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    Il modello della rivista «Animazione Sociale»



    Roberto Maurizio

    (NPG 1998-07-31)


    Appunti autobiografici

    Non so suonare, non so cantare, non so ballare né disegnare od organizzare feste e non sono bravo in nessuna attività sportiva. Eppure mi sento e credo di essere un animatore.
    Credo di esserlo sin da piccolo: ho cominciato quando, ancora studente di scuola media, su invito del mio parroco, collaboravo al doposcuola in parrocchia per i bambini delle elementari.
    Ho proseguito, sempre in parrocchia, come animatore di bambini nell’oratorio; per poi, una volta arrivato nella scuola professionale, insieme ad altri compagni abbiamo autonomamente organizzato un’attività di sostegno tra studenti, dalle sette alle otto e trenta del mattino, per aiutare chi si sentiva in difficoltà su alcune materie.
    Il passaggio al lavoro in fabbrica lo ricordo con piacere misto a sofferenza: il piacere del lavoro concreto ma anche l’assurdità di certe regole determinate dal caporeparto del tipo «non si può parlare durante il lavoro», oppure «non più di due minuti per andare ai servizi o a prendere una bibita»: ecco che nasce il bisogno di contrastare tali soprusi (allora li chiamavo così) e insieme ad altri giovani colleghi organizziamo una sezione del sindacato promuovendo incontri e manifestazioni a cui, purtroppo, partecipiamo solo noi.
    L’incontro con il Gruppo Abele (avevo solo diciassette anni e mezzo) mi ha cambiato la vita.
    Ho avuto modo di trovare nel Gruppo un ambiente ricco di idealità, di amicizia, di tensione positiva che contrastava con le esperienze di impegno sino a quel momento vissute, ricche di bei momenti ma, anche, di molte delusioni.
    E così nel Gruppo ho cominciato a fare volontariato: in concreto cercavo con altri di stare con un gruppo di ragazzi nell’ambito delle attività di un gruppo sportivo a Mirafiori.
    E poi la grande scelta, stimolato da don Luigi Ciotti che mi invita ad aprire una finestra nella mia vita: lasciare la fabbrica e fare il volontario a tempo pieno.
    Ho avuto subito l’opportunità di partecipare ad un corso di formazione promosso dal Centro Sportivo Italiano per animatori socioculturali (con docenti come Mario Pollo, Roberto Grandis e altri) che tuttora ricordo come una tappa fondamentale nella costruzione del mio approccio all’azione sociale.
    Poco dopo la scelta del servizio civile, a cui già dalle scuole medie pensavo, che ha permesso di avvicinarmi al Movimento nonviolento, al MIR e successivamente alla Lega Obiettori di coscienza.
    Con altri obiettori abbiamo passato dei bei momenti ad organizzare manifestazioni a favore dell’obiezione di coscienza (in Piemonte eravamo in tutto venticinque) nonché iniziative di sensibilizzazione sui temi della nonviolenza e della pace.
    L’ingresso come operatore in una comunità per adolescenti in difficoltà è stato un momento importantissimo perché mi ha costretto a fare i conti, non più a parole o per poche ore, lungo tutto l’arco della giornata con i miei limiti, difetti, problemi e aspetti da maturare nella relazione con gli adolescenti e con gli altri operatori.
    La frequenza alla Scuola triennale per educatori della FIRAS ha completato il percorso iniziato nel corso animatori ed ha permesso di colmare alcune lacune, di acquisire strumenti di analisi e lettura dei problemi educativi che prima non possedevo.
    I passaggi successivi nel Gruppo sono avvenuti senza più porsi il problema sul che fare nella vita: ormai la mia vita era quella e, dopo avere lasciato la comunità ho cominciato ad occuparmi del Centro Studi del Gruppo Abele e, quasi contemporaneamente, ho cominciato a svolgere un’attività esterna al Gruppo di supervisione-formazione con educatori di una cooperativa.
    La commistione tra attività di studio-ricerca e documentazione, e attività di formazione è il filo conduttore che mi porto dietro sino ad oggi.
    In tutti questi anni ho partecipato ad esperienze e situazioni belle ed entusiasmanti, fonte di apprendimenti: ho imparato ad organizzare e gestire incontri, a stare con gli altri, a coordinare progetti e persone, a fare ricerca, formazione, redazione di riviste (prima Aspe e poi Animazione Sociale), consulenza.
    All’interno e all’esterno del Gruppo Abele ho avuto la possibilità di scoprire e sperimentarmi – alcune volte con incoscienza forse – in pratiche, metodologie e tecniche nuove.
    Di tutto ciò devo ringraziare tante persone, che ho conosciuto nel Gruppo e fuori da esso, che sono state importantissime (penso a Don Ellena, a Domenico Sereno Regis, a Beppe Marrasso, a Monsignor Nervo, a Carlo Trevisan) per la mia formazione. Sicuramente il Gruppo Abele è stato un punto di riferimento umano e professionale centrale così come mia moglie è stata fondamentale nel permettermi di vivere così intensamente il lavoro e l’impegno.
    Nel piccolo dell’apporto che sono riuscito a dare alla storia dell’animazione ho cercato di pormi a fianco di… (persone, gruppi, comunità) per condividere storie, cammini, avventure, senza la presunzione di essere in grado di insegnare agli altri cosa fare ma cercando di imparare insieme, cercando di lavorare sul piano dei diritti e dei doveri delle comunità locali e degli individui, cercando di scoprire insieme in una prospettiva di socialità.
    Certo non sempre ciò è riuscito, così come non sempre si è riusciti a superare problemi e difficoltà, a trovare le soluzioni adatte alle necessità, ma sicuramente non è mai mancato l’impegno della ricerca, così come quello concreto nel fare, «tirandosi su le maniche e dandosi da fare» o, come meglio mi sembra di dover dire, «sporcandosi le mani».
    Ciò che maggiormente credo di avere imparato in tutti questi anni è che la sola azione di aiuto a persone che per vari motivi sono in difficoltà, non è sufficiente senza lo sviluppo di una complementare azione di sensibilizzazione sociale, di mobilitazione politica quando necessaria (e molte volte in questi anni si è ritenuto fosse necessaria), di promozione culturale, di sviluppo animativo ed educativo.
    Passione, curiosità, interesse e rispetto per gli altri e le loro storie, voglia di provarsi ma anche di giocare e studiare, desiderio di cominciare anche dopo errori e fallimenti, senso di responsabilità sono, in sintesi, gli aspetti che maggiormente caratterizzano la mia storia come animatore-educatore e che tuttora rimangono vivi e forti.

    ALLA RICERCA DEI CONFINI DELL’ANIMAZIONE SOCIALE

    Ho pensato varie volte a come sviluppare il contributo che mi è stato richiesto ed ho pensato, alla fine, di utilizzare questo occasione come una preziosa possibilità di rilettura dei miei venti anni di animazione.
    Ho vissuto questa come occasione per mettere a fuoco un cammino personale che è dentro il percorso di sviluppo dell’animazione sociale e per precisare a me stesso i debiti di riconoscenza che ho contratto in questi anni con le persone e le organizzazioni con cui ha avuto la fortuna e il piacere di lavorare. In questa storia gli incontri e le persone conosciute hanno fortemente influenzato il mio agire e il mio essere: i molti stimoli ed interrogativi lanciati sono stati via via raccolti, anche se non tutti in modo adeguato.
    Grazie a questa occasione sono ritornati alla mente episodi e situazioni da tempo dimenticati in quanto lontani nel tempo, e ho avuto la possibilità di chiedere a me stesso cosa ha significato sentirsi ed essere animatore venti anni indietro e ora: venti anni fa le leve principali del mio essere animatore erano l’entusiasmo e la voglia di cambiare, anche se ad esse si affiancava una ridotta capacità di comprendere le situazioni e di problemi, mentre ora c’è, forse, minore fretta ed esigenza di agire e di cambiare affiancate da una maggiore capacità di calarsi nelle situazioni per comprenderle.
    Questa attività di lavoro autobiografico mettendomi di fronte all’animazione sociale mi ha costretto a precisarne il significato per poter poi comunicare qualcosa sull’animazione sociale. Mi sono chiesto, soprattutto, perché occorresse usare il termine «sociale» per descrivere ciò che ho cercato di fare in questi anni e ciò che ho cercato di essere, quasi come se esistesse una «animazione non sociale», o, forse peggio ancora, una «animazione asociale».
    Ho così consultato alcuni recenti dizionari, per cogliere contributi utili in questo piccolo itinerario di ricerca.
    Un primo contributo è rintracciabile nel recente Sabatini Coletti: alla voce «sociale» ne parla come aggettivo e sostantivo, con origine dal latino socialem, derivazione di socius, «compagno, socio».
    «Sociale» come aggettivo indicherebbe:
    1. che vive in società, in comunità;
    2. relativo alla società umana e ai rapporti che nell’ambito di essa si stabiliscono;
    3. nel linguaggio politico ed economico, che tende a migliorare le condizioni di vita dei cittadini meno abbienti, a realizzare una maggiore perequazione tra le varie componenti di una società o anche, nel linguaggio comune, chi presta opera, per conto di enti privati o pubblici, a categorie di persone in difficoltà.
    «Sociale» come sostantivo indicherebbe, invece, il campo sociale, la socialità, con particolare riferimento ai settori più emarginati o problematici della società.
    Un secondo apporto l’ho trovato nel recente Dizionario di pedagogia di Bertolini (Zanichelli) che, a proposito di «sociale», sottolinea come indichi tutto ciò che si riferisce ad una società civile, con particolare riguardo al problema dei diritti e dei doveri della comunità come tale e di ciascuno dei suoi membri. Nel discorso pedagogico, prosegue, il termine sociale è più propriamente usato per indicare l’apertura all’altro che deve caratterizzare ogni individuo maturo.
    Gallino nel suo Dizionario di Sociologia (UTET) propone il termine «sociabilità» che merita uno sguardo attento. Egli spiega come questo termine, di origini latine (sociabilitas), si è affermato nel lessico sociologico moderno al posto di socialità, per designare sia la disposizione generica degli esseri umani a stabilire con gli altri un qualche tipo di relazione sociale – a seconda dei casi spontanea, organizzata, solidale conflittuale, strumentale o di per sé gratificante – sia le molteplici manifestazioni concrete di tale disposizione sotto forma di gruppo, associazione, comunità, massa, sulla base di determinati tipi di bisogno e di interesse.
    In queste definizioni sono descritti in modo adeguato i confini entro cui si colloca la storia di quella che viene definita «animazione sociale» e penso di potermi riconoscere completamente in essi.
    Questi appunti uniti ad altri contributi culturali per me preziosi, come quelli di Demetrio, Ellena, Floris, Pagliarini, Pollo e tanti altri, mi permettono di delineare alcuni punti di sintesi, degli ideali confini dello spazio sociale entro cui si colloca idealmente l’animazione sociale (o socioculturale), e che possono essere individuati nei seguenti:
    – la comunicazione, in quanto, gran parte dell’intervento animativo consiste nella cura della comunicazione tra individui, tra essi e le organizzazioni sociali, tra queste. Diventa essenziale per chi svolge attività di animazione saper comunicare ma anche saper utilizzare, ascoltare, comprendere ed entrare in relazione con altri modelli comunicativi, con linguaggi diversi da quelli abituali;
    – la quotidianità è lo spazio dell’animazione, in quanto gli interventi si collocano nel «qui ed ora» delle persone, dei gruppi, delle comunità. Ciò porta l’animazione a curare l’attenzione nei confronti dei particolari, delle vicende piccole, degli aspetti più nascosti della vita quotidiana al fine di valorizzarli, dare loro uguale dignità dei momenti «forti», uguale valore dell’eccezionalità;
    – la territorialità, cioè il luogo in cui si radica l’animazione. Non ha senso un intervento animativo valido indistintamente per tutti i posti, poiché l’incontro tra persone, gruppi, e comunità produce sempre nuove situazioni, stimoli, condizioni di sviluppo per un intervento di animazione che deve, perciò, sempre essere unico e originale, elaborato proprio in ragione degli elementi. Territorialità vuol dire anche recupero della storia, delle radici, delle culture che abitano il territorio; vuol dire riconoscere in esso un soggetto – non solo uno spazio – nel contempo fattore di disagio e fattore di prevenzione; vuol dire ricercare i soggetti e le realtà che lo abitano per renderle protagoniste del proprio posto di vita;
    – i contenuti (messaggi, immagini, sollecitazioni, ecc.) perché l’animazione non è neutra. Con l’animazione si accendono interessi, si provocano stupori e movimenti, si generano azioni, si creano condizioni per possibili cambiamenti. Interessi, stupori, movimenti, azioni, cambiamenti in quale direzione si muovono? L’animazione non può eludere questa domanda assumendo solo la posizione di chi organizza l’evento senza assumersi la responsabilità di ciò che in esso avviene. L’animazione è, inevitabilmente, dichiarazione del proprio quadro di riferimento (valori, punti di vista, prospettive culturali e sociali, ecc.) in una dimensione di dialogo e confronto.
    Questo atteggiamento non implica necessariamente trasmissione di valori, ecc., quanto condivisione e costruzione di maggiori opportunità di scelta, quindi di libertà per gli individui, i gruppi, le comunità.

    APPUNTI PER UNA STORIA DELL’ANIMAZIONE SOCIALE

    È possibile ora prendere in considerazione lo sviluppo storico delle pratiche che si richiamano all’animazione sociale nel nostro paese rappresentate, sia storicamente che tuttora, dalla rivista «Animazione sociale» diretta da don Ellena dal 1961 e gestita, da dieci anni, dal Gruppo Abele.
    In questo tentativo partirei dalla situazione attuale, in quanto è innegabile che l’animazione sociale è andata sempre più affermandosi come una pratica sociale altamente significativa pur se oggi le strade dell’animazione sono divenute infinite. Una tale esplosione di attività di animazione va valutata positivamente – in quanto segno di vitalità, di accresciuta sensibilità sociale e culturale – ma ad uno sguardo attento deve suscitare dubbi e perplessità, per l’evidente rischio di dilatazione e svilimento dell’idea di animazione.
    In effetti, oggi, per animazione sociale si rischia di identificare qualsiasi forma di intervento nel territorio che finisce per lasciare solo sullo sfondo il significato sociale, culturale e politico dell’animazione.
    Credo sia più corretto, invece, ritrovare l’animazione sociale nelle attività di prevenzione del disagio; nei laboratori teatrali ed espressivi; nell’animazione sportiva, musicale, artistica; nei centri sociali, nei centri di aggregazione per anziani, giovani, adulti; nelle attività culturali e di informazione nel territorio; nel recupero dei soggetti marginali e devianti; nelle attività sociali centrate sul gioco (ludoteche, ecc.), sull’alfabetizzazione ed educazione degli adulti; sulla difesa e sviluppo del patrimonio culturale ed ambientale; sulla formazione; sulla cooperazione internazionale; sul volontariato, sull’associazionismo, sulla cooperazione sociale; nelle attività di promozione e sviluppo di comunità.
    Se in questo elenco è rintracciabile la mappa delle pratiche sociali che – attualmente – si richiamano all’animazione sociale, è doveroso risalire alle loro origini.

    Alle origini dell’animazione sociale

    Le radici dell’animazione sociale sono da rintracciare nelle esperienze promosse fin dagli anni Cinquanta da esponenti del socialismo umanitario e del solidarismo cattolico che cercavano di affrontare con scarsi mezzi e molto entusiasmo i problemi connessi allo sviluppo sociale, culturale ed educativo di intere fasce di popolazione marginali o in condizioni di deprivazione sociale e culturale. Sono le esperienze a cui idealmente si collegano le molteplici azioni di volontariato a cui oggi siamo abituati.
    Le radici dell’animazione vanno, però, ricercate anche nelle esperienze di animazione nella scuola che, alla fine degli anni Sessanta, tentano le prime esperienze di ricerca teatrale con i bambini nella scuola dell’obbligo.
    Queste esperienze, unitamente ad avvenimenti che prefigurano un processo di rinnovamento della scuola, favoriscono il diffondersi di un dibattito su tematiche quali l’educazione permanente, la descolarizzazione, la scuola-laboratorio, l’aggiornamento professionale, le nuove tecniche e i nuovi linguaggi, il territorio, i centri polivalenti e incoraggiano il fiorire di iniziative sperimentali.
    L’animazione sociale ha assorbito gli umori culturali, le spinte al cambiamento, le tensioni sociali e politiche della contestazione studentesca e sociale di quegli anni ed ha esteso alla società complessiva quanto veniva sperimentato nella scuola: in particolare l’animazione nel territorio ha cercato di favorire lo sviluppo di modi nuovi di comunicare e vivere le relazioni sociali e il protagonismo delle persone: sono state così riprese le tematiche della partecipazione attiva, della creatività applicata al sociale, del non autoritarismo.
    L’animazione sociale ha però attinto anche:
    – dalla tradizione orientale, molto esplorata negli anni Sessanta-Settanta, assumendo l’immagine dell’uomo come intero (corpo-psiche), nonché la ricerca di dimensioni contemplative e ludiche contrapposte alle spinte verso il produttivismo;
    – dal movimento femminista il valore della riscoperta e la riappropriazione del corpo, delle emozioni e dei sentimenti.
    Da questo primo periodo di vita dell’animazione sono andati evidenziandosi due prime prospettive centrali per l’animazione sociale:
    – l’animazione, come metodo di intervento sul gruppo e sulla singola persona nel gruppo, produceva risultati significativi non soltanto sul piano della socializzazione e della stimolazione di capacità, ma anche per la formazione della personalità e per il superamento di alcuni condizionamenti;
    – gli utenti a cui l’animazione poteva rivolgersi non erano soltanto i bambini, ma anche i giovani, gli adulti, gli anziani: in altre parole, si trattava di una metodologia che basava la sua efficacia su alcune esigenze e dimensioni così radicate nell’individuo da dimostrarsi valide e coinvolgenti a qualunque età e condizione.
    La fine degli anni Settanta rappresenta, per l’animazione, il momento di massima espansione, ma anche un momento di crisi e di vivace dibattito sulle sue funzioni e sulle sue potenzialità.
    Dopo gli entusiasmi del periodo precedente, in cui l’animazione parve rappresentare, per molti, l’utopistica scorciatoia verso una liberazione personale e sociale, era giunto il tempo di misurarsi con la realtà e di verificare seriamente l’efficacia di un metodo, i suoi fondamenti teorici, i suoi limiti e le sue peculiarità.
    Nel frattempo l’attenzione è andata concentrandosi sul territorio, sugli interventi nel sociale.
    Contemporaneamente anche i pubblici amministratori hanno cominciato ad accorgersi della esistenza di queste pratiche, di questa nuova metodologia e di questi operatori (gli animatori), ed hanno cominciato conseguentemente a impiegarle sempre più frequentemente in settori del servizio sociale (giovani, anziani, handicappati, tossicodipendenti, malati di mente, ecc.) ove più fortemente si avvertiva l’urgenza di individuare un modo nuovo di operare, più vicino ai bisogni della utenza, più capace di promuovere partecipazione, protagonismo, socializzazione.
    La situazione degli anni Settanta vede una richiesta di animazione nel territorio crescente, espressa prevalentemente dagli enti pubblici, ma confusa, spesso velleitaria e strumentalizzante, sovente incapace di valorizzare l’animazione nel suo ruolo specifico.
    Con gli anni Ottanta appaiono le prime analisi approfondite degli animatori operanti nel sociale, che evidenziano una più attenta sistematicità. Si giunge ad un tentativo di definizione di animazione, da molti accettata tuttora: «una pratica sociale finalizzata alla presa di coscienza e allo sviluppo del potenziale represso, rimosso o latente, di individui, piccoli gruppi e comunità» in cui è possibile ritrovare la lezione dell’animation socioculturelle francese.
    Nonostante questi possibili terreni di sviluppo, gli anni Ottanta registrano un brusco ridimensionamento dell’animazione cui corrisponde, fortunatamente, il consolidarsi di alcune esperienze di ricerca e di professionalità.
    Sono gli anni dello sviluppo delle politiche giovanili nell’ambito degli enti locali, dell’avvio delle prime esperienze consistenti di formazione degli animatori, di dibattito intorno al futuro dell’animazione come testimoniano le tre conferenze nazionali sull’animazione promosse negli anni 1981, 1982, 1986 dall’ISAMEPS e dall’AIATEL.
    Gli anni Novanta concentrano sempre più le pratiche animative in funzione di tre tipologie di destinatari: i giovani, gli anziani, le comunità territoriali.
    I giovani in quanto rappresentano un’emergenza sociale, fonte di innumerevoli preoccupazioni per la forte connessione con le dinamiche del disagio (tossicodipendenza, AIDS, devianza, ecc.), gli anziani per l’emergenza sociale derivante da una presenza sempre più ingombrante sul piano sociale e le comunità territoriali per il venire al pettine di tutti i nodi collegati agli sviluppi urbanistici, economici e sociali degli anni Sessanta e Settanta.
    Sia con i giovani che con gli anziani l’animazione si è sempre più misurata con un mandato sociale di prevenzione del disagio, dei conflitti e dell’emarginazione al fine di un loro positivo inserimento nella vita sociale (per i giovani) o dell’individuazione di nuove modalità di apporto alla società (per gli anziani).
    Con le comunità territoriali l’animazione è sempre più confrontata con le questioni connesse all’emergere di conflitti sociali, di isolamento, di perdita di senso, di assenza di relazioni significative tra le persone, di distanza tra istituzioni e cittadini, di perdita di ruolo della politica e della partecipazione sociale e al prevalere di istanze di tipo individualistico-particolaristico.
    Ma gli anni Novanta sono il periodo in cui emergono con forza contraddizioni e limiti derivanti da un insieme coagente di fattori: il venire meno di risorse economiche interne agli enti pubblici, la concentrazione delle risorse sempre più in relazione a fondi costituiti ad hoc su problemi sociali (prevenzione della droga, della criminalità, dell’AIDS) al centro dell’attenzione dei mass media, lo sviluppo del Terzo Settore (cooperative ed associazioni), l’utilizzazione sempre più frequente della formula della gara di appalto quale criterio per l’assegnazione degli incarichi.

    Gli scenari futuri

    È difficile delineare gli scenari futuri dell’animazione sociale: sono diversi quelli possibili, e la realtà attuale, con le contraddizioni e ambiguità che la contraddistingue, ma anche con le sue potenzialità, è in grado allo stesso tempo di validarli tutti e nessuno.
    Qualche segnale si sta delineando ma in modo ancora grezzo. Forse una spinta notevole potrà essere apportata dal processo di unificazione europea che solleciterà i paesi membri al riconoscimento delle professioni (profilo, percorso di accesso alla professione, formazione, ecc.) in vista di un progressivo interscambio di lavoratori.
    L’animazione ha ancora un ruolo importante da svolgere nella società d’oggi per costruire quella di domani... Se ciò è vero le responsabilità sociali e culturali di chi svolge interventi animativi aumentano in modo considerevole.
    A questo proposito riporto un breve passo di una recente intervista a Don Ellena in occasione dei venticinque anni della sua rivista, che in modo egregio illustra il senso dell’animazione sociale per il futuro prossimo.
    «Sono proprio le situazioni, sempre più ricorrenti, di precarietà economica, di vuoto culturale, d’intolleranza ideologica, di opposizione d’interessi, di diversa visualizzazione delle cose, di scarsa partecipazione alle decisioni d’interesse pubblico, di non scorrevolezza nella trasmissione di disposizioni, di non funzionalità dei servizi elementari, di non coordinamento degli interventi, di ingiustizia distributiva... che impediscono all’animazione l’inattualità, che le aprono orizzonti operativi immensi.
    Infatti, in tutte queste situazioni, che bisogna ostinarsi a considerare anomale e devianti, occorre introdurre fattori di equilibrio, che ne favoriscano il superamento, il raddrizzamento. Per questo è necessaria la presenza di animatori culturali. Persone che sappiano immergersi nella concretezza dei problemi, con sensibilità e intelligenza. Senza farsene travolgere. Persone attente ai bisogni del tempo, al disagio che è in aumento soprattutto tra le file dei giovani. Il maggior tempo libero a disposizione non sempre vuol dire maggior tempo di sviluppo, anzi, non di rado è tempo d’involuzione, e questo anche perché mancano animatori socioculturali che lavorino sul territorio».

    UN PROFILO DELL’ANIMAZIONE SOCIALE

    Ma cos’è oggi l’animazione sociale? Per rispondere adeguatamente a questo interrogativo ho provato a rileggere documenti e materiali sull’argomento e ho ritrovato un documento, alla cui stesura avevo partecipato insieme a Don Ellena, P. Branca, R. D’Alessio, S. Pighi, L. Regoliosi, R. Casamenti ed altri, che è stato pubblicato nel 1988 su «Animazione Sociale» (n. 11 e 12).
    A distanza di dieci anni ritrovo in quel documento molti elementi di precisazione sull’identità dell’animazione sociale (socioculturale) che ritengo totalmente aderenti alla realtà attuale dell’animazione.
    Propongo, pertanto alcuni stralci di quel documento a cui rimando per una lettura completa.
    Il contesto attuale in cui l’animatore socioculturale si trova ad agire presenta come elementi di fondo:
    – l’individuazione sempre più precisa del territorio come spazio socioculturale e relazionale di base per lo sviluppo di ogni azione sociale;
    – le dinamiche contrapposte di promozione e di opposizione al cambiamento delle condizioni di vita in contesti di comunità territoriale, così come all’interno delle istituzioni;
    – la prevenzione come modello di riflessione, di ricerca e di operatività concreta che spesso rimane però indicazione inattuata, od attuata solo parzialmente senza la scelta delle opzioni reali di fondo, ed alla quale viene talvolta preferita una politica dell’immagine;
    – la riabilitazione come processo collegato al contesto territoriale e alle dinamiche relative alla prevenzione;
    – la normalità come dimensione di vita all’interno della quale attivare processi di relazione e di ricerca delle potenzialità comunitarie che riguardino tutti, e non solo minoranze più o meno socialmente controllate;
    – problematiche specifiche dell’emarginazione e del disagio che non diventano occasioni di presa di coscienza collettiva, ma modalità di separazione e di rottura nei rapporti civili e di cittadinanza.
    Una visione globale e complessa del territorio permette di identificarlo e di guardare ad esso come ad una unità, definita da confini geografici, culturali e politico-amministrativi. Questa unità può essere espressa dal concetto di comunità territoriale o comunità locale (quartiere, paese, città, ecc.) in cui si vengono a determinare, in un processo ciclico di interdipendenza, gli aspetti (economici, politici, sociali e psicologici) che influenzano la qualità della vita dei cittadini.
    Entrano nel gioco delle interdipendenze diverse parti, fra cui:
    – le dimensioni psicosociali: le persone, i gruppi (informali e formali), e i collettivi (organizzazioni, istituzioni, associazioni, ecc.);
    – i bisogni, i problemi, le capacità e le risorse (strutturali ed economiche) delle dimensioni psicosociali;
    – valori, credenze, norme, simboli comuni della comunità;
    – ruoli, atteggiamenti e comportamenti codificati;
    – processi di influenzamento, partecipazione, relazione, produzione, ecc.
    Le sempre più numerose e diverse espressioni del disagio (emarginazione, devianza, ecc.) possono essere considerate un prodotto dei processi di interazione, vissuti nel quotidiano del proprio territorio.
    Nel pericoloso scollamento tra soggetti e comunità di appartenenza, tra società ed istituzioni, l’animazione socioculturale si pone come elemento di raccordo tra i soggetti frammentati e fra questi e le istituzioni.
    Viene così a definirsi il campo d’intervento privilegiato dell’animazione sociale. La prevenzione è il campo privilegiato, in special modo quella primaria.
    Nel contesto territoriale gli altri processi, connessi alla prevenzione, che determinano i confini del campo d’intervento dell’animatore, sono essenzialmente:
    – la partecipazione dei singoli e dei gruppi (informali e non) alla vita della comunità;
    – le situazioni di cambiamento (relazionale, lavorativo, ecc.);
    – lo sviluppo del senso di comunità; attraverso il potenziamento del «tessuto» della comunità, per far sì che la stessa possa massimizzare l’integrazione fra le persone e l’ambiente.
    Interagendo su questi processi l’animatore lavora sul crinale normalità/devianza, in modo che la comunità attivi processi consapevoli volti ad autopromuovere il contesto umano e sociale.
    Il lavoro di autopromozione della comunità ha le radici in una premessa che indirizza, in modo specifico, l’intervento dell’animatore nel territorio.
    Il focus dell’animatore del territorio è diretto ai processi di cambiamento.
    Vengono prese in considerazione (riconosciute) le competenze psicosociali della stessa comunità.
    La prospettiva in cui si viene a delineare l’intervento di animazione, è la «comunità competente», cioè «una comunità capace di riconoscere i propri bisogni e di mobilitare e impiegare le risorse necessarie per soddisfarli».
    L’animazione deve allora essere una strategia per promuovere il contatto fra cittadini, associazioni ed istituzioni.
    L’animatore ha la funzione di istituire un collegamento diretto, continuo e dialettico tra micro e macro. È consapevole della necessità di un approccio globale ai problemi derivati della settorialità/settorializzazione e dalla parcellizzazione dei tempi, delle attività e dei gruppi sociali (tempo di lavoro/tempo libero; giovani/adulti; scuola/lavoro; ecc.).
    In questa direzione si vengono ad evitare ulteriori interventi massicci e massificanti che trovano il loro limite nella nozione di complessità (interventi dal macro al micro; interventi dall’esterno sulla cultura della collettività).
    Gli sforzi devono essere diretti a una valorizzazione dei processi più che dei prodotti. Si intende privilegiare lo sviluppo di relazioni tra le persone, tra i gruppi (formali e informali) e fra i gruppi e la comunità. Mentre siamo in una situazione culturale che legittima e promuove il consumo di prodotti-oggetto (attività, situazioni, ecc.) e degli ambienti (natura, strutture, ecc.).
    Con questo orientamento l’animatore del territorio opera sui processi relazionali, con interventi interagenti secondo il modello di «rete».
    Uno dei fattori che mobilita la partecipazione della gente è il riconoscimento dei bisogni/problemi sentiti e dei soggetti stessi che li esprimono (il problema e chi lo esprime sono considerati una risorsa).
    L’animatore si occupa di far emergere e di promuovere la presa di coscienza dei bisogni sentiti dalle persone e dai gruppi della comunità. L’attenzione prevalente è posta alla legittimazione dei problemi, alla loro percezione e definizione. Le modalità e i processi di soluzione vengono ricercati all’interno dei soggetti della comunità. Si attiva, così, un processo non lineare (problema-soluzione) che coinvolge le reti dei soggetti (formali ed informali) nella identificazione e soluzione dei problemi.

    METODO E STRUMENTI NELL’ANIMAZIONE

    Il metodo e gli strumenti dell’animazione aprono un campo di riflessioni amplissimo, inesauribile: in questa sede è possibile offrire alcuni spunti di analisi.
    In particolare desidero uscire dalla solita descrizione del metodo come la sequenza di fasi quali l’analisi dei bisogni, la definizione degli obiettivi, la realizzazione degli interventi e la verifica, per addentrami invece in un terreno diverso: provo a considerare alcuni aspetti forse inusuali, per me importanti.

    Caratteristiche del metodo

    Chi promuove un intervento/progetto di animazione occorre si rappresenti (si prefiguri, si immagini, ecc.), nella propria mente, ciò che vuole realizzare: quali finalità, obiettivi, destinatari, azioni, ecc. Il metodo può essere quindi assimilato ad una mappa, una rappresentazione della realtà per non procedere solo per prove ed errori.
    - In questa prospettiva un primo elemento di caratterizzazione della metodologia animativa può riguardare proprio i soggetti a cui essi intendono rivolgersi: l’elemento più significativo che emerge in molte esperienze, infatti, è la consapevolezza dell’esistenza di molteplici adolescenze, piuttosto che di molteplici adulti, anziani, ecc. Non è sufficiente dire «adolescenza» o «adulti» o «anziani» per parlare correttamente di ciascun «concreto» adolescente, adulto, anziano: occorre che sia conosciuta ed accolta la multiformità e la unicità delle persone.
    Conoscere ed accogliere rafforzano l’idea che alla base di un intervento/progetto di animazione vi debbano essere, da un lato, un consistente lavoro di riflessione sulle immagini e rappresentazioni che si hanno dei destinatari dell’intervento e, dall’altro, un atteggiamento di accoglienza incondizionata dell’altro in quanto soggetto «protagonista», con i suoi bisogni e le sue attese ma anche con le sue paure, ansie, dubbi, ambiguità, ecc. Conoscere ed accogliere sono, quindi, precondizione per attivare energie, per mettere in moto, per permettere la crescita, il cambiamento, lo sviluppo.
    Il metodo in animazione viene così ad esprimersi per la tensione continua verso la conoscenza dell’altro (l’adolescente e il suo sistema di relazioni e di significati, così come la comunità, i suoi soggetti, le sue reti, ecc.), che nel contempo è anche esplorazione di se stessi, del proprio modo di pensare, giudicare, valutare. Non vi può essere accettazione della complessità del reale se non vi è la consapevolezza (conoscenza ed accettazione) della propria complessità.
    In questa direzione la dimensione della ricerca così enfatizzata acquista un valore non formale: si tratta di privilegiare ciò che osserva, descrive e racconta piuttosto che ciò che spiega e definisce.
    Solo così sarà possibile far sì che il progetto diventi vicino al «reale»: ciò significa tensione continua verso il tenere conto della concretezza delle situazioni particolari, degli eventi, delle storie delle persone e delle comunità per costruire insieme a questi elementi (e a partire da essi) storia.
    - Un secondo elemento di caratterizzazione del metodo può individuarsi nell’approccio «processuale».
    La capacità previsionale, nel caso dell’agire umano, è assai limitata e nessun esito di tipo sociale e educativo può essere garantito. Ciononostante la dimensione processuale può costituire un elemento di forza del metodo in quanto essa accetta che la realtà venga costruita lentamente, poco alla volta, attraverso un faticoso lavoro di negoziazione (con tutto il carico derivante dal dover reggere la «fatica» del prendere decisioni, del vivere conflitti, dell’accettare la dimensione emotiva dell’agire sociale) tra le parti in gioco: ad esempio amministratori, funzionari, tecnici, operatori, comunità locale nel suo complesso.
    In questa prospettiva lungo il percorso vengono acquisiti nuovi elementi di conoscenza sul contesto, sui bisogni e sui problemi, sui soggetti e sulle risorse disponibili e attivabili, sulle competenze necessarie e su quelle esistenti e, di conseguenza, si rende possibile un lavoro di rielaborazione continua delle finalità, degli obiettivi, delle azioni, degli strumenti sempre in vista della valorizzazione dell’uomo e della comunità.
    - Un terzo elemento di caratterizzazione del metodo può essere individuato nella dimensione della libertà: si può parlare di metodo nel momento in cui le azioni e il modo di gestirle lasciano intravedere una forte attenzione alla libertà, alla possibilità di partecipare e aderire o meno.
    Il rapporto con l’incertezza si presenta quindi come un aspetto correlato al tema della libertà: si tratta di lavorare ogni giorno, senza certezze e sicurezze, per costruire le condizioni necessarie a far sì che i soggetti coinvolti siano progressivamente in grado di costruire un futuro (qualsiasi esso sia) della situazione in cui sono implicati. In questa prospettiva assume particolare importanza la capacità di privilegiare un continuo lavoro di osservazione ed esplorazione del proprio modo di vivere l’incertezza alla ricerca degli elementi che permettano, effettivamente, di costruire un futuro alle cose (relazioni, oggetti, situazioni, ecc.).
    - Un quarto elemento di caratterizzazione del metodo può essere intravisto nella centralità della dimensione relazionale e in particolare della relazione all’interno della dimensione di gruppo. Con ciò non si intende sottostimare la rilevanza della relazione duale, ma riconoscere che la peculiarità del realizzare animazione sia proprio l’avere a che fare con le persone nelle dimensioni di gruppo (gruppo-classe, gruppo spontaneo, gruppo nel centro di aggregazione, gruppo di promozione territoriale, gruppo di genitori, ecc.).
    L’animazione sociale promuove il gruppo come luogo di incontro, scambio e progettualità, sostiene gruppi esistenti, favorisce l’integrazione tra gruppi operanti nel territorio, costruisce occasioni permanenti o meno di coordinamento tra realtà, associazioni, enti pubblici.
    La quantità innumerevole di tipologie di gruppi propone all’animazione l’esigenza di un profondo lavoro di studio e ricerca sui gruppi, sul loro processo di vita, sulle loro dinamiche, sulle situazioni tipologiche di difficoltà, ecc.
    - Una quinta caratteristica del metodo deriva dall’alto valore attribuito al fare insieme, così come al dialogo e alla parola.
    Agire, significa misurarsi con la dimensione del costruire concretamente (un torneo piuttosto che un corso, una rappresentazione teatrale piuttosto che una manifestazione musicale, ecc.), con le capacità che ciascuno possiede ma che sovente non conosce, con le capacità del singolo e le capacità, ma anche la complessità del «fare» in gruppo, con la capacità di costruire e realizzare progetti. Parlare, significa misurarsi con la dimensione dell’attribuzione di significati alle parole, con la capacità di raccontare/rsi e descrivere/rsi vissuti, esperienze e relazioni, con la capacità di argomentare; significa recupero del valore della parola, della costruzione di legami tra parole ed esperienze, recupero del passato (la storia, le emozioni, le idee, ecc.), del presente (le emozioni, i sentimenti, le opinioni, ecc.) e del futuro (le speranze, le prospettive, le preoccupazioni, ecc.). In questa prospettiva assume particolare importanza la capacità di favorire e sostenere l’utilizzo di modalità espressive diversificate e di favorire la sperimentazione di pratiche attive diversificate.

    Gli strumenti

    Porsi l’interrogativo sugli strumenti significa provare a capire quali strumenti abitualmente usa l’animatore, quanto essi siano esclusivi e quali siano coerenti con la prospettiva culturale e metodologica dell’animazione.
    Nelle esperienze che ho vissuto concretamente, e in quelle che ho potuto conoscere approfonditamente, l’animazione ha utilizzato alcune pratiche ricorrenti: la consulenza, la formazione, la ricerca.
    Spesso l’animatore viene a contatto con realtà (istituzioni e terzo settore) che manifestano intenzioni valide ma non hanno competenze dirette: all’animatore viene prospettata nei fatti una richiesta di consulenza necessaria per creare le basi e le condizioni utili allo sviluppo dell’intervento.
    È possibile evidenziare tre possibili modelli di azione consulenziale.
    Un primo modello è quello in cui l’animatore, coinvolto in qualità di esperto, fornisce informazioni o competenze specifiche.
    Un secondo modello è quello in cui all’animatore viene chiesto di effettuare una diagnosi e di formulare delle soluzioni necessarie per risolvere dei problemi identificando le competenze da acquisire. In questo caso vi è la percezione di un problema o di un’esigenza di sviluppo e viene affidata all’animatore consulente il compito di diagnosticare con precisione di quale problema si tratti o come procedere nella prospettiva dello sviluppo.
    Il terzo modello è sempre finalizzato alla risoluzione di un problema o allo sviluppo di innovazione ma in modo processuale. Alla base vi è una diversa prospettiva: la premessa centrale è che chi formula la richiesta consulenziale «possiede» il problema dall’inizio e per tutta la durata del processo consulenziale, e l’animatore consulente può aiutarlo a trattare il problema senza mai appropriarsene. In altri termini, la consulenza implica un lavoro attivo con i diversi soggetti interessati in quanto questi possono utilizzare tale occasione come opportunità di apprendimento delle modalità per affrontare problemi di lavoro. In questo terzo modello l’animatore, più che essere esperto del tema, è competente sul piano relazionale e delle dinamiche di lavoro in gruppo.
    Questi tre modelli possono trovare concretizzazione in modo differenziato in relazione sia ai diversi livelli di attese dei soggetti implicati che alle diverse situazioni (ad esempio, maggiore o minore confusione ed incertezza sulla propria situazione) ma soprattutto in relazione ai diversi modi di pensare alla consulenza non solo di chi eroga la prestazione (l’animatore consulente) ma anche di chi richiede l’aiuto (l’Ente locale o la realtà del terzo settore). Si tratta cioè di considerare attentamente chi sono concretamente i soggetti implicati: l’animatore può trovarsi a lavorare con l’amministratore o un gruppo di amministratori, oppure può trovarsi a lavorare solo con la persona che esercita funzioni di direzione o coordinamento del Progetto oppure, qualora esista, con un gruppo di coordinamento; infine potrebbe trovarsi a lavorare con gli operatori, e più in specifico con gruppi esistenti o con operatori che solitamente non lavorano in gruppo, e infine con soli operatori pubblici oppure con gruppi di operatori sia pubblici che del privato (associazionismo, cooperative, ecc.), oppure solo del privato. È evidente che ciascuna di queste situazioni propone specificità che caratterizzano la situazione consulenziale e che chiedono al consulente attenzioni supplementari oltre a quelle già indicate.
    Considerazioni quasi analoghe si possono svolgere sulla formazione, in quanto questo strumento è spesso utilizzato dall’animazione per favorire processi di apprendimento in adulti (genitori, insegnanti, ecc.) piuttosto che in adolescenti: può favorire apprendimenti su tecniche specifiche od incidere sulle logiche che presiedono alle scelte e alle decisioni professionali. Può altresì occuparsi di questioni etiche e misurarsi con i valori fondamentali che guidano l’azione professionale e personale.
    L’interesse di chi, in animazione, utilizza la formazione dovrebbe concentrarsi sui modelli di formazione piuttosto che sulle tecniche e sulle modalità concrete di sviluppo dell’intervento formativo.
    Si tratta di vedere, cioè, quale modello formativo sia più coerente con la prospettiva culturale e metodologica dell’animazione e quale apporto ciascun modello garantisce all’animazione.
    In generale si fa riferimento a tre modelli di formazione:
    – nel primo caso i contenuti vengono essenzialmente trasmessi dagli esperti alle persone che non li posseggono con modalità tradizionali centrate soprattutto sulla lezione;
    – nel secondo caso, pur rimanendo nella prospettiva trasmissiva, lo sviluppo formativo privilegia modalità attive (lavori di gruppo, confronto, esercitazioni, ecc.);
    – nel terzo caso il conseguimento dei risultati attesi dà luogo ad un percorso contrattuale, cioè negoziato tra animatore e soggetti interessati alla formazione, in modo da privilegiare il processo di rielaborazione dalle esperienze.
    La riflessione sulla natura dei processi formativi, sulla natura dei risultati conseguibili tramite investimenti formativi ha portato a dare molto rilievo alla fase di negoziazione, che rappresenta un momento preliminare e attivante la formazione stessa. In essa si realizza un incontro tra diverse responsabilità: della committenza, dei destinatari, degli animatori formatori, dei responsabili tecnici e politici, di altre soggettività interessate al lavoro formativo.
    Anche per quanto riguarda la ricerca l’animazione sovente è chiamata a costruire percorsi di conoscenza, esplorazione, indagine su temi e oggetti attinenti l’intervento dell’animatore.
    Anche in questo caso vi è un duplice aspetto da prendere in considerazione: da un lato quello tecnologico, inerente le competenze tecniche necessarie per impostare un piano di ricerca, gli strumenti, le modalità di analisi e interpretazione dei dati raccolti, ecc. e, dall’altro lato, quello culturale, inerente il senso dell’attività di ricerca nell’ambito dell’intervento complessivo di animazione.
    Ci si può trovare di fronte a situazioni completamente diverse: ricerche che hanno la finalità di raccogliere dati per conoscere o per prendere decisioni, ricerche che riguardano tutti o solo alcuni dei soggetti coinvolti dall’intervento, ricerche che vengono costruite con i diretti interessati o che vengono realizzate da esperti.
    Nella prospettiva di animazione che ho provato a descrivere, il modello di ricerca che maggiormente risulta coerente è la ricerca-azione o ricerca-intervento: la centratura sulla complementarietà della conoscenza e dell’azione offre all’animatore opportunità notevoli di esprimere appieno le potenzialità dell’animazione.

    Per concludere e aprire il confronto

    Due riflessioni a conclusione di questo contributo.
    La prima è relativa al rapporto tra il modello di animazione sociale e quello dell’animazione culturale del CSPG.
    Io non credo che questi modelli siano molto distanti l’uno dall’altro, anzi ritengo che i presupposti culturali e la metodologia siano sostanzialmente molto vicini, se non simili.
    Al massimo è possibile cogliere delle differenze in ordine alle pratiche concrete e agli strumenti utilizzati.
    Penso, in sostanza, che esista per il futuro uno spazio di incontro e di convergenza, pur nel rispetto della diversità delle storie e dei processi evolutivi di ciascuno dei due modelli, tutto da praticare.
    Ho conosciuto in giro per l’Italia molti animatori impegnati positivamente nell’animazione culturale del CSPG che hanno sviluppato anche attività di animazione sociale: l’incontro e lo scambio avviene soprattutto nelle situazioni concrete soprattutto, e penso in particolare al mezzogiorno d’Italia, quando i bisogni sociali – riferiti ai giovani e agli adulti – sono rilevanti e le risorse sociali scarse. In tal caso il senso di responsabilità sociale, politica e culturale permette di individuare campi ed ambiti nuovi da sperimentare.
    Un segno positivo in questa direzione è sicuramente la nascita di molte cooperative e associazioni di intervento sociale a partire da esperienze di animazione culturale CSPG che sono diventate una risorsa per le comunità locali.
    Allo stesso modo l’incontro con operatori «laici», di enti locali e di cooperative sociali che operano con adolescenti in Centri di aggregazione giovanili ha evidenziato la necessità di approfondimenti culturali ed educativi forti. Le proposte del CSPG, soprattutto quelle relative al percorso animativo-educativo di gruppo, sono un contributo utilissimo per tutti gli operatori.
    La seconda riflessione è legata alla questione della figura professionale dell’animatore.
    Anche se la linea di tendenza sembra essere quella del riconoscimento della figura professionale dell’animatore (vedi delibere della Regione Lombardia e della Regione Piemonte) continuo a ritenere che nel futuro si debba giungere alla messa a fuoco di un’unica figura professionale di educatore-animatore, cioè di un operatore capace di gestire processi animativi e processi educativi. Certamente questa prospettiva, oggi osteggiata dagli uni e dagli altri (mi riferisco alle associazioni professionali), mi sembra sia l’unica che possa permettere la piena valorizzazione delle esperienze sin quei condotte in completa situazione di deregolazione normativa. Lo sviluppo di questa prospettiva propone però sia al mondo dell’educazione professionale che a quello dell’animazione professionale un profondo lavoro di revisione dei modelli di intervento e delle prassi operative.

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