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    Una nuova inculturazione della fede nel nostro tempo


    Bartolomeo Sorge

    (NPG 1986-06-12)


    La frattura tra fede e cultura è stata definita da Paolo VI «il dramma della nostra epoca».[1] E, in effetti, il nodo principale oggi da sciogliere nell'evangelizzazione del mondo contemporaneo è il nuovo rapporto tra fede e cultura, che siamo chiamati a instaurare all'interno della società secolarizzata e pluralistica.
    Ora, a vent'anni dal Concilio, dobbiamo riconoscere che nella Chiesa c'è una divisione proprio su questo punto nevralgico: cioè sul modo d'intendere e di riattivare il rapporto tra la fede e la cultura.
    Non si tratta di una divisione di poco conto o superficiale, perché la diversa impostazione del rapporto fede-cultura nasce da un diverso modo d'intendere alcune fondamentali acquisizioni del Concilio, quali il primato dell'evangelizzazione, la dimensione storica della salvezza, l'accento sulla Chiesa «mistero» piuttosto che «società perfetta», la laicità e l'autonomia delle realtà temporali.
    Perciò, non è esagerato affermare che il modo diverso d'intendere il rapporto fede- cultura riconduce, in ultima istanza, a ecclesiologie diverse, a modi differenti di porsi di fronte al mondo moderno, a modelli non coincidenti di tradurre in termini pastorali la «presenza sociale» della Chiesa (su cui tanto insiste Giovanni Paolo II). Il Sinodo straordinario del 1985 è venuto a chiudere praticamente, in forma ufficiale, un ventennio (1965-1985) che passerà alla storia come il «primo post concilio». Tra i problemi che esso lascia in eredità al «secondo postconcilio», il più grave forse è proprio questo: quale rapporto instaurare tra fede e cultura, nel presente momento di trapasso culturale? Dalla corretta risposta a tale questione fondamentale dipende in gran parte il cammino della Chiesa nel mondo di domani, cioè la piena realizzazione del Concilio stesso. Perciò, tutti auspichiamo che il Sinodo del 1987, dedicato a studiare la vocazione e la missione dei laici nella Chiesa e nell'evangelizzazione del mondo contemporaneo, sia l'occasione propizia per chiarire finalmente quegli aspetti teorici e pratici del rapporto fede- cultura, che ancora fanno difficoltà.
    Nel frattempo, a stimolare il dibattito, può giovare richiamare i dati essenziali del problema e le diverse implicazioni di soluzioni contrastanti, che occorre saper ricondurre a una sintesi superiore.

    IL PROBLEMA

    Diamo per acquisto il nesso necessario che intercorre tra fede e cultura. Infatti - rileva Paolo VI - sebbene la fede e l'annuncio cristiano «non si identificano con la cultura e sono indipendenti rispetto a tutte le culture, tuttavia il Regno che il Vangelo annunzia è vissuto da uomini profondamente legati a una cultura, e la costruzione del Regno non può non avvalersi degli elementi della cultura e delle culture umane». Perciò - conclude il Papa - «indipendenti di fronte alle culture, il Vangelo e l'evangelizzazione non sono necessariamente incompatibili con esse, ma capaci di impegnarle tutte, senza asservirsi ad alcuna».[2]
    Infatti, la rivelazione cristiana è un messaggio di Dio all'uomo: a ciascun uomo e a tutti gli uomini, di ogni tempo e di ogni luogo. Ma la parola di Dio - proprio per poter giungere a tutti, per esser compresa e liberamente accolta - deve passare necessariamente attraverso un processo d'incarnazione, di traduzione nella cultura, nelle culture. Come avviene questo passaggio? Come realizzare l'incontro tra Vangelo e cultura, nel contesto di una società non più evangelizzata, ma secolarizzata, non più culturalmente omogenea, ma pluralistica? Per rispondere a questi interrogativi, è necessario avere chiari gli elementi essenziali del problema. Compiremo, dunque, quattro passi.
    In primo luogo, vedremo che storicamente ci sono stati due modi diversi di vivere il rapporto fede-cultura: quello della «inculturazione», caratteristico soprattutto degli inizi del cristianesimo, più proprio cioè del contesto di una società non evangelizzata; e quello della «cristianità», caratteristico soprattutto dell'età medievale e più proprio del contesto di una società già evangelizzata e culturalmente omogenea.
    In secondo luogo, vedremo che la Chiesa - dopo che il mondo moderno ha condotto alla rottura tra fede e cultura - ha reagito conservando una profonda nostalgia della cristianità perduta. Poi, mutati i tempi, non ha mancato di formulare - con Pio XII e con Maritain - il progetto di una «nuova cristianità». Con ciò si intendeva venir incontro alla necessità di ristabilire il rapporto interrotto tra Vangelo e cultura; ma l'ipotesi di ridare vita a un modello di «cristianità» si è rivelata ben presto improponibile, sia in seguito alle profonde trasformazioni della società contemporanea, sia in seguito alla crescita che la Chiesa ha fatto con il Concilio nella conoscenza della sua natura e della sua missione.
    Perciò, in terzo luogo, vedremo più particolarmente quali sono le premesse poste dal Concilio, le quali consentono oggi una formulazione diversa più matura e corretta, del rapporto fede-cultura, muovendo da un giudizio storico più sereno sul mondo moderno e da una rinnovata riflessione teologica sulla Chiesa.
    Infine, da tutti questi elementi, sarà facile concludere che l'ipotesi di una «restaurazione» della cristianità, per quanto aggiornata, oggi non appare proponibile: l'unica via di un rapporto maturo e corretto tra fede e cultura, nel contesto di una società secolarizzata e pluralistica (qual è la nostra), è quella di una rinnovata «inculturazione». Una adeguata comprensione di questo processo porterà al superamento della lamentevole polarizzazione tra fautori della «presenza» e fautori della «mediazione», che a vent'anni dal Concilio affligge la Chiesa.

    FORME STORICHE DIVERSE DEL RAPPORTO FEDE-CULTURA

    I modelli storicamente significativi, in cui - nel passato - s'è tradotto il rapporto fede-cultura, sono stati soprattutto due: quello della «inculturazione» del messaggio evangelico nelle diverse culture, a mano a mano che il cristianesimo veniva a contatto con esse; e quello della «cristianità», che ha caratterizzato soprattutto l'esperienza medievale.

    La «inculturazione del cristianesimo primitivo

    Non tocca a noi rifare qui la storia della primitiva inculturazione del cristianesimo, a cominciare dal tentativo di san Paolo all'areopago di Atene (cf At 17, 22-31) e dall'opera evangelizzatrice degli Apostoli e dei Padri della Chiesa in un contesto «pagano» o «non cristiano»: rinviamo, per questo, agli ottimi studi specialistici già esistenti, limitandoci a riprendere le conclusioni che più ci interessano.[3]
    La Chiesa primitiva iniziò la sua opera di evangelizzazione, esprimendo il mistero cristiano nei termini della cultura giudaica, nel cui ambito si compì l'incarnazione.[4] Nei secoli immediatamente seguenti, lo stesso messaggio fu annunziato e spiegato da uomini appartenenti alla cultura ellenistica e poi, via via, i grandi concili ecumenici fissarono i simboli e le confessioni di fede con termini e concetti presi da culture diverse dalla prima. Cosicché, lo stesso Concilio Vaticano II ha potuto affermare: la Chiesa, «fin dagli inizi della sua storia, imparò a esprimere il messaggio di Cristo ricorrendo ai concetti e alle lingue dei diversi popoli: e inoltre si sforzò di illustrarlo con la sapienza dei filosofi: allo scopo, cioè, di adattare, quanto conveniva, il Vangelo, sia alla capacità di tutti, sia alle esigenze dei sapienti. E tale adattamento della predicazione della Parola rivelata deve rimanere legge di ogni evangelizzazione. Così, infatti, viene sollecitata in ogni popolo la capacità di esprimere secondo il modo proprio il messaggio di Cristo e, al tempo stesso, viene promosso uno scambio vitale tra la Chiesa e le diverse culture dei popoli».[5] In altre parole, l'evangelizzazione - alla luce di quanto avvenne nei primi tempi del cristianesimo - si compie passando attraverso due momenti che costituiscono il processo di «inculturazione», il quale fu il primo modo di realizzare il rapporto fede- cultura nel contesto di una società pagana non evangelizzata. Il momento iniziale sta nello sforzo di rendere comprensibile e vivo il Vangelo agli uomini di una data cultura, traducendolo efficacemente nelle forme, nel linguaggio, nei simboli di essa; senza di ciò, la parola di Dio resterebbe umanamente lontana e incomprensibile. Il secondo momento (strettamente complementare al primo e altrettanto essenziale) sta nello sforzo di rinnovare dall'interno la cultura in cui il Vangelo è annunziato, per aprirla a una visione plenaria dell'uomo, della vita e della storia.
    Perciò, l'inculturazione non è un «accomodamento» del Vangelo a mentalità e a costumi mutevoli, nel senso che - per renderlo accettabile - esso vada «ridotto» ad alcuni suoi aspetti o annacquato! Pari- mente, «inculturazione» non è sinonimo di «eclettismo» o di «sincretismo 0, quasi si tratti di mettere insieme elementi eterogenei, presi alcuni dalla fede cristiana e altri dalle differenti credenze religiose o concezioni culturali. Neppure è la ricerca di una minima verità comune (una specie di minimo comun divisore), per accontentarsi di questa, rinunciando all'annuncio integrale di tutta la verità. L'inculturazione, invece, è un processo aperto che, muovendo degli elementi positivi (e contraddicendo quelli negativi) di una data cultura, la faccia evolvere verso un'accettazione sempre più piena della verità quale risplende in Cristo.
    «Tutto ciò - commenta il Concilio - è di vantaggio anche per la Chiesa»:[6] grazie allo sforzo di inculturazione, nella Chiesa «cresce la comprensione, tanto delle cose quanto delle parole trasmesse, sia con la riflessione e lo studio dei credenti (...), sia con l'esperienza data da una più profonda intelligenza delle cose spirituali, sia per la predicazione di coloro i quali con la successione episcopale hanno ricevuto un carisma sicuro di verità»; così «la Chiesa, nel corso dei secoli, tende incessantemente alla pienezza della verità divina, finché in essa vengano a compimento le parole di Dio».[7] Dunque, il vero senso della inculturazione sta nel riconoscere che il rapporto fede-cultura è intrinseco ed essenziale all'evangelizzazione; che non c'è servizio cristiano al mondo, senza un confronto aperto e leale con le culture, senza lo sforzo di mediare la fede e il Vangelo nella storia e nel costume di coloro a cui si vuole annunziare Cristo, per crescere insieme verso la verità tutta intera.

    L'esperienza della «cristianità medievale»

    La «cristianità» è il secondo modello in cui storicamente è stato vissuto il rapporto fede-cultura; esso ha caratterizzato soprattutto la presenza e l'azione della Chiesa nel contesto di una società già evangelizzata e culturalmente omogenea. Nel regime di cristianità, infatti, la Chiesa non solo si fa presente pubblicamente e socialmente (come avviene pure col processo d'inculturazione), come esige la natura stessa di comunità visibile e di istituzione socialmente rilevabile, che Cristo le ha dato; ma penetra e anima la società in tutte le sue strutture (culturali, sociali, politiche, istituzionali), così da renderla una vera e propria «società cristiana».
    Ecco perché la «cristianità medievale» rimane come il simbolo della identificazione tra fede e cultura. Nella società medievale, infatti, il primato di Dio e della fede cristiana (così com'è insegnata dalla Chiesa) è unanimemente accettato e tradotto sul piano del comportamento civile. La religione cristiana scandisce i ritmi della vita individuale e sociale. I cristiani, essendo una cosa sola in Cristo, nella Chiesa e nella fede, costituiscono un tutt'uno, un solo popolo di credenti, separato dagli «infedeli», cementato da un'unica cultura cristiana, fondata sull'insegnamento della Chiesa. Perciò, chi non è cristiano (l'ebreo, il musulmano, l'«infedele») è un estraneo, e rimane escluso dalla «società cristiana»; i nemici della fede sono, per ciò stesso, nemici dello stato.
    Dal primato di Dio, comunemente accettato, deriva che il potere temporale - in regime di cristianità - è subordinato a quello spirituale. Le strutture civili, politiche non sono autonome, ma strumentali, funzionali alla religione, orientate alla salvezza dell'uomo. I valori religiosi e spirituali vanno promossi e difesi con strumenti temporali, se occorre anche militari, non esclusa la «guerra santa». Il Papa, poi, essendo il capo della cristianità, ha la pienezza dei poteri, guida e decide pure gli affari temporali, servendosi - quando occorre - di sanzioni spirituali (quali la scomunica e l'interdetto) per tutelare il bene anche temporale della cristianità.[8]
    Insomma, il cristianesimo diviene progetto sociale, un modello ben definito di società... In esso il Vangelo ha valore assoluto e normativo, sia per l'intelligenza (come criterio unico di verità), sia per la coscienza (come criterio unico di eticità). Il bene stesso dell'uomo e della società - in questa logica - esige che la convivenza civile sia ordinata obbligatoriamente secondo la verità e la morale cristiana, se occorre anche ricorrendo alla coercizione.
    Ovviamente, la «cristianità -» così intesa non è la Chiesa, la quale invece mantiene la sua specificità e la sua peculiare identità religiosa. Tuttavia, la cristianità non esiste al di fuori della Chiesa: Chiesa e società s'integrano e si compenetrano. La Chiesa assicura il bene della società con le sue università e con i suoi ospedali; garantisce la pace tra i cristiani con la «tregua di Dio» e difende la cristianità organizzando le crociate. Dal canto suo, la società sostiene la Chiesa e le sue istituzioni, pagando le decime ed emanando leggi rigorosamente ispirate a quelle canoniche.
    Questa esperienza, certo, ha consentito notevoli realizzazioni sul piano dello sviluppo e della crescita morale e culturale dell'Europa e dei singoli popoli del vecchio continente; tuttavia, la riduzione della fede a cultura ha condotto, da un lato, a forme inaccettabili di strumentalizzazione della fede a fini politici e di potere e, dall'altro, a una indebita confessionalizzazione della vita sociale e della realtà temporale. Ci sarebbe voluto il lungo e doloroso travaglio dell'età moderna - esso pure non privo di contraddizioni e di errori - per giungere a un chiarimento che oggi ancora non tutti mostrano di comprendere.

    La frattura tra fede e cultura

    Con l'avvento del mondo moderno, s'incrina e si rompe l'unità fede-cultura che aveva caratterizzato il Medio Evo. Prima l'Umanesimo e poi il Rinascimento, la Riforma, l'Illuminismo e la Rivoluzione Francese sono altrettante tappe di una divaricazione tra fede e cultura, che ha la radice in un duplice capovolgimento di valori, operato dal mondo moderno nei confronti della «cristianità».
    Un primo capovolgimento consiste nel passare dalla visione teocentrica, propria dell'esperienza medievale, a una visione antropocentrica immanente, caratteristica della cultura moderna: di un uomo, cioè, che si fa egli stesso «assoluto», mettendosi al posto di Dio; che crea da sé il proprio destino, un destino che non trascende la storia del mondo, né il suo orizzonte temporale.
    Un secondo capovolgimento nei confronti della scala di valori medievale consiste nel concedere il primato non più alla persona umana, ma alle strutture sociali. Per l'uomo moderno, ciò che più conta è «cambiare il mondo», fino a teorizzare che per rinnovare l'uomo e la società, basterà trasformare le strutture.
    In tal modo, il mondo moderno nega alla radice quella identificazione tra fede e cultura, che era stato il fondamento della cristianità medievale. È la rottura più profonda e totale di una unità, durata secoli. La ragione prende le distanze dalla fede, e rivendica la sua autonomia da Dio, autoproclamandosi essa stessa una «dea»; il metodo deduttivo dell'ipse dixit lascia il posto a quello induttivo della ricerca scientifica e dell'osservazione dei fatti, negando che si possa dare armonia nel rapporto fede- scienza; la politica rifiuta ogni soggezione nei confronti del piano spirituale, perfino nei confronti della morale. L'unità tra Impero e Papato, tra «Regno» e «Sacerdozio», lascia il posto al proliferare degli stati nazionali, i quali rivendicano una sovranità assoluta, rigettano ogni forma di dipendenza dalla Chiesa, ogni subordinazione ai suoi fini e ai suoi interessi. In una parola, per il mondo moderno, «cristiano» non è più sinonimo di «cittadino»; al centro della vita sociale non c'è più il credente, ma l'uomo.
    Il colpo di grazia verrà dalla rottura intraecclesiale, indotta dalla Riforma, e dal diffondersi delle nuove idee di libertà e di tolleranza, in aperta antitesi col progetto medievale d'identificazione tra fede e cultura.

    DALLA NOSTALGIA DELLA «CRISTIANITÀ MEDIEVALE» ALLA «NUOVA CRISTIANITÀ»

    Si può dire che la Chiesa, in molte sue espressioni culturali e nelle sue istanze ufficiali, non si sia mai rassegnata del tutto alla fine della «cristianità». Quel progetto medievale infranto è stato esaltato a lungo come simbolo dell'organizzazione sociale ideale. Di qui il rimpianto non dissimulato per l'Europa cristiana premoderna; di qui l'istintiva diffidenza per ogni discorso sulla laicità, sul pluralismo e sulla necessità di mediazioni storiche e culturali nuove per una testimonianza cristiana adeguata alle sfide della società contemporanea.
    Prima il tradizionalismo cattolico (con Louis de Bonald), poi il cattolicesimo intransigente (con Joseph de Maistre, Félicité de Lamennais e Louis Veuillot) insistettero in un giudizio totalmente negativo e pessimistico del mondo moderno. La fine della cristianità medievale, la rottura dell'identità tra fede e cultura, la lacerazione della Riforma avrebbero indotto quella lunga serie di errori che è il mondo moderno sfociato nella Rivoluzione Francese, nell'anticlericalismo liberale e nell'ateismo socialista. Per porre rimedio a tanti guasti, altra via non ci sarebbe se non ristabilire la «civiltà cristiana», cioè quella identificazione tra fede e cultura che il Medio Evo aveva realizzato, a partire dalle concezioni di una Chiesa «società perfetta».
    Questo giudizio negativo sul mondo moderno e questa nostalgia della «cristianità» sono giunti praticamente fino ai nostri giorni, quando - mutati irreversibilmente i tempi - con Pio XII e con Maritain si giunse a formulare il progetto di una «nuova cristianità». Solo il Concilio Vaticano II, avendo elaborato una visione matura del rapporto fede-cultura alla luce di una teologia rinnovata e delle sfide del mondo contemporaneo, avrebbe posto fine a ogni ipotesi di restaurazione.
    Ma lasciamo la parola ai protagonisti, per comprendere meglio le ragioni di questa nostalgia e le loro preoccupazioni.

    La nostalgia della «cristianità medievale»

    Nei limiti di una relazione, ci dobbiamo restringere solo ad alcune citazioni più significative. Preferiamo, perciò, prenderle dai documenti ufficiali degli ultimi pontefici. Sono dichiarazioni esplicite e perspicue, che non hanno bisogno di commenti particolari.
    Nell'enciclica Immortale Dei (1 novembre 1885), Leone XIII rimpiange il tempo felice, quando «la filosofia del Vangelo governava gli Stati, quando la forza e la sovrana influenza dello spirito cristiano era entrata bene addentro nelle leggi, nelle istituzioni, nei costumi dei popoli, in tutti gli ordini e regioni dello Stato, quando la religione di Gesù Cristo, posta solidamente in quell'onorevole grado che le conveniva, traeva su fiorente all'ombra del favore dei principi e della dovuta protezione dei magistrati; quando procedevano concordi il sacerdozio e l'impero, stretti avventurosamente fra loro per amichevole reciprocità di servigi».[9]
    Pio X, nella lettera con cui i125 agosto 1910 condannava il Sillon, così esclamava contro l'ipotesi di una «città futura» avanzata da Marc Sangnier: «La civiltà non è più da inventare, né la città nuova è da costruire nelle nuvole. Essa è esistita, essa esiste: è la civiltà cristiana, è la città cattolica. Non si tratta d'altro che d'instaurarla e restaurarla incessantemente sui suoi fondamenti naturali e divini (...). Essa è la società di cui la Chiesa getta le basi e dirige i lavori».[10] Benedetto XV, nell'enciclica Pacem Dei munus (23 maggio 1920), insiste sulla necessità del contributo della Chiesa per una pace stabile, ribadendo: «Sappiamo dalla storia che, da quando la Chiesa pervase del suo spirito le antiche e barbariche genti d'Europa, cessarono un po' alla volta le varie e profonde contese che le dividevano e, federandosi col tempo in una unica società omogenea, diedero origine all'Europa cristiana, la quale, sotto la guida e l'auspicio della Chiesa, mentre conservò a ciascuna nazione la propria caratteristica, culminò in una compatta unità, fautrice di prosperità e di grandezza».[11]
    Pio XI, nell'enciclica Ubi arcano (23 dicembre 1922), rivendica alla Chiesa «società perfetta» il compito di guidare tutte le altre società. La cristianità medievale fu più efficace della stessa Lega delle Nazioni: «Non vi è istituto umano che possa dare alle nazioni un codice internazionale, rispondente alle condizioni moderne, quale ebbe, nell'età di mezzo, quella vera società di nazioni, che fu la cristianità»; infatti, essa si reggeva su «un istituto che appartiene a tutte le nazioni, che a tutte è superiore, e di più dotato di massima autorità, e venerando per pienezza di magistero, la Chiesa di Cristo: la quale sola apparisce adatta a tanto officio»; perciò, va «riconosciuto alla Chiesa di Gesù Cristo il posto che Egli stesso le assegnava nella società umana, dandole forma e costituzione di società e, in ragione del suo fine, perfetta (...); maestra e guida delle altre società tutte quante».[12]

    Il progetto di una «nuova cristianità»

    Pio XII, invece, prende atto del mutamento dei tempi. Esclude, perciò, esplicitamente un ritorno alla «cristianità medievale», e formula l'ipotesi di una «nuova cristianità», che riattualizzi quella medesima sintesi tra fede e cultura, che fu all'origine dell'esperienza medievale.
    Anche Pio XII parte da una lettura negativa del mondo moderno: «Le angustie del presente sono una apologia del cristianesimo, che non potrebbe essere più impressionante»; infatti, «il tempo presente, aggiungendo alle deviazioni dottrinali del passato nuovi errori, li ha spinti ad estremi dai quali non poteva seguire se non smarrimento e rovina». La causa di tutti questi mali sta nel distacco (che il mondo moderno ha prodotto) dell'Europa da quella dottrina di Cristo e della Chiesa, che «un tempo avevano dato coesione spirituale all'Europa, la quale, educata, nobilitata e ingentilita dalla Croce, era pervenuta a tal grado di progresso civile da diventare maestra di altri popoli e di altri continenti».[13] Non potendo riprodurre l'esperienza medievale, l'unica soluzione per uscire dai gravi mali presenti sta nella restaurazione dell'ordine sociale cristiano, nell'instaurazione di una nuova cristianità fondata sul diritto naturale e sulla divina rivelazione, insegnati entrambi dalla Chiesa. Perciò, i laici cattolici si dovranno impegnare in campo sociale e politico, per «ricristianizzare» le strutture e le istituzioni, facilitando così l'opera della Chiesa, che è la salvezza eterna degli uomini.
    È questo, forse, «un ritorno al Medio Evo»? «Nessuno ci pensa - risponde Pio XII - . Ma un ritorno, sì, alla sintesi della religione e della vita. Essa non è affatto un monopolio del Medio Evo: sorpassando infinitamente tutte le contingenze del tempo, essa è sempre attuale, perché è la chiave di volta di ogni civiltà, l'anima di cui ogni cultura deve vivere».[14]
    La descrizione che il Papa fa di questa nuova sintesi tra fede e cultura riproduce nella sostanza il modello classico di cristianità, ma adeguandolo alla mutata situazione di una società che non è più culturalmente omogenea. Non basta - dice - riaffermare l'idea astratta di cristianesimo, ma ci vogliono «le concrete attuazioni di quell'idea, vale a dire le leggi, gli ordinamenti, le istituzioni fondate e promosse da uomini dediti alla Chiesa e operanti sotto la sua guida, o almeno sotto la sua ispirazione»; ciò deve valere anche nell'odierna società pluralistica, dove il cristiano non può accontentarsi di collaborare su un piano semplicemente «umano», senza abdicare alla propria identità.[15] Occorre «cristianizzare» la società, attraverso l'instaurazione della civiltà cristiana.
    Ma il vero teorico della «nuova cristianità» resta Jacques Maritain. Movendo dalla sua nota «distinzione dei piani» (che tanto influsso avrebbe esercitato anche nel Concilio), la «nuova cristianità» di Maritain si distingue da quella medievale soprattutto per una visione rinnovata della realtà temporale. Mentre il modello medievale di cristianità era «sacrale», quello maritainiano è «profano»; mentre per la cristianità medievale la realtà temporale aveva natura di strumento o di mezzo nei confronti della realtà spirituale, per Maritain invece la realtà temporale ha una sua autonomia che va salvaguardata, pur mantenendo il primato dello spirituale. Non si tratta, quindi, di realizzare uno «Stato cristiano», ma uno Stato laico cristianamente costituito, nel rispetto del legittimo pluralismo.[16]
    La fede guida la cultura, la ispira, ma non s'identifica con essa. Infatti - spiega Maritain - la fede appartiene al piano spirituale e la cultura a quello temporale: due piani nettamente distinti tra loro. Tuttavia, essi non sono separati ma s'incontrano nell'uomo, cioè su quel «piano intermedio» (dove la cultura tocca la fede), attraverso la quale la Chiesa, maestra di fede, contribuisce pure all'elevazione temporale dell'uomo. Perciò, s'impone il superamento della vecchia sintesi medievale tra fede e cultura occidentale, a causa della quale molti hanno finito col credere «che la fede è l'Europa, e che l'espansione del regno di Dio tra i popoli consista nel portare a essi la civiltà occidentale».[17] Il cristianesimo, invece, promuove tutti i valori umani autentici, dovunque essi si trovino, facendoli crescere all'interno delle diverse culture, «non distrugge lo spirito caratteristico delle diverse civiltà, e neppure ne rimane separato. Ma a causa della sua trascendenza propriamente divina, esso può penetrare, e perciò trasfigurare, ma non già distruggere».[18]
    Nonostante l'importanza di queste intuizioni, Maritain però resta all'interno dell'ottica della cristianità. Così, se col suo nuovo progetto da un lato supera l'identificazione tra fede e cultura, dall'altro però egli insiste nel ritenere che tocca sempre alla Chiesa guidare la costruzione della società umana, attraverso quel «piano intermedio», dove cultura e fede si toccano. Infatti, per Maritain, questo «piano intermedio» appartiene all'ambito spirituale che è proprio della gerarchia. Di conseguenza, se il riconoscimento maritainiano dell'autonomia delle realtà temporali apre ai laici prospettive nuove d'impegno di responsabilità nelle scelte, non cambia però l'ottica sostanziale: solo il cristianesimo è in grado di definire gli obiettivi comuni di un'autentica civiltà umana, e poiché ciò appartiene all'ambito dello spirituale, l'iniziativa e l'orientamento in campo sociale spettano, da ultimo, alla gerarchia.
    Ma le rapide e profonde trasformazioni socioculturali e le acquisizioni teologiche degli ultimi decenni avrebbero segnato il declino definitivo di questa ipotesi di «nuova cristianità». Nello stesso tempo, il Concilio poneva le premesse di un rapporto diverso e più maturo tra fede e cultura, adeguato alla crescita avvenuta nella società civile e nella comunità cristiana.

    IL RAPPORTO FEDE-CULTURA NEL CONCILIO VATICANO II

    Infatti, il Vaticano II, rispondendo alle attese e alle sfide di un mondo in trasformazione, ha portato alcuni chiarimenti fondamentali che rendono ormai non più proponibile un rapporto fede-cultura, sul modello di quello realizzato o ipotizzato dal regime di «cristianità». Le premesse, che esigono una sintesi nuova, sono di natura storica e di natura teologica.

    Sul piano storico

    Sul piano dell'analisi storica, il Concilio si discosta dal giudizio pregiudizialmente negativo che, fino ai nostri giorni, era prevalso nella Chiesa riguardo al mondo moderno. Supera la visione pessimistica tradizionale e non esita a riconoscere quanto di buono esso ha prodotto, nonostante tutti gli errori. Riconosce - certo - che il mondo moderno, avendo fatto dell'uomo un assoluto e avendo escluso Dio dalla vita sociale, non è riuscito - come invece aveva promesso - a rendere l'uomo veramente libero, rispettato nella sua dignità, nei suoi diritti inalienabili: da un lato, non lo ha reso felice, in pace con se stesso e con gli altri; dall'altro, tutti i miti che la civiltà moderna ha forgiato (la «dea ragione», il «progresso indefinito», la «rivoluzione», lo «sviluppo»...) sono crollati inesorabilmente uno dopo l'altro e hanno lasciato il posto alla presente «società dell'indifferenza», drammaticamente segnata dal nichilismo e dalla perdita del senso e del valore della vita.
    Ma - nonostante tutto - il Concilio, ponendosi su un piano di fede e di obiettività storica, non cede al pessimismo, e rifiuta un atteggiamento oscurantistico nei confronti dei risultati positivi, che non mancano nel mondo moderno. Riconosce volentieri che molti e straordinari sono stati i progressi realizzati e i traguardi raggiunti, sia dal punto di vista materiale, scientifico e tecnico, sia dal punto di vista della promozione culturale, civile e umana, sebbene restino gravi e ingiusti squilibri.
    Così, il mondo moderno è contraddittorio. Da un lato, esso ha realizzato imponenti strutture economiche, tecniche e sociali, moltiplicando la quantità di beni prodotti, dando all'uomo più «avere»; dall'altro, ha fatto nascere nuove forme di emarginazione e di povertà, mortificando l'uomo nel suo «essere», compromettendo la qualità della vita. Da una lato, ha creato spazi e strutture formali di libertà e di democrazia (acquisendo valori importanti quali la laicità, la tolleranza, il pluralismo, la libertà di pensiero, di coscienza e di religione); dall'altro, ha sprigionato forze negative incontrollabili che potrebbero vanificare le conquiste fatte. Da un lato, ha dato vita a organismi internazionali di giustizia e di pace; dall'altro, ha moltiplicato le guerre, ha accelerato la corsa agli armamenti, ha creato l'incubo atomico. Perfino le strutture nate dagli straordinari progressi della biologia, della genetica e delle scienze mediche, anziché servire alla vita, minacciano di mutarsi in strutture di morte.
    Così, il duplice capovolgimento di valori che il mondo moderno aveva compiuto nei confronti della precedente «cristianità medievale», non ha raggiunto pienamente l'obiettivo di emancipazione e di crescita globale che si era proposto. L'uomo, che si era autoproclamato «assoluto», si è ritrovato spesso più emarginato di prima; la priorità concessa al cambiamento delle strutture ha finito in molti casi col soffocare la persona e la società, anziché rinnovarle. Di fronte a queste esperienze deludenti, si sta producendo - ai nostri giorni - una reazione che va in direzione contraria: nel senso, cioè, della riscoperta della trascendenza (ritorno del sacro, nuova domanda religiosa) e nel senso della riaffermazione del primato dell'uomo sulle strutture (domanda di significato e di qualità della vita). Ma sarebbe grave miopia scorgere in questa inversione di tendenza - che certamente è positiva e da favorire - la possibilità di una restaurazione del regime di cristianità, antico o nuovo che sia. Le acquisizioni positive del mondo moderno, sopra ricordate, sono irreversibili nonostante gli errori commessi. La storia non torna indietro. Tanto più, se alle acquisizioni di natura culturale si aggiungono quelle della ecclesiologia del Concilio, che rendono improponibile la «cristianità», oltre che sul piano storico, anche su quello teologico.

    Sul piano teologico

    Dal punto di vista teologico, si possono ridurre a tre le principali acquisizioni del Concilio, che hanno condotto al superamento del modello di cristianità ed esigono invece un rapporto fede-cultura diverso e più maturo.
    La prima determinante acquisizione della teologia conciliare sta nell'aver spostato l'accento dalla Chiesa intesa come «società perfetta» alla Chiesa come «mistero», mettendo meglio in luce la natura essenzialmente religiosa (non sociale, né politica, né culturale) della sua missione.[19] Il cristianesimo, dunque, essendo di origine trascendente, non si può identificare con nessuna cultura particolare, ma tutte le trascende e tutte può ispirare e aprire a un umanesimo integrale. Di qui la scelta del Concilio di dare priorità all'annuncio della Parola di Dio, all'educazione alla fede, come premessa di quella nuova inculturazione del Vangelo nel mondo contemporaneo, che passa necessariamente attraverso le mediazioni storiche e culturali, richieste dalle mutate situazioni del nostro tempo. In secondo luogo, è stato determinante - nel Concilio - l'aver acquisito la coscienza che la dimensione storica è intrinseca all'economia della salvezza: il mistero stesso dell'incarnazione del Verbo si compie nell'unica storia del mondo. Perciò, se la rivelazione cristiana non è una cultura, né si può ridurre a cultura (è, infatti, di origine trascendente), tuttavia essa ha bisogno della cultura ed è nata a ispirarle tutte, assumendole, purificandole, elevandole. La «mediazione» dell'Incarnazione diviene, così, il modello della Chiesa, che - prolungando nella storia la persona e la missione di Cristo - è chiamata a «mediare» il Vangelo nella storia: «Non si salva il mondo dal di fuori; occorre, come il Verbo di Dio che si è fatto uomo, immedesimarsi, in certa misura, nella forma di vita di coloro a cui si vuol portare il messaggio di Cristo, occorre condividere».[20]
    Infine, la terza acquisizione del Concilio - determinante per il superamento di ogni forma di cristianità - è stata la riflessione teologica sulla autonomia e sulla laicità delle realtà terrene. Queste - la cultura - hanno un loro valore intrinseco, hanno fini e strumenti propri; e ciò per volontà stessa di Dio creatore. Ovviamente, trattandosi di realtà create, non hanno valore assoluto, né possono essere fine a se stesse, perché Dio solo è l'Assoluto e il fine ultimo, al quale tutto il creato è ordinato. L'autonomia delle realtà temporali, dunque, (pur essendo vera autonomia) è relativa e «intermedia».[21] Tuttavia, ciò non consente che la cultura, l'economia, la politica, le scienze, le arti si possano considerare solo come strumenti, in sé privi di valore se non riferiti formalmente al fine soprannaturale. Per volere di Dio creatore, invece, tutte le realtà temporali hanno valore proprio, fini propri, «mondani» e raggiungibili con mezzi naturali, che l'uomo liberamente crea, scopre, sceglie e utilizza, e che sono autonomi nei confronti dei mezzi necessari al raggiungimento del fine ultimo soprannaturale.
    Così dicendo, non si vuol affatto negare che la grazia, i sacramenti e la vita cristiana - perfezionando la natura - siano di grande aiuto al perseguimento degli stessi fini «intermedi», temporali e mondani. Si vuol solo affermare che le realtà temporali potranno esser fatte servire all'uomo - come esige il disegno di Dio creatore - da un lato, rispettando la loro autonomia e laicità e, dall'altro, evitando di farne un assoluto.
    Alla luce di queste importanti acquisizioni della teologia del Concilio, è possibile superare l'ambiguità che era rimasta all'origine del progetto maritainiano di «nuova cristianità»: le mediazioni culturali, sociali e politiche non appartengono al «piano spirituale» (come pensava Maritain), ma a quello temporale. Di conseguenza, l'iniziativa in campo culturale, sociale e politico - là dove fede e storia si toccano - spetta non alla gerarchia, ma all'impegno autonomo dei laici; i quali - è chiaro - agiranno sempre in coerenza con la loro coscienza cristiana rettamente formata, alla luce del Vangelo e dell'insegnamento della Chiesa. Quindi, la «continuità» nella «diversità» dei due piani non si ha (come voleva Maritain) grazie a un terzo piano «intermedio» di spettanza gerarchica, ma grazie alle «mediazioni» storiche e culturali, che i laici sono chiamati a compiere autonomamente e responsabilmente con coerenza cristiana e con competenza professionale. A questo punto, dopo le acquisizioni fatte dal Concilio sul piano del giudizio storico e su quello della riflessione teologica, è evidente che il rapporto fede-cultura oggi va ripensato in modo nuovo, e non può più essere proposto secondo il modello della cristianità, medievale e «nuova». Le radicali trasformazioni socioculturali e la coscienza più chiara della natura religiosa della Chiesa e della sua missione impongono una sintesi diversa tra fede e cultura: non più univoca, confessionale e integrista, ma pluralistica e laica; realizzata in dialogo con tutti gli uomini di buona volontà. È la sintesi a cui conduce un processo rinnovato di «inculturazione» della fede nella nostra società secolarizzata e pluralistica.

    PER UNA «NUOVA INCULTURAZIONE» DELLA FEDE

    Nonostante questi chiarimenti sul piano storico e teologico, oggi nella Chiesa non abbiamo ancora raggiunto la necessaria unità su come realizzare il nuovo rapporto fede-cultura nella società contemporanea. Forse è esagerato parlare di «due anime», ma certamente siamo in presenza di diverse interpretazioni teologiche e di differenti sensibilità culturali. In realtà, crediamo che le due posizioni - quella della «presenza» e quella della «mediazione» - siano destinate non a prevalere l'una sull'altra, ma a integrarsi in una sintesi superiore. Questa non può essere altra che la concezione rinnovata di quella «inculturazione», che fu caratteristica del cristianesimo primitivo e che oggi è richiesta dal contesto di una società secolarizzata (non più evangelizzata) e pluralistica (non più culturalmente omogenea).
    È possibile questa sintesi nuova tra le ragioni della «presenza» e quelle della mediazione»?

    Le ragioni della «presenza»

    I fautori della «presenza» - e, quindi, di una forma aggiornata di «cristianità» - partono da alcune affermazioni di principio, certamente importanti e da salvaguardare nel rapporto fede-cultura.
    Il rapporto sociale - dicono - è autentico e costruttivo, solo quando si realizza secondo verità e secondo la norma etica fondamentale. Infatti, la comunicazione interpersonale - l'unica degna dell'uomo ed essenzialmente diversa dal rapporto con le cose -, da un lato, deve adeguarsi alla verità oggettiva dell'essere personale che ne è il termine, mentre dall'altro esige che la persona umana sia affermata per se stessa e non secondo la coscienza soggettiva che uno ne può avere.
    Ora - proseguono - la persona umana nasce incapace di vivere il rapporto sociale, nella verità e nella eticità. Solo la rivelazione cristiana svela interamente l'uomo a se stesso e gli consente di rispettare pienamente la norma etica fondamentale. Quindi, pretendere di costruire un rapporto sociale - la società - prescindendo dalla verità e dall'etica cristiana, significa dar vita a un rapporto fede-cultura falso e immorale. Ancora: la verità cristiana con le sue implicazioni etiche è un intero; nulla di essa si può mettere tra parentesi, senza che cambi sostanzialmente il significato dell'intero. Quindi, è mistificante e immorale il «compromesso» di quei cristiani che vorrebbero costruire il rapporto sociale - la società - con «gli altri», prescindendo dalla fede, sforzandosi di trovare un minimo o un massimo comun denominatore, su cui impegnarsi assieme a chi ha una diversa visione dell'uomo, non ispirata dal Vangelo. È mistificante e immorale la via della separazione degli ambiti (spirituale e temporale), quasi che la comunità cristiana abbia uno spazio di presenza e di conseguente impegno sociale che non coincide, nella sua estensione, con lo spazio intero dell'attività umana.[22]
    Perciò, i fautori della «presenza» sono per la restaurazione della «cristianità»: «L'esperienza culturale medievale (la coincidenza tra ambito religioso e ambito sociale) resta un paradigma esemplare per la Chiesa di ogni tempo».[23] Ovviamente, il modello medievale è da aggiornare quanto alla forma; ma rimane sempre valida l'impostazione che esso ha data del rapporto fede-cultura, se è vero che l'unica «autentica e perfetta `coltivazione dell'uomo' è la `coltivazione cristiana dell'uomo'» e che «ogni altra `cultura' rischia sempre di essere arbitraria e manipolante».[24]
    Sono dunque queste le principali ragioni per cui «in nessun momento della sua vicenda la Chiesa può mancare di dare vita a una `cristianità', secondo forme che mutano nei tempi e nei luoghi, ma che non possono venire meno in assoluto. Perciò il problema vero diventa quello di rinvenire la forma che meglio conviene al nostro tempo. La nostra `cristianità' potrà anche essere di minoranza, diversamente da quella di qualche secolo fa, ma non per questo deve essere meno vivace e meno fortemente caratterizzata».[25]
    Non, dunque, dialogo e incontro, ma confronto e scontro con il mondo moderno; senza illudersi che casuali coincidenze su taluni valori possano aprire la strada a un impegno sociale comune dei cristiani con coloro che non hanno fede. Al contrario, il cristiano «dovrà prepararsi (...) ai conflitti e agli scontri. Potrà talvolta rallegrarsi di concordanze inattese con chi non crede, nell'esaltazione di qualche valore. Ma più frequentemente dovrà registrare - senza stupore e senza panico - le più stridenti dissonanze. È molto difficile che convergano sulla stessa scala di valori (...) coloro che credono e coloro che non credono nel Signore Gesù».[26]

    Le ragioni della «mediazione»

    Di fronte ai fautori della «cristianità» e della «presenza», si pongono quelli della «mediazione», i quali invece vedono nel superamento del rapporto fede-cultura tipico della «cristianità» addirittura una esigenza di fedeltà al Vangelo.[27]
    La necessità della «mediazione» tra fede e cultura - dicono - non è soltanto un'esigenza storica, cioè dovuta al fatto che ci troviamo a dover testimoniare il Vangelo in una società secolarizzata e pluralistica; la «mediazione» è una categoria intrinseca e centrale della stessa rivelazione cristiana. E citano, in proposito, Paolo VI: «La relazione soprannaturale che Dio stesso ha preso l'iniziativa di instaurare con l'umanità può essere raffigurata in un dialogo, nel quale il Verbo di Dio si esprime nell'Incarnazione e quindi nel Vangelo (...). Bisogna che noi abbiamo sempre presente questo ineffabile e realissimo rapporto dialogico offerto e ristabilito con noi da Dio (...), per comprendere quale rapporto noi, cioè la Chiesa, dobbiamo cercare di instaurare e di promuovere con l'umanità».[28]
    In altre parole - secondo i fautori dell'incontro col mondo moderno - la mediazione culturale dei cristiani trova la sua ultima giustificazione nel mistero stesso dell'Incarnazione. Cosicché, il fatto che altri uomini non abbiano la fede e non s'ispirino a una visione cristiana della vita non può né deve impedire il dialogo, l'incontro e la collaborazione nella costruzione della società. Anche chi non crede nel Signore Gesù è portatore di valori umani autentici, e quindi non estranei al Vangelo, sebbene storicamente si siano affermati senza la Chiesa e talora contro la Chiesa. Per esempio, perché i cristiani non potrebbero costruire con gli uomini di buona volontà una società fondata sul rispetto della libertà di coscienza, sul principio che tutti gli uomini sono uguali in dignità e hanno gli stessi diritti fondamentali, sul diritto dei popoli all'autodeterminazione, sulla libertà di cultura e della ricerca scientifica, sul principio della tolleranza e del pluralismo anche religioso, sul rispetto dovuto a ogni uomo anche quando erra? Perché una simile collaborazione dovrebbe essere mistificante e immorale: solo perché questi valori sono stati affermati dalla «cultura laica»? Solo perché «gli altri» non accettano tutte le verità della fede?
    Lo stesso Concilio - aggiungono i cristiani della «mediazione» - ci ricorda che lo Spirito di Dio agisce pure fuori della Chiesa; è presente e opera, sia nell'evoluzione storica e nei profondi mutamenti della società, sia in tutti quei generosi propositi con i quali la famiglia degli uomini cerca di rendere più giusta e più umana la propria vita.[29] Certamente, il dialogo va condotto nella verità e nel rispetto della norma etica, che risplendono nel mistero del Verbo incarnato;[30] certamente la Chiesa, manifestando il mistero di Dio, «svela all'uomo il senso della sua propria esistenza, vale a dire la verità profonda dell'uomo»;[31] dunque, fanno bene i fautori della «presenza» a ricordare queste esigenze impreteribili del rapporto fede-cultura. Ma da ciò non segue che incontrarsi anche con chi non accetta «tutta al verità» sia tradire o annacquare il Vangelo, mettere la verità tra parentesi. Lo sforzo di trovare punti comuni di contatto e valori comuni con chi non crede, per ricercare insieme e progredire verso una conoscenza maggiore della verità, non offusca affatto la verità integrale che risplende in Cristo; anzi - come dice Giovanni XXIII - «gli incontri e le intese, nei vari valori dell'ordine temporale, fra credenti e quanti non credono o credono in modo non adeguato, perché aderiscono a errori, possono essere occasione pr scoprire la verità e per renderle omaggio».[32] Significa mancare del senso della storia e della realtà - insistono i fautori della «mediazione» - non tener conto della necessaria gradualità nell'acquisizione della verità, come esigono il processo conoscitivo dell'intelligenza umana e la maturazione della libera adesione della volontà. Lo diceva già Paolo VI: come «il dialogo della salvezza ha conosciuto normalmente gradualità, svolgimenti successivi, umili inizi prima del pieno successo, (così) anche il nostro avrà riguardo alle lentezze della maturazione psicologica e storica e all'attesa dell'ora in cui Dio lo renda efficace».[33] Del resto, la Chiesa stessa, pur avendo tutta la verità necessaria alla salvezza e pur essendo competente a giudicare gli aspetti religiosi e morali che sono sempre presenti in ogni attività umana, non possiede però «tutta la verità» in campo scientifico, economico, politico o culturale.
    Perciò - afferma il Concilio - «nella fedeltà alla coscienza, i cristiani si uniscono agli altri uomini per cercare la verità e per risolvere secondo verità tanti problemi morali, che sorgono tanto nella vita dei singoli quanto in quella sociale».[34] Anche nella comprensione della verità rivelata, che pure è assoluta e definitiva, si dà una crescita; tanto da poter dire che «la Chiesa, nel corso dei secoli, tende incessantemente alla pienezza della verità»,[35] sotto la guida dello Spirito Santo, il quale, alla luce dei «segni dei tempi», le comunica una conoscenza sempre più vitale del mistero di Cristo.
    Come si vede, sia i fautori della «presenza», sia quelli della «mediazione» insistono su aspetti importanti del rapporto fede- cultura, che sono complementari. Ma se si assolutizza indebitamente l'uno e l'altro aspetto, si giunge a polarizzazioni teoriche e pratiche inaccettabili. È necessario perciò - e il tempo sembra ormai maturo - andare oltre, e realizzare una sintesi superiore delle diverse esigenze. Questa sintesi sarà possibile, se ci apriremo a una comprensione rinnovata della «inculturazione».

    CONCLUSIONE

    A vent'anni dal Concilio, la coscienza che occorra ripensare in modo nuovo il rapporto fede-cultura è divenuta comune nella Chiesa. Al di là delle polarizzazioni e dei dibattiti, siamo tutti persuasi che non è più possibile guardare indietro, ma è necessario guardare avanti con coraggio, come ha invitato a fare pure il Sinodo straordinario del 1985, quando - tra i suggerimenti finali - ha chiesto che «si prenda nuovamente in esame che cosa sia e come mettere in pratica la teoria e la prassi dell'inculturazione».[36]
    Infatti, nel contesto di una società secolarizzata e pluralistica, la rinnovata «presenza sociale» della Chiesa non potrà non essere che una «presenza di mediazione».
    Una Chiesa, cioè, non ripiegata su di sé e sui suoi problemi, ma preoccupata di rendere comprensibile e credibile al mondo contemporaneo il messaggio di salvezza di cui è portatrice. Una Chiesa, quindi, non presente al mondo, ma presente nel mondo; che ripone la propria forza non nel potere e nei privilegi degli uomini, ma nella radicalità della testimonianza evangelica; che non sovrappone la fede alla cultura, per servirsene a fini confessionali, ma ispira le culture per aprirle tutte alla visione integrale dell'uomo, rispettandone la laicità e la pluralità; che non impone a nessuno la verità, ma la offre a tutti, senza coartare la libertà delle coscienze.
    È questa la Chiesa dei tempi nuovi, che si fa socialmente presente attraverso una nuova inculturazione della fede nella società contemporanea: forte perché disarmata, credibile perché povera, coraggiosa perché debole, libera perché spoglia di ogni altro potere che non sia quello della parola di Dio da custodire sì fedelmente, ma da incarnare nella storia, affinché sia sale della terra e luce del mondo.

    NOTE

    [1] PAOLO VI, Evangelii nuntiandi, n. 20.
    [2] Ivi.
    [3] Cf A. VANHOYE, Nuovo Testamento e inculturazione, in Inculturazione e formazione salesiana, a cura di A. Amato e A. Strus, Roma 1984, pp. 41-56; F. BERGAMELLI, Cristianesimo primitivo e inculturazione greca. L'esperienza dei Padri preniceni, ivi, pp. 57-73; O. PASQUATO, Inculturazione: la lezione dei Padri (sec. IV- V), ivi, pp. 75-115.
    [4] Cf Gaudium et spes, n. 58.
    [5] Ivi, n. 44.
    [6] Ivi.
    [7] Dei Verbum, n. 8.
    [8] La prima concretizzazione storica vera e propria della «cristianità» si ha con Carlo Magno, alla fine del sec. VIII, dopo che con Gregorio Magno (590-604) la Chiesa era passata decisamente ai barbari, impegnandosi in un'opera intensa di cristianizzazione (prime leggi d'origine ecclesiastica; scuole affidate ai chierici; il latino come lingua comune; consacrazione dei sovrani col rito religioso; prime condanne di eretici, ecc.). Ma il regime di «cristianità» raggiunge la sua piena realizzazione tra il sec. XI e il sec. XV. In particolare, Gregorio VII (papa dal 1073 al 1085) e Innocenzo III (papa dal 1198 al 1216) estendono l'azione della Chiesa agli affari temporali e profani: l'Europa diviene un unico populus christianus, sotto il papa; la fede s'identifica con una ben determinata cultura.
    [9] LEONE XIII, Enciclica Immortale Dei (1 novembre 1885), in Le encicliche sociali dei Papi. Da Pio IX a Pio XII, a cura di I. Giordani, Studium, Roma 19564, n. 9, p. 106.
    [10] PIO X, Lettera Notre charge apostolique (25 agosto 10,10), AAS 2 (1910) p. 612.
    [11] BENEDETTO XV, Enciclica Pacem Dei munus (23 maggio 1920), in Le encicliche sociali, cit., n. 11, p. 299.
    [12] PIO XI, Enciclica Ubi arcano (23 dicembre 1922), ivi, nn. 18-19, p. 321s.
    [13] PIO XII, Enciclica Summi Pontificatus (20 ottobre 1939), ivi, nn. 11,12,13, pp. 678s.
    [14] ID., Discorso ai pellegrini elvetici, (16 maggio 1947), in Discorsi e Radiomessaggi di S.S. Pio XII, Tipografia Poliglotta Vaticana, Roma 1948, IX, P. 78.
    [15] ID., Radiomessaggio natalizio (22 dicembre 1957), ivi, Roma 1958, XIX, pp. 680-683.
    [16] Cf J. MARITAIN, Umanesimo integrale, Borla, Torino 1962. Secondo l'Autore, la «nuova cristianità» sarà: un umanesimo, perché promuoverà l'uomo nella sua dignità, personale e sociale, che è insieme spirituale e temporale; integrale, perché sarà un umanesimo aperto alla trascendenza, riconoscerà cioè Dio come fine soprannaturale dell'uomo e del creato. Quindi l'autonomia e la laicità legittime della realtà temporale si dovranno coniugare con l'impegno di cristianizzare il mondo, senza coercizioni, ma piuttosto attraverso una «santità di stile nuovo».
    [17] ID., La Chiesa cattolica e le civiltà, in Questioni di coscienza, Vita e Pensiero, Milano 1980, p. 49.
    [18] Ivi, p. 52.
    [19] Cf Gaudium et spes, n. 42.
    [20] PAOLO VI, Enciclica Ecclesiam suam, in Enchiridion Vaticanum, Ed. Dehoniane, Bologna 197610, 2, n. 198.
    [21] Cf Apostolicam actuositatem, nn. 7,37; Gaudium et spes, n. 36; Lumen gentium, n. 31.
    [22] Sono queste le tesi di C. CAFFARRA, Verità e società, Milano 1982.
    [23] Ivi, p. 16.
    [24] G. BIFFI, Per una cultura cristiana, Piemme, Casale 1985, p. 17.
    [25] Ivi, p. 23. Il card. Biffi, quindi, se la prende con «i denigratori cristiani della cristianità» (p. 22), lamentando che «già da più di una trentina d'anni la cristianità è stata proclamata defunta, ritenuta un fenomeno di origine `costantiniana', che ha raggiunto il suo culmine nel Medio Evo e che nel nostro secolo si è del tutto esaurito» (ivi). «Anzi - lamenta ancora l'Arcivescovo di Bologna - con l'affermazione della sua estinzione storica, si è accompagnata spesso la proclamazione della sua illegittimità o almeno della sua inopportunità di principio. L'idea stessa di 'cristianità' sarebbe oggi improponibile» (p. 21).
    [26] Ivi, p. 24s.
    [27] Per un'ottima sintesi del dibattito sulla «mediazione culturale», per conoscere meglio le ragioni e i protagonisti, cf G. TONINI, La mediazione culturale. L'idea, le fonti, il dibattito, AVE, Roma 1985. Vedi pure il nostro articolo: I cristiani nel mondo postmoderno. Presenza, assenza, mediazione, in Civ. Catt. 1983 II 243-254 (del quale riprendiamo qui i principali argomenti). Alla linea della «mediazione culturale» si rifanno teologi come Y. CONGAR, M.D. CHENU, K. RAHNER e studiosi come J. DELUMEAU, Il cristianesimo sta per morire?, SEI, Torino 1978; Due modelli di cristianesimo, in Foi et Dévelopment, Centre Lebret, n. 77, maggio 1980; Fra lo «ieri» e il «domani», in Storia vissuta del popolo cristiano, SEI, Torino 1985, pp. 1051 ss.; G. LAZZATI, La città dell'uomo, AVE, Roma 1985; P. SCOPPOLA, La «nuova cristianità» perduta, Studium, Roma 1985.
    [28] PAOLO VI, Ecclesiam suam, cit., n. 193 s.
    [29] Cf Gaudium et spes, nn. 26, 38.
    [30] Ivi, n. 22.
    [31] Ivi, n. 41.
    [32] GIOVANNI XXIII, Enciclica Pacem in terris, ed. Civiltà Cattolica, n. 159.
    [33] PAOLO VI, Enciclica Ecclesiam suam, cit., n. 194.
    [34] Gaudium et spes, n. 16.
    [35] Dei Verbum, n. 8.
    [36] SINODO STRAORDINARIO 1985, Relazione finale, II parte, D7. Particolarmente significativo è il fatto che - su questa stessa linea - la recente Nota della Commissione Teologica Internazionale su Temi scelti d'ecclesiologia, pubblicata 1'8 ottobre 1985, in occasione del XX anniversario della conclusone del Concilio Vaticano II, dedichi un lungoaragrafo al problema dell'inculturazione oggi (cf Civ. Can. 1985 IV 458-462).


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