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    In Gesù di Nazaret, lo Spirito è fraternità verso tutti



    Luis A. Gallo

    (NPG 1998-03-45)


    Gesù di Nazaret, fratello tra fratelli e sorelle

    Se lo Spirito dinamicamente presente in lui fece dell’uomo Gesù di Nazaret un figlio che si rapportava con piena confidenza e tenerezza con Dio fino a chiamarlo «babbo», questo stesso Spirito fece di lui un fratello tra fratelli e sorelle. Impressionano, infatti, nella lettura dei vangeli, sia le parole sia l’agire di Gesù da questo punto di vista. Tanto più che quest’ultimo corrobora e illumina il senso delle prime.
    C’è una parabola da lui raccontata come risposta alla domanda di uno dei rabbini sul comandamento principale della Legge, che svela luminosamente la disposizione radicale e, possiamo anche dire, viscerale che egli stesso aveva: quella del buon Samaritano (Lc 10,30-37).
    Davanti all’uomo lasciato mezzo morto dai ladri ai margini della strada, mentre il sacerdote e il levita proseguono la loro strada senza fermarsi, il Samaritano si lascia invece impressionare e si commuove profondamente. La parola usata dal testo originale per descrivere tale commozione fa riferimento alle viscere: egli, dice la narrazione, si sentì toccato nel più intimo delle sue viscere. E quella commozione lo portò a «usargli misericordia», a «farsi prossimo» suo. Diventò così vero fratello di colui che, secondo la maniera di vedere del tempo in Israele, era un nemico (cf Gv 4,9).
    I vangeli ci presentano un Gesù vivamente coinvolto nelle situazioni concrete di coloro che incontra sulla sua strada, siano essi uomini o donne. Egli si dimostra sensibilissimo ai loro bisogni e alle loro attese, e la sua sensibilità lo porta a vibrare con essi, a commuoversi intensamente davanti alle loro sofferenze e alle loro gioie, e a venire incontro alle loro necessità. Bastano un paio di esempi per averne la conferma.
    Anzitutto, l’episodio della guarigione del lebbroso, raccontato in Mt 8,2-3 e Mc 1,40-42. Si sa in quali condizioni vivessero coloro che erano vittime di detta infermità a quei tempi. Una spaventosa emarginazione li escludeva dalla convivenza con gli altri, strappandoli non solo agli affetti più intimi, ma impedendo loro anche la partecipazione agli atti più importanti della vita del popolo. Erano dei veri morti in vita. Mentre il vangelo di Matteo è estremamente conciso nel narrare l’episodio, quello di Marco, pur nella sua brevità, fornisce dei dettagli molto rivelatori circa gli atteggiamenti e le reazioni di Gesù.
    Dice infatti che davanti alla supplica accorata dell’ammalato egli, «commosso fino alle viscere», stese la mano, lo toccò e gli disse: «Lo voglio, guarisci»; e in quel momento la lebbra scomparve e l’infermo guarì. Quel lasciarsi toccare nel vivo della propria sensibilità dice molto circa l’atteggiamento fraterno di Gesù, un atteggiamento che non è solo commozione emotiva, ma che lo porta a passare al di sopra della istintiva repulsione provocata dalla visione del malato e anche a non attenersi alle leggi stabilite dalla Legge riguardo al tratto con esso (Lv 13,44-46), e sfocia in un’azione concreta di liberazione dal male fisico e dalle svariate sue conseguenze.
    L’altro episodio è quello della risurrezione del figlio della vedova di Nain, raccontato in Lc 7,12-15. La scena iniziale è straziante: una madre vedova, accompagnata da molta gente del paese, cammina piangendo dietro la bara in cui portano a seppellire il suo unico figlio. Gesù la incontra e, anche qui, reagisce anzitutto visceralmente. Il testo, infatti, utilizzando lo stesso termine dell’episodio del lebbroso, dice: «Vedendola, il Signore si commosse profondamente e le disse: ‘Non piangere!’». Lo si coglie tra le righe: egli è toccato nel vivo dalla scena che ha davanti agli occhi, si lascia coinvolgere dal dolore della donna e interviene esortandola a non piangere. Un’esortazione che potrebbe suonare a sarcasmo o a sterile commiserazione, ma che acquista il suo vero senso da quanto segue: «E accostatosi toccò la bara, mentre i portatori si fermarono. Poi disse: ‘Giovinetto, dico a te, alzati!’. Il morto si levò a sedere e incominciò a parlare. Ed egli lo diede alla madre».
    Ancora una volta la sensibilità fraterna di Gesù si esprime a due livelli: quello della commozione intensa, e quello dell’attuazione concreta in cui essa sfocia. Tra l’altro, come nell’episodio anteriore, la sua reazione fraterna, mirata a strappare madre e figlio da situazioni estremamente negative, lo porta a passare al di sopra delle leggi della purità rituale, dal momento che egli, toccando la bara, ne resta automaticamente intaccato (cf Lv 21,11; 22,4).
    Questi due esempi, che potrebbero moltiplicarsi rivisitando i vangeli, fanno toccare con mano come lo Spirito che muove Gesù sia veramente una forza che lo spinge a farsi attivamente fratello degli altri, amando appassionatamente la loro vita e la loro vera felicità. Anche quando egli interviene con durezza o con ira, come quando si rivolge a coloro che stravolgono il rapporto con Dio facendolo diventare formalista o leguleio (cf per esempio Mc 3,1-5), è mosso da una profonda preoccupazione per la condizione in cui essi si trovano.
    Per lui, essere fratello non è un semplice sentimento, privo magari di chiaroveggenza, ma un farsi seriamente e attivamente responsabile della vita e della morte degli altri. È, in definitiva, una espressione di quella passione per il regno di Dio che gli riempie il cuore. Si spiega così come questo Spirito di fraternità lo porti a occuparsi particolarmente di coloro che di vita ne hanno di meno.
    Questo atteggiamento incontenibilmente fraterno è stato quello che lo portò alla morte in croce. Il vangelo di Giovanni raccoglie queste parole che egli avrebbe detto nell’ultima cena, parlando con i suoi intimi: «Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici» (Gv 15,13). Le abbia dette o no Gesù personalmente, si tratta di parole che esprimono la netta convinzione di coloro che erano vissuti accanto a lui: egli portò il suo amore fraterno fino all’estremo di dare la vita per coloro che amava. Prendendo sul serio la sua responsabilità per la vita di tutti, e particolarmente di quelli che ne erano più spogliati ad opera di altri, egli finì per scontrarsi con coloro che erano mossi da altri spiriti.
    Quelli che cercavano i loro interessi prescindendo dagli altri e perfino sfruttandoli a proprio vantaggio, si sentirono minacciati nella loro sicurezza da ciò che egli proponeva e faceva, e decisero di eliminarlo. La sua fu una morte piena di fraternità. Mediante essa egli arrivò ad essere, come amava dire Charles de Foucould, il «Fratello universale».

    La fraternità dei discepoli

    «Se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto» (Gv 12,24). Il chicco caduto in terra fu Gesù stesso con il suo Spirito di fraternità. Morto in croce e sepolto, non rimase sterile; al contrario, una volto risorto si dimostrò straordinariamente fecondo: le prime comunità dei suoi discepoli si agglutinarono come altrettante fraternità mediante lo Spirito da lui ricevuto (cf At 2,1-4).
    Fu l’azione di questo Spirito che portò quegli uomini e quelle donne a vivere cercando di essere «un cuore solo e un’anima sola» e di avere «tutto in comune» (At 4,32). Essi, infatti, erano stati come contagiati dallo stesso Spirito che aveva mosso Gesù il quale aveva detto, quasi come lasciando il suo testamento a coloro che lo accompagnavano nell’ultima cena: «Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri; come io vi ho amato, così amatevi anche voi gli uni gli altri» (Gv 13,34) e «Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri, come io vi ho amati» (Gv 15,12).
    Oltre al libro degli Atti degli Apostoli, che narra le vicende di queste prime comunità, e specialmente di quella sorta come madre di tutte a Gerusalemme, anche gli altri scritti del Nuovo Testamento sono pieni di testimonianze sulla presenza e azione in esse di questo Spirito di fraternità. Spigolando nelle lettere paoline se ne possono raccogliere alcune che meritano particolare attenzione.
    Una di esse è quella della lettera ai Galati, nella quale l’Apostolo elenca gli effetti della presenza dello Spirito di Dio e di Gesù. Egli scrive: «Il frutto dello Spirito […] è amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé» (Gal 5,22). Si tratta, come si vede chiaramente, di atteggiamenti che segnano i rapporti tra i membri di una comunità, e li convertono in rapporti veramente vivificanti, come vivificante è lo Spirito dal quale promanano. Fanno parte dell’atteggiamento fraterno che caratterizzava il comportamento dello stesso Gesù.
    Accanto a questa ce n’è un’altra che evidenzia, per contrasto, ciò che richiede lo Spirito di una vera fraternità quale vittoria su altri spiriti che possono impadronirsi del cuore degli uomini generando rapporti mortificanti tra di essi. La si ritrova nella lettera ai Filippesi, tra i quali l’amore fraterno trovava qualche difficoltà ad esprimersi. Paolo, che d’altra parte nutriva per essa un «profondo affetto nell’amore di Cristo Gesù» (Fil 1,8), e che li considerava «fratelli suoi carissimi e tanto desiderati» e li riteneva «sua gioia e sua corona», li esorta ad un più intenso spirito fraterno con queste accorate parole: «Se c’è pertanto qualche consolazione in Cristo, se c’è conforto derivante dalla carità, se c’è qualche comunanza di spirito, se ci sono sentimenti di amore e di compassione, rendete piena la mia gioia con l’unione dei vostri spiriti, con la stessa carità, con i medesimi sentimenti. Non fate nulla per spirito di rivalità o per vanagloria, ma ciascuno di voi, con tutta umiltà, consideri gli altri superiori a se stesso, senza cercare il proprio interesse, ma anche quello degli altri. Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù» (Fil 2,1-5).
    Bastano queste pochi testi per far capire quale sia il ruolo che svolse – e continua a svogere – lo Spirito di Dio, che è anche lo Spirito di Gesù, nelle comunità che a lui s’ispirano: perché è uno Spirito «che dà la vita» (Credo niceno-costantinopolitano), esso tende a creare dei rapporti intensamente fraterni, fatti di atteggiamenti e di azioni che mirino a farsi corresponsabili della vita in pienezza degli altri.


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