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    A scuola quest’anno...


    Carlo Nanni

    (NPG 1999-02-3)

    1. Qualche mese fa, quando scesero in piazza gli studenti francesi contro il ministro dell’educazione del governo Jospin, qualche incallito ex-sessantottino immaginava che presto avremmo avuto anche in Italia, quest’anno, un autunno caldo a scuola: cortei, manifestazioni in piazza, occupazioni, autogestioni.
    Un po’ di occupazioni ci sono state, soprattutto in Toscana, ma non tante. Forse ha fatto da forza frenante la preoccupazione degli studenti e delle studentesse degli ultimi anni per il nuovo esame di maturità. Invece che occupare la scuola ci si è... occupati a «far prove» della prima o della terza prova (quella dei quiz «interdisciplinari» sulle quattro materie che saranno a base del colloquio dell’«esame di Stato», come si denomina nel «nuovo stile» ministeriale il tradizionale esame di maturità). La mancata solidarietà degli ultimi anni in vista di eventuali occupazioni ed autogestioni è stata, forse, coagulata anche dalla richiesta ministeriale delle preiscrizioni all’università, prima delimitate alla fine di novembre e poi prolungate al 22 dicembre, a Natale. Può bastare una richiesta simile, che in qualche modo investe il futuro – quel sempre più tremendo e sempre più incerto futuro, per la gran parte dei giovani – a non far venire la voglia di non pensare a troppe altre cose, a non avere troppi grilli per la testa?

    2. E tuttavia se non ci sono state le rituali occupazioni autunnali delle scuole, i giovani quest’anno sembrano muoversi solo per la scuola. Per una scuola che non sia degradata come ambiente materiale e come ambiente vitale. Per una scuola che risponda almeno minimamente alle esigenze che il mercato internazionale richiede inderogabilmente ai giovani e alle giovani che si affacciano all’età adulta e che trovano assolutamente non scontato poter partecipare al «banco del lavoro» e avere una occupazione lavorativa. Per una scuola che collabori effettivamente all’integrazione europea al fine che l’Europa non si riduca all’Europa dei mercanti, delle multinazionali, dell’Euro, della lotta per non restare schiacciati tra l’orso americano e la tigre giapponese, cinese, asiatica (che momentaneamente ha anch’essa i suoi problemi).
    Per questo gli studenti hanno protestato non solo con il ministro Berlinguer, che sconta le sue continue esternazioni e il suo frenetico attivismo riformatorio con una «querelle», quasi ininterrotta e sempre mutante, con loro, oltre con gli insegnanti e le altre parti politiche. Ma se la pigliano anche con il primo ministro D’Alema, come è avvenuto a Catania e un po’ anche a Lecce. E si scontrano con la polizia perché vogliono occupare la «scuola bene» di San Carlo di Milano. Perché, come dicono, anch’essi, quelli della scuola pubblica, vogliono una scuola che funzioni e non sia un immondezzaio o uno stabilimento in degrado. È questo che interessa, prima ancora che la questione della parità scolastica in se stessa (forse questione più dei grandi che di loro, più politica che vitale). In ogni caso si può andare alle trasmissioni televisive, come a «Pinocchio» di Gad Lerner, e litigare tra coetanei pro o contro la scuola «privata», la scuola cattolica, la scuola non statale, la scuola pubblica.

    3. Lo si voglia o no – quest’anno – la scuola «tira» nella mente dei giovani e delle giovani. Chissà se è perché (lo si avverte? sarà esatto?), almeno a livello aurorale, si capisce che ne va della cultura, dello sviluppo della vita: del proprio sviluppo, della propria vita, non solo o non tanto di quello generale o politico.
    E il futuro prossimo promette qualcosa di più sulla scuola. Con l’autonomia, con i nuovi organi collegiali (entrambi vicini alla dirittura di arrivo legislativo) gli studenti e le studentesse saranno chiamati spesso in causa: forse troppo e troppo spesso, come qualcuno già lamenta. Ma che con queste ed altre riforme o atti amministrativi (decreti ministeriali, circolari, note) e con le molte iniziative di riforma che sono sul tappeto (prime tra tutte il riordino dei cicli scolastici e la definizione dei saperi fondamentali della scuola di base), la scuola sarà – nel bene e nel male – sempre più nell’immaginario collettivo dei giovani: quell’immaginario sempre più pubblico, secolarizzato, civile, che riempie i pensieri e che accentra le preoccupazioni, fino a far passare in secondo piano pensieri, idee, modi di pensare, valori più larghi e più grandi: già ora ci si suicida o si entra in depressione («in paranoia» come dice il gergo dei giovani) per un voto negativo o per una bocciatura.

    4. C’è quindi da preoccuparsi in modo nuovo della scuola. Essa, dalla seconda guerra mondiale in poi, ha preso ad essere il luogo (o piuttosto, come alcuni direbbero, il «non luogo», per le condizioni disastrose e senza ordine e coordinazione in cui spesso viene a trovarsi) di incontro, se non di apprendimento, per la gran parte della popolazione giovanile e per la quasi totalità della popolazione preadolescenziale e adolescenziale. E c’è da chiedersi come aiutare a spendere al meglio i tempi lunghi della scuola (superiori, almeno in termini quantitativi, anche al tempo della televisione, della musica, del gruppo, degli amici e delle amiche, dello sport, del ragazzo o della ragazza; ed in qualche modo dello stesso tempo familiare: altro «non tempo» della vita dei giovani). Pensare di poterne non tener conto o non dar troppo peso alla scuola, affidandosi e sfruttando qualitativamente luoghi e momenti forti (molti di quelli citati sopra) non so se è realistico, stante questa tendenza politica in atto. Non credo che si è «sospettosi ad oltranza» pensare che un ministro della pubblica istruzione di formazione gramsciana e che un ministro della cultura della stessa area culturale (seppure mitigata dal democraticismo liberal-progressista americano), e non solo loro (perché, forse, si tratta di un «trend» culturale generalizzato), instradino la formazione delle nuove generazioni verso forme di cultura civile veramente laica e pubblica, quanto si voglia democratica, ma alla fin fine fondamentalmente economicistica, storicistica, materialistica, immanentistica.
    D’altra parte, in questa prospettiva, l’educazione e la formazione pubblica tenderanno sempre ad essere istruzione e formazione scolastica: si veda la tendenza della stessa formazione professionale che viene esautorata nella sua specificità regionalistica e professionale e che invece si tende a scolastizzare e far dipendere dal Ministero della pubblica istruzione. Ma si veda anche le prospettive dell’attuazione dell’«obbligo» formativo: innalzato, ma da realizzare «a scuola» (al più si concede che parzialmente possa venir effettuato in «sportelli» di servizi extrascolastici). E ciò in nome di preoccupazioni civili di tutto rispetto.
    Chissà quanto «statalismo» e laicismo c’è ancora da far calare! Ma non certo con rigurgiti di clericalismo o di anti-statalismo!

    5. A questo punto si capisce abbastanza agevolmente che la questione ha un forte risvolto pastorale, anzi di «nuova evangelizzazione»!
    La scuola – ripeto, nel bene e nel male – fa troppo parte del vissuto giovanile da non doverne tener conto in qualsiasi riflessione pastorale che voglia essere almeno minimalmente educativa (dovunque venga pensata e realizzata).
    Ma oltre che a livello personale non toccherà, per così dire, intervenire «alla fonte»? Vale a dire, non ci sarà da vedere come intervenire e caso mai incidere su questa tendenza «a mettere a regime»? Basterà la pastorale scolastica? Quale? Solo quella fatta a partire dalle diocesi, dalle parrocchie, dagli organismi ecclesiali centrali, dai movimenti ecclesiali di azione cattolica? Non si dovrà pensare ad una ricerca di animazione dall’interno, quasi secondo lo stile della Lettera a Diogneto, puntando su gli stessi studenti e studentesse, sulle associazioni professionali degli insegnanti e dei dirigenti (vedi AIMC, UCIIM, OPPI...)? Non ci sarà da provare ad aggregarsi con e tra chiunque è interessato a fare della scuola un luogo e un tempo di educazione, superando steccati, appartenenze, e ponendosi invece in una prospettiva ecumenica nel senso più vasto del termine? Non sarà da pensare a prendere sul serio la categoria della comunità educativa o forse meglio «gruppi di animazione» di studenti, studentesse, genitori, insegnanti, dirigenti, che si sentono «adunati» da una intenzione di educazione integrale? Non ci sarà da utilizzare gli strumenti legislativi a disposizione (a cominciare dallo Statuto dei diritti delle studentesse e degli studenti, approvato definitivamente il 29 maggio 1998, che sarà da integrare con i nuovi regolamenti relativi all’autonomia e agli organi collegiali)? E il cosiddetto «Progetto culturale orientato in senso cristiano» non dovrà operare dall’interno, secondo una dinamica di condivisione, di critica e di profezia, in quelli che saranno i documenti programmatici riguardanti i saperi fondamentali della scuola e gli standard di valutazione o le iniziative di orientamento scolastico?

    6. Quelle sopra esposte sono alcune delle domande più ovvie che mi vengono in mente. Dicono delle indicazioni strategiche ed operative e prospettiche. Saranno da approfondire. Ma già fin d’ora credo sia da prendere sul serio la situazione, leggerla pastoralmente, valutarla e prospettarsi un «che fare»: ineludibile e, a mio parere, improcrastinabile!


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