolutamente guidata e i giovani devono essere «condotti per mano».
    E poi, chi inizia un essere umano al bello non è soltanto un docente: c’è qualche cosa che va oltre il semplice rapporto insegnante-allievo; il vincolo che si instaura è paragonabile a quello con l’iniziatore alla preghiera, all’incontro con il Signore. Il rapporto vive di una vita speciale al di là del legame stesso.
    L’allievo deve sentirsi in dovere di «spremere» l’insegnante che gli fa da guida nei primi passi e lo accompagna nelle successive scoperte. L’insegnamento non è più frainteso: viene affrancato dalla seduzione come metodologia e dalla creazione di replicanti del docente come fine.
    La responsabilità di cui l’educatore si fa carico non è trascurabile. Valga a questo proposito un’espressione che, più che allarmata, definirei consapevole, di J. Maritain, là dove nel suo La responsabilità dell’artista scrive: «Ogni opera d’arte raggiunge l’uomo nelle sue facoltà interiori. Lo raggiunge più profondamente e insidiosamente di ogni proposizione razionale, sia una dimostrazione cogente, sia invece un sofisma.
    Perché lo colpisce con due terribili armi, l’intuizione e la bellezza, ed in ogni singola radice di ogni sua energia, intelletto e volontà, immaginazione, emozioni, passione, istinti e tendenze oscure».[6]
    L’azione formativa ha una sua nozione di base che deve essere comunicata con forza: la capacità di esperire il bello è un raggiungimento faticoso, che va perseguito con rigore, nel rifiuto delle mode e dei facili convincimenti legati al mondo del mercato d’arte. Certo non si raggiungono traguardi definitivi perché di un itinerario si tratta, fatto da innumerevoli mete.
    Se, con la complicità dell’educatore, i giovani comprendono che il cammino proposto conduce ad una scoperta straordinaria; che il mondo delle cose belle è inesauribile, anche se, appunto perché determinante per la loro vita, non è immediatamente raggiungibile, si può segnare un punto a favore di un primo positivo approccio, che vale tutti i libri che potranno essere letti in seguito.
    Da ultimo, una constatazione: la formazione, così com’è attualmente gestita, porta in genere ad abdicare precocemente dalla percezione sensitiva; a rinunciare ai sensi che sono il presupposto per «possedere» il mondo, per interiorizzarlo.
    Ed è proprio il caso di chiamare in causa non solo le discoteche o il KaraoKe, ma anche tutto un modo di fare scuola.

    Premessa ad una metodologia

    Prima di esemplificare una possibile metodologia per quanto limitata, è necessario prospettare alcune regole basilari della sua attuazione.
    La prima è quella di non parlare di opere appartenenti alle arti figurative di cui non si possa almeno mostrare la riproduzione; meglio se lo si può fare di fronte all’originale. Questo toglie l’educatore dal rischio di far consistere la sua azione nell’esibizione di un elenco di nomi più o meno oscuri.
    La seconda regola è quella di limitarsi alle autentiche opere d’arte, eliminando tutto ciò che è esemplare per un gusto o per una moda. Bisogna tenere ben presente che non esiste solo l’arte italiana o, al più, europea, anche se è buona regola partire da quei beni culturali che sono presenti sul territorio in cui vivono i giovani. Piazze, chiese, palazzi frequentati abitualmente devono essere i riferimenti di un primo approccio; le raccolte d’arte a portata di mano vanno visitate per prime. Se si deve orientare in quel campo nuovo che è il bello, è opportuno che gli esempi appartengano al campo del già visto e conosciuto, anche se in modo superficiale.
    Ultima norma, che pare in contraddizione con le altre: non attenersi mai ad una norma come assoluta; se si dovesse derogare ad una di queste si lasci al giovane la gioia di scoprire la contraddizione.

    Accompagnare raccontando

    Il racconto, con il suo bagaglio di suggestioni e di immagini, è una efficace metodologia per condurre per mano i giovani ad un approccio con il mondo del bello.
    Roberto Cotroneo, in un libro dal titolo Se una mattina d’estate un bambino, con un fare che, in contrasto con la notoria aggressività dell’autore, trasuda bontà, scrive una lunga lettera al figlio per aiutarlo a orientarsi tra i libri, ad amare i classici. È una sorta di itinerario all’Isola del Tesoro (è per questo che alcuni dei suoi personaggi immaginari portano il nome dei protagonisti del libro di Stevenson), dove non ci sono dobloni luccicanti, ma una conoscenza della vita. Cotroneo parla di una sorta di iniziazione alla musica supportata da immagini e odori emanati da un vecchio pianoforte verticale. «Sarebbe stato più normale essersi scoperto una passione per la musica dopo aver ascoltato un vecchio disco di Cortot che suona Chopin o di Benedetti Michelangeli che interpreta Debussy. Sarebbe stato, questo sì, un quadretto perfetto da tramandare ai propri figli. Invece, guarda un po’, fu l’odore del legno; un odore reso ancor più caldo dall’olio che serviva a lucidarlo».[7]
    Un’esperienza del tutto particolare fatta di racconto, ma che serve a capire come, nel campo della formazione al godimento del bello, non esistono strade «ereticali». Esiste la meta. Le strade si adattano alle reali possibilità dei formandi.
    Le prime esperienze in campo musicale non devono avere la pretesa di far acquisire una competenza strettamente legata alla produzione dei suoni, bensì alla capacità di orientarsi nel mondo musicale, di prendere coscienza della sua esistenza, oppure, se l’educando ha già una dimestichezza unilaterale, che esistono altri modi di fare musica.
    Credo valga per tutti gli iniziandi l’ascolto attivo del brano di Prokopfiev Pierino e il lupo. Si può animare l’ascolto insegnando a riconoscere il timbro degli strumenti, aiutandosi con l’identificazione narrativa del racconto. Il frammento iniziale presenta i personaggi della storia in rapporto con l’alter-ego musicale.
    Ad un livello superiore, si può presentare il lavoro di Mussorgsky Quadri di una esposizione. L’educatore dovrà commentare i vari brani e impegnare successivamente i giovani a tentare di riprodurre il soggetto dei dipinti che il musicista aveva realmente ammirato nella galleria. Non è cosa agevole perché il brano è musicalmente complesso e di non immediata lettura.
    Per un approccio didattico alla grande orchestra si può utilizzare con profitto il lavoro di Benjamin Britten: The Young Person’s Guide to Orchestra. Britten elabora in senso didattico un tema di Purcell, il Rondò da Abdelazer: in un primo momento propone il pezzo eseguito dall’intera grande orchestra, poi dalle singole famiglie di strumenti. Le tredici variazioni vedono impegnati, via via, con ruoli solistici i singoli strumenti accompagnati da altri strumenti del gruppo, facendo in modo che l’impasto sonoro non impedisca mai di percepire la voce di chi suona e di chi accompagna.
    La successione degli interventi tiene conto del dispiegamento dell’orchestra sinfonica moderna.
    Altri brani utilizzabili per un approccio accattivante alla grande musica possono essere dei brani a contenuto musicale onomatopeico.
    Ad esempio il Viaggio in slitta di Leopold Mozart (il padre di Wolfgang Amadeus); oppure gli episodi musicali che riproducono gli avvenimenti naturali distribuiti nella Sesta Sinfonia di L. van Beethoven, oppure nel Guglielmo Tell di G. Rossini o, le Quattro Stagioni di A. Vivaldi.
    Analogamente, per le arti figurative si deve preferire l’approccio storico a quello terminologico. Espressioni come forma, colore, spazio, volume e altre potranno essere affrontate con efficacia soltanto quando il giovane avrà stabilito un rapporto di vicinanza con il prodotto artistico.
    La musealizzazione ha ingenerato l’inconveniente di creare una sorta di distanza tra l’opera d’arte e il fruitore. Per un giovane che compie i primi passi nella comprensione del fenomeno artistico, la visita «forzata» e senza una specifica preparazione ad un museo potrebbe essere letale.
    È opportuno dare un’idea di vitalità mostrando il prodotto artistico inserito in un contesto in divenire, qual è il territorio di cui, per altro, il museo stesso fa parte con le sue vicende e la storia delle sue raccolte. Questo perché l’opera d’arte non è avulsa dal tempo, benché lo superi con l’essere un linguaggio universale.
    Un avvicinamento non indisponente al mondo delle cosiddette arti figurative lo si può compiere utilizzando un brano pittorico che sia il racconto, puntuale, di una storia simpatica e curiosa. Tra le tante che sono state illustrate sulle pareti di chiese e palazzi d’Italia, una delle più accattivanti credo sia la Leggenda dell’albero della Croce. Il lavoro letterario, scritto da un anonimo compilatore del secolo XIV (forse Jacopo da Varagine) partendo da un racconto del Vangelo apocrifo di Nicodemo, è stato pubblicato da Alessandro da Ancona nel 1870. L’artista che, meglio di altri, l’ha raffigurato con efficacia è stato Piero della Francesca, un pittore nato a Borgo San Sepolcro nel 1415 e lì morto nel 1492. Tra il 1448 e il 1459, il nostro dipinse la Leggenda Aurea sulle pareti del coro della chiesa aretina di San Francesco.[8] La descrizione degli avvenimenti è puntuale e immediatamente riconoscibile, anche se il pittore si è concesso, qua e là, alcune libertà. Le scene si succedono con passaggi nei vari quadri con cui è allestita la parete.
    Le fasi dell’incontro con il capolavoro possono essere queste: 1) raccontare agli alunni il contenuto della leggenda; 2) spiegare il perché le chiese costruite dai francescani sono sovente decorate con temi legati alla Croce; 3) chi era Piero della Francesca; 4) il suo metodo di lavoro e la tecnica dell’affresco; 5) l’utilizzo, quasi da cottimista, (con la tecnica dei «patroni») dei cartoni per gli affreschi della Leggenda; la novità della pittura di Piero, anche attraverso paragoni con opere coeve o con analoghi cicli, ma del secolo precedente (ad esempio quello di Agnolo Gaddi – attivo nella seconda metà del secolo XIV – in Santa Croce a Firenze).
    Durante l’accompagnamento, l’educatore dovrà valutare l’opportunità o meno di indurre i giovani a formulare una giustificazione motivata del loro gradimento, o non gradimento, dell’incontro con l’opera d’arte.
    Non ci sono molti sussidi in commercio dei quali ci si possa fidare nell’impresa che stiamo descrivendo. Vi sono ottime pubblicazioni presso alcune sezioni didattiche di musei italiani, ma non facilmente conoscibili e utilizzabili dal grande pubblico: ad esempio di L. Fornari Schianti (a cura di), Decifrare l’arte.
    Per la prima visita guidata ad un museo si dovrebbero privilegiare quelle realtà nelle quali si possono intravedere le preoccupazioni e il gusto del collezionista, oppure le istituzioni, in genere di ridotte dimensioni, nelle quali è rimasta una eco della «domesticità» primitiva. E qui è di obbligo ricordare la Fondazione Bagatti-Valsecchi o il museo Poldi-Pezzoli di Milano, la Museo Jatta di Ruvo di Puglia, oppure la Fondazione Accorsi di Torino. Senza contare della sorprendente varietà di oggetti e ricchezza di significati dei Musei Diocesani che stanno nascendo un poco in tutta Italia.
    Se poi ci si rivolge al museo famoso, è bene indirizzarsi a quelli presso i quali sono in funzione servizi didattici che potrebbero fornire itinerari e materiali introduttivi. La Galleria Nazionale di Parma e la Galleria degli Uffizi di Firenze, da questo punto di vista, sono tra le raccolte meglio dotate. Anche il piccolo Museo Civico di Casale (AL) è fornito di una sezione didattica interamente dedicata ad illustrare il divenire di un’opera scultorea.
    Architettura, arti figurative, natura si trovano in mirabile sintesi nei Sacri Monti. Una visita a questi luoghi della pietà popolare, con prodotti formali di altissimo livello, può offrire l’opportunità di immergersi in un continuum narrativo che colleghi gli avvenimenti che sono la causa della fondazione con la scelta degli episodi narrati nelle diverse cappelle; le modalità a cui ha fatto ricorso l’artista (scultore o pittore che sia) per descrivere gli avvenimenti evangelici e agiografici con gli ambienti in cui i complessi sono ospitati. Orta (NO), Varallo (VC), Varese, Crea (AL), tanto per citare i Sacri Monti più significativi, possono essere le mete di itinerari ampi ed articolati.
    Non si deve escludere la visita a monasteri: ai complessi «semplici» come Staffarda (CN), Casamari; a quelli riutilizzati per altri usi culturali come la certosa di Calci (PI); oppure agli organismi religiosi entrati in profonda simbiosi con il paesaggio circostante: valgano per tutti l’abbazia di San Galgano (SI) e il Sacro Speco di Subiaco (Roma), Monte Sant’Angelo (FO) sul Gargano.
    Vanno pure presi in considerazione quei centri urbani che lasciano intravedere, nella definizione del loro assetto, l’intervento consapevole di un architetto o di una collettività (in questo caso la consapevolezza non è sempre così immediatamente evidente); val la pena di presentare come esemplari l’Addizione Erculea della città di Ferrara e i Sassi di Matera.

    L’«adozione» come farsi carico

    La proposta è stata lanciata qualche tempo fa dai parroci di Venezia. Il patrimonio artistico della città lagunare è in gran parte custodito (sarebbe più appropriato dire incustodito) negli edifici di culto. L’idea è stata quella di gemellare una chiesa all’azienda che si impegna a sostenere una parte delle spese di gestione del sacro edificio.
    In altre città sono nate iniziative analoghe, ma al posto delle aziende si sono coinvolte le scolaresche: ogni scuola ha «adottato» un edificio storico della città e gli allievi si sono impegnati a studiarlo, a visitarlo e a farlo conoscere, in alcune occasioni e con visite guidate, ai compagni e ai genitori.
    È questo un approccio personalizzato ad un manufatto, che forse non ha un altissimo valore artistico, ma che di fatto inizia ad un dialogo fatto di interesse e di studio. Un simile rapporto non è necessariamente riservato ai giovani delle scuole superiori. La metodologia di base è estremamente versatile e può essere adattata anche ai ragazzi delle scuole elementari, con una indubbia efficacia dal punto di vista didattico.

    Un’esperienza storica

    Al termine di questa presentazione mi pare opportuno offrire la descrizione di una esperienza del tutto particolare, praticata nei secoli passati, durante la quale era incluso un avvicinamento esistenziale ai capolavori d’arte; mi riferisco al cosiddetto Gran Tour.
    Il contesto culturale era diverso dal nostro, come erano diverse le preoccupazioni dominanti, ma ritengo possa essere utile dare uno sguardo alla metodologia allora seguita.
    Il termine Gran Tour fa la sua comparsa nel lessico di viaggio con il volume di Richard Lassels,[9] là dove afferma: «Nessuno è in grado di comprendere Cesare o Livio come colui che ha compiuto il Gran Tour completo della Francia e il giro dell’Italia».
    In senso generale con l’espressione Gran Tour si voleva intendere un viaggio continentale, specie in Francia e in Italia, intrapreso da intere generazioni di aristocratici e di borghesi europei, in particolar modo inglesi, al momento di passare dall’età adolescenziale a quella adulta.
    Non era dunque unicamente un viaggio di piacere, anche perché le strade, i mezzi di trasporto e le stazioni di posta avrebbero immediatamente tolto ogni illusione al riguardo.
    Nel secolo XVIII, epoca in cui il fenomeno raggiunse il culmine, acquistò connotati di vera e propria consuetudine didattica.
    E, vista l’età dei grandtouristi (16-22 anni), dall’impresa ci si attendeva il coronamento di ogni buona educazione.
    Si pensava che tramite l’esperienza del «Grande Giro» il giovane acquisisse quelle doti di intraprendenza, coraggio, attitudine al comando, conoscenza del bello che erano necessarie ad un futuro moderno amministratore, politico o diplomatico.
    Al di là dei secondi fini che venivano attribuiti al Grand Tour, resta valido il principio che una educazione completa non poteva essere unicamente funzionale, ma doveva rendere il giovane capace di vivere nel mondo e di godere del mondo.

    Conclusione

    Una operazione come quella che abbiamo descritto, cioè l’approccio al mondo del bello, non può essere lasciata all’improvvisazione. È un’esperienza che deve essere confrontata lungo gli anni. Deve esserci una équipe che faccia un piano, un progetto lucidissimo e organico di coltivazione. Un insegnante non è solo quello che porta i giovani al museo, ma li porta all’opera e, in gita, spiega cosa è una poesia. È necessaria la disponibilità ad un rapporto tra persone, non sindacabile, anche quando questo avviene in un contesto di rapporto lavorativo.
    Non credo sia inopportuno presentare come modello il legame che ebbe Gesù con i suoi discepoli. Li ha educati e li ha formati, anche con lo spiazzamento e lo scandalo, in vista dei tempi della sua dipartita.
    Concludo con una citazione da E. H. Gombrich: «La vita sarebbe insopportabile se non ci si potesse mai volgere alla consolazione che può dare la grande arte. Bisogna veramente compiangere coloro che non hanno contatti con questa eredità del passato. Dobbiamo essere riconoscenti di poter ascoltare Mozart o guardare Velázquez, e tristi per coloro che non possono farlo».[10]

    NOTE

    [1] «La bellezza non è che libertà nel fenomeno»: F. Schiller, Kallias o della bellezza e altri scritti di estetica, Milano 1993.
    [2] V. Lanier, The Fourth Domain: Building a New Art Curriculum, in «Studies in Art Education» 28 (1986), n.1, pp.5-10.
    [3] N. Goodman, Languages of Art. An Approach to a Theory of Symbols, New York 1968 (ed. it. I linguaggi dell’arte, Milano 1976, p. 12). L’espressione «occhio innocente» è stata coniata da J. Ruskin. In un libricino intitolato The Elements of Drawing (Londra 1853) Ruskin afferma che se si vuole disegnare si deve dimenticare ciò che si conosce per poter semplicemente guardare.
    [4] Per una maggiore comprensione del problema cf D. Heribon-E.H. Gombrich, Il linguaggio delle immagini, Torino 1994, pp.55-74.
    [5] Aleksandr Solzhenitsyn denuncia che «dal sistema di rappresentazioni e motivazioni dell’uomo in modo sempre più distruttivo viene tolta la componente spirituale. Così è stata distorta tutta la gerarchia dei valori, deformata la comprensione della sostanza dell’uomo e dei fini della sua vita. (...). Già Blaise Pascal previde questo pericolo (...) Egli ammoniva: ‘L’essenza ultima delle cose è accessibile solo al sentimento religioso’»: A. Solzhenitsyn, La scienza alla frontiera del nuovo millennio. La citazione fa parte del discorso pronunciato a una tavola rotonda dell’Accademia delle Scienze di Russia; il testo è riportato a pag. 21 dell’inserto Domenica de Il Sole 24 Ore, 19 ottobre 1997.
    [6] J. Maritain, La responsabilità dell’artista, Brescia 1963, pag. 49.
    [7] R. Cotroneo, Se una mattina d’estate un bambino, ed. Frassinelli, 1994.
    [8] Per una sintesi efficace e completa, anche dal punto di vista didattico, vedi: J. Pope-Hennessy, Sulle tracce di Piero della Francesca, Torino, 1992.
    [9] R. Lassels, An Italian Voyage, or Compleat Journey through Italy (1697).
    [10] D. Heribon-E.H. Gombrich, Il linguaggio delle immagini, Torino 1994, pag.166.


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    Etty Hillesum
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