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    Salomé



    Gioia Quattrini

    (NPG 1999-06-44)


    Il re interruppe la danza e la musica tacque. La grande sala immobile come davanti le contorsioni di una serpe. Ansimava il petto della danzatrice. Piccole gocce di sudore lungo il collo bianco e levigato. Collo da regina. Collo da cigno, tornito e fragile. I capelli umidi di sudore ancora più ricci coprivano il volto, ma tutti sapevano quanto fosse intensa la bellezza di Salomé. Tutti sapevano. Lei per prima.
    Aveva imparato da subito, da sempre, a giocare con il desiderio degli uomini, spiando sua madre Erodiade, che tutto otteneva: la morte di uno schiavo insolente che non era stato abbastanza devoto, l’allontanamento di una serva colpevole di essere troppo avvenente, uno schiaffo al poeta per i suoi versi stupidi.
    Era ancora una bambina quando osservava con gli occhi sgranati, nascosta dietro una colonna, sua madre come una dea incedere verso la lunga cerimonia del bagno. Brocche colme di latte di capra perché il corpo fosse morbido sempre. Oli profumati d’oriente perché mai la pelle cadesse nella debolezza di una ruga. Unguenti di erbe preziose perché i lunghi capelli rilucessero come seta.
    E Salomé bambina aveva così imparato a curare i capelli, la trasparenza della pelle, il proprio corpo. Aveva imparato a truccare gli occhi, ad usare ogni tipo di cosmetico. Salomé aveva imparato: la tunica doveva stringere il seno, accarezzare i fianchi, trasparire sulle gambe, lasciare scoperte le spalle e la schiena.
    Aveva visto Giovanni, una volta, predicare, confusa tra la folla. Lo aveva guardato, sporco e lacero, vestito di peli di cammello, una lurida cintura di pelle intorno ai fianchi. Si diceva mangiasse locuste e miele selvatico. Lo aveva visto così e lo aveva amato. Giovanni feriva l’aria, pieno di ira e di fuoco, con le mani, con gli occhi, con la voce. Gridava con le vene del collo ingrossate.
    Non era la prima volta che un uomo tentava di sollevare un popolo contro il proprio re, disegnando regni di felicità e giustizia. A lei simili questioni non erano mai interessate, anzi, per dirla com’era, le erano sempre apparse farneticazioni senza dove. Quella folla di straccioni e di incapaci nutriva tali e tante sciocchezze che Salomé proprio non poteva comprendere. Uguaglianza? Con quale coraggio l’uomo che intrecciava squallide ceste, il corpo macilento e orbo da un occhio, poteva solo sognare di essere uguale al grande Erode Antipa, re forte e potente.
    Giustizia? Cosa poteva essere più giusto del fato che dispensava le nascite in ogni casa della terra senza regole o leggi. Il fato che, con la benda sugli occhi, aveva deposto lei in una reggia e la sua serva in un tugurio. Chi poteva dare la colpa a chi?
    Ma ascoltare Giovanni era diverso. Affogava l’animo in una passione che Salomé aveva conosciuto solo nel corpo. Cos’era? Follia? Forse. E Salomé da quella follia si sentiva travolgere. Sciocca tra quel popolo di miserabili e diseredati.
    Giovanni bruciava le labbra di parole audaci e Salomé vibrava per la prima volta a causa di un uomo, senza che questi l’avesse neppure toccata.
    Sentiva il proprio cuore accelerare e perdere i battiti, unico padrone di sé. Le avevano sempre insegnato che simili sensazioni rispondevano a precisi giochi dei corpi, a contatti seducenti e audaci. Ma tra lei e Giovanni non era mai esistito nulla di tutto questo. Quell’uomo non sapeva neanche della sua esistenza.
    Una sera, nell’andare a coricarsi si era confidata con la sua serva più anziana, a corte sin dalla sua nascita. Questa, sorpresa, aveva dapprima esitato, poi, davanti le sue insistenze, le aveva parlato dell’amore. Salomé aveva scoperto così il sentimento dopo averlo sempre confuso con il desiderio.
    Avrebbe voluto che Giovanni parlasse solo per lei. Voleva la passione di Giovanni per sé, stufa delle voglie supine e degli occhi acquosi che fino allora l’avevano blandita. Voleva il grido e la tempesta. Salomé voleva Giovanni.
    Aveva provato simili sensazioni solo domando il puledro più selvaggio del branco. Ancora ricordava il manto ruvido sulle sue gambe nude, le corse a perdifiato senza riuscire a tenere le briglie, infine la vittoria della resa. Il cavallo ribelle e veloce. Lei vincitrice senza che la sua avvenenza avesse alcuna importanza.
    Un giorno a corte si cominciò a parlare di lui. Qualche cortigiano, particolarmente solerte, era arrivato di corsa a riferire le parole del profeta sul re Erode. Giovanni gli intimava di restituire Erodiade al suo legittimo consorte e di cacciare così il peccato mortale finendola di giacere tutte le notti con la moglie del proprio fratello. «Non ti è lecito tenerla!», gridava senza paura quel folle.
    Salomé sorrideva a sentir parlare delle leggi del Signore. Solo Erode Antipa faceva e disfaceva le leggi, che nascevano unicamente dal suo capriccio. A corte non conosceva gente che badasse troppo con chi finiva per coricarsi nella notte, e lei stessa da qualche tempo aveva sorpreso nello sguardo del re accenni di desiderio e negli occhi di sua madre un mare di gelosia. Salomé già intuiva quella che sarebbe stata la conclusione della storia.
    Comunque l’intera reggia era stata offesa e coperta di vergogna ed Erode, pieno di ira, ordinò di arrestare Giovanni.
    Salomé prese l’abitudine di scendere nelle prigioni, e approfittando della penombra guardava quell’uomo digiunare e pregare, consumarsi, sempre più esile, quasi evanescente. Una larva ridotta a sola voce. Una voce tanto potente che l’eco giungeva fin nelle stanze più alte del palazzo, come provenisse dalle viscere della terra.
    Un giorno Giovanni si accorse di quella presenza silenziosa e cercò nelle pieghe del buio gli occhi di quell’ombra che da tempo scorgeva nell’oscurità.
    Salomé sentiva di sciogliersi all’intensità di quello sguardo che ora, per la prima volta, era rivolto a lei sola. Un pensiero la colse: farlo fuggire e fuggire con lui. Si vide con le vesti lacere e polverose, i capelli arruffati e la pelle cotta dal sole, seguire quell’uomo nelle sue predicazioni per le infinite strade dell’impero. Si vide stanca su giacigli di fango e locuste e miele selvatico, acqua sporca e digiuno. Ovunque una folla con cui dividerlo e probabilmente senza mai averlo davvero per sé, mai l’esclusività del suo amore.
    Salomé capì che la soluzione doveva essere un’altra: persuaderlo a restare con lei.
    E così giorno dopo giorno, senza che una sola parola venisse pronunciata, Salomé parlava a Giovanni con gli occhi. I suoi sguardi promettevano vesti leggere e olio profumato, letti da re dove coricarsi, acini d’uva dorata e raffinate leccornie. E infine la promessa di se stessa e di un tempo senza angustie e senza fine.
    Salomé prometteva e Giovanni ascoltava, steso per terra, il volto nella polvere. Venne il giorno che Salomé lo chiamò: «Giovanni!».
    Giovanni si alzò. Salomé ebbe un fremito. Anche Giovanni, per un attimo. Poi Salomé abbassò languidamente le ciglia e fu su quel gesto di malizia che si infranse l’attimo di Giovanni. Salomé giocava col corpo. Giovanni parlava con lo spirito, gridò la sua preghiera e si stese ancora sul terreno. Salomé seppe di aver perso. Venne via.
    Il bruciore della sconfitta, lo spregio del rifiuto, l’affanno del desiderio inappagato la affliggevano come un morbo sconosciuto, impossibile da curare. In verità lei sola aveva certezza di quale avrebbe potuto essere l’unico farmaco efficace. Salomé voleva Giovanni. A qualunque costo. Con disperazione. Senza pace. Nell’unico modo possibile per averlo.
    Per questo, messa a tacere la musica e interrotta la danza, ad Erode che chiedeva, Salomé rispose con forza: «La testa del Battista!».


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