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    Piccoli boss per un giubbotto di pelle



    Melita Cavallo

    (NPG 1998-02-60)


    Bambini come cose

    Il nostro Bel Paese – in particolare il tessuto urbano nei centri storici e delle grandi periferie metropolitane – sembra aver fatto «un salto di qualità» nel processo di mercificazione dell’infanzia, così come testimoniano i bambini oggetto del traffico sessuale nel centro storico di Palermo, i bambini albanesi nella periferia metropolitana di Milano, i mini-spacciatori dei quartieri periferici di Napoli. Ma nessuna città è esente. È il tessuto sociale che va in cancrena, è lo stesso processo che insorge nel corpo umano quando, pur sano nel suo complesso, va in metastasi se il male si insinua in uno dei suoi organi vitali. L’adulto non si ferma più di fronte a niente nel perverso giro d’affari organizzato ai vari livelli: la vita umana non ha valore, tanto meno quella di un bambino; e l’infanzia, la ricchezza più grande di un paese perché rappresenta il suo divenire e il suo potenziale, viene infettata dal virus del crimine con connessi rischi di epidemia.

    Intervenire alla base

    Lo sfruttamento, ai diversi livelli di organizzazione criminale, trae sempre origine dal bisogno di sopravvivenza di alcuni e dall’avidità di guadagno e di potere di altri. La sete di potere è inestinguibile, non la possiamo annullare, fa parte del patrimonio genetico dell’uomo. Possiamo però intervenire sul fenomeno riducendo l’area dell’emarginazione e dello svantaggio, puntando sull’emancipazione dallo stato di bisogno, dato che il processo e la pena, vale a dire la risposta repressiva e punitiva, non costituiscono più un deterrente. Né la soluzione può trovarsi adottando iniziative fondate sull’uso legittimo della violenza o su politiche di contenimento dell’insicurezza attraverso il mero controllo di polizia, perché in uno stato democratico è impensabile. L’unico vaccino contro questa epidemia è la cultura e la cultura comincia dalla culla.

    A Caserta la guerra dei poveri

    Il Consiglio direttivo dell’Associazione Italiana dei Giudici per i minorenni e per la famiglia, in un comunicato del 6 luglio 1996 indirizzato ai Sindaci di tutti i Comuni d’Italia, ha lanciato un appello per un governo delle città che – non solo a parole – sia concepito e strutturato a misura dell’infanzia.
    Ciò significa attrezzare il territorio di servizi di aiuto alla famiglia, asili nido, scuole d’infanzia, ludoteche, scuole dell’obbligo a tempo prolungato, videoteche, biblioteche, centri sportivi, luoghi di aggregazione gestiti da adulti responsabili ed educatori professionali, affinché il tempo libero orientato in modo corretto agevoli il processo di socializzazione; significa laboratori che mettano in grado i ragazzi di esprimere le loro potenzialità, la loro manualità, cioè un addestramento lavorativo serio e curato in grado di facilitare un successivo inserimento nel mondo del lavoro nelle forme delle cooperative-giovani. Ma dov’è tutto questo? Quante città sono in grado di offrire a tutti i bambini e a tutti i ragazzi luoghi adeguati al loro processo di crescita? Nessuna nel nostro Paese lo è, perché anche se l’amministratore è più attento e il territorio più ricco – o il meno povero – di risorse, esistono sempre e dovunque in Italia ghetti e situazioni di emarginazione.
    Al Centro-Nord oggi queste aree sono rappresentate dai minori stranieri, nomadi ed extracomunitari: sono loro a popolare le carceri minorili, a essere utilizzati nello spaccio e in altre attività criminali. Al Sud, invece, gli stranieri non si fermano che per poco, l’emarginazione già esistente in loco non fa spazio a quella che proviene da lontano, non le permette di stanziarsi e «arrangiarsi».
    Molte risse e conflitti violenti, che si traducono sempre più di frequente in fatti di sangue, testimoniano questa guerra dei poveri nell’agro casertano, dove la presenza degli extracomunitari è più massiccia.

    «Quartieri senza»

    In generale, al Sud, dove lo Stato ha negoziato negli anni – attraverso taciti «protocolli d’intesa» – la garanzia delle clientele e la barriera al terrorismo cedendo il controllo di vasti territori e rinunciando a esercitare proprie specifiche funzioni, sono individuabili veri e propri territori che la camorra e la mafia tengono in pugno, interi quartieri in cui la capacità delle organizzazioni criminali di controllare spazi e cultura, di tenere la gente legata a modelli di vita deviati, è tuttora vincente. In queste zone, definite giustamente «quartieri senza», non c’è luogo alcuno perché l’infanzia e l’adolescenza trovino riconoscimento e spazio di crescita; ci sono solo circoli ricreativi, ovvero veri e propri covi di microdelinquenza in cui il piccolo spaccio è garantito e poi la strada, a volte nemmeno asfaltata, senza alberi, senza negozi, senza insegne luminose, dove i ragazzi si ritrovano e l’unico diversivo diventa lo spinello, indispensabile per vivere lo sballo, per esaltarsi e godere di quella sensazione di onnipotenza, di sfida al mondo che si esprime, fra l’altro, con sfrenate corse in moto sulla grande strada senza asfalto. E poi giù fino a Napoli, giubbino nero e occhiali scuri.

    Come la pubblicità

    È questo l’unico sogno che vivono: la moto e il vestire alla moda, avere tutti, ma proprio tutti, gli oggetti reclamizzati dalla televisione. Ma questi oggetti hanno un costo ragguardevole. E allora capita sempre più di frequente che, per averli, ragazzini e bambini, si prestino a fare da palo, a portare qua e là qualche bustina, a nasconderla nei luoghi indicati, a diventare veri e propri piccoli corrieri della droga, risucchiati dalla piovra criminale che non rinuncia a servirsi neppure di bambini di sette, otto anni. Si cresce in fretta in questi quartieri. I ragazzini si comportano e agiscono da adulti, riescono a essere come l’adulto vuole che siano. Cioè, in quel mondo, forti e violenti. In cambio avranno denaro e il «rispetto» della gente del quartiere che comincia ad avere paura di loro. E con la paura sale il rispetto.

    Nell’altra società per necessità o per blasone

    Attualmente le principali vie d’accesso alla criminalità sono due. Nel primo caso il minore proviene da famiglia malavitosa, e per ciò stesso ne respira gli stimoli in ogni momento della crescita, fino a giungere già nella preadolescenza a un’assimilazione perfetta del modello; nel secondo è spinto verso la carriera criminale dalle condizioni di vita. Abbandonato da una famiglia sovente oppressa da problemi di sopravvivenza e da una scuola arroccata su una didattica tradizionale troppo lontana dalla vita vera, il minore è fatalmente predisposto ad aderire agli unici modelli che nel quartiere gli si offrono con coerenza e gli propongono un ruolo vincente, riconoscendogli un’identità.
    L’organizzazione criminale è in effetti un’altra società, con le sue regole, i suoi obiettivi, le sue strategie. Per chi vive in case-baracche poste in quartieri-dormitorio e si confronta con un sistema scolastico che lo rifiuta oppure lavora in nero, mal pagato, in condizioni di pericolo, vale a dire senza diritti, la caduta in quell’altra società è ineluttabile.
    Una volta inseriti, questi ragazzi, se ritenuti dotati e capaci, si affermeranno e passeranno, anche da giovanissimi, da un ruolo gregario o di manovalanza a qualcosa di più, ad esempio alla gestione autonoma di specifici traffici criminali, ritagliandosi un margine di operatività in zone prima d’allora non coinvolte nell’area criminale oppure lasciate provvisoriamente quasi scoperte nelle fasi di riassetto tra le varie famiglie.

    Baby boss

    Nel suo lavoro quotidiano il giudice minorile s’imbatte oggi in minori che, durante il periodo di detenzione del padre spacciatore, continuano a tenere i conti del giro, utilizzando gli stessi quaderni e naturalmente gli stessi codici. Di recente mi è capitato di incontrare come Gip una ragazzina appena quattordicenne che da sola, nel periodo di detenzione del fratello spacciatore (maggiorenne), aveva portato avanti e ingrandito il giro, radunando intorno a sé altri ragazzi più grandi, alcuni dei quali studenti e benestanti, e raggiungendo livelli organizzativi degni di nota. I ragazzi hanno confessato le modalità organizzative e ammesso i fatti contestati; la ragazza, invece, non ha ammesso i fatti e ha rifiutato di rendere l’interrogatorio, nonostante la perquisizione domiciliare avesse avuto esito inequivocabile. Il suo comportamento testimonia il distorto senso di lealtà verso il fratello.

    Eroi contro

    In questi quartieri il camorrista, il mafioso, deve sempre mostrarsi il più forte, il vincente, l’«eroe». Viene così ribaltato l’antico archetipo della fiaba dove il buono vince e il cattivo perde. Oggi vince chi è più forte, buono o cattivo che sia. E allora l’idea «buona» diventa oggi quella in grado di spezzare la mafiosità dilagante, di rompere il muro silenzioso della complicità e ripristinare nella società civile il senso della legalità. Questa idea, per affermarsi, ha bisogno di incarnarsi in una persona fisica vincente, in un volto sicuro e fermo, perché solo ciò le dà concretezza nell’immaginario collettivo, in tal modo tramutandosi in coscienza civile. Ogni società produce dei «contro-eroi» che impersonano l’idea «buona», uomini come Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Tonino Bello, Antonino Caponnetto, Luciano Violante, Luigi Ciotti, Giancarlo Caselli, Antonio Riboldi.
    Ma non solo. «Contro-eroe» è anche chi ogni giorno fa il suo dovere senza abdicare al proprio ruolo, combattendo contro la mafia con armi spuntate ma non rinunciando alla lotta, con l’esempio, la coerenza, il coraggio, la denuncia; è chi ha saputo recuperare la fiducia del cittadino, a volte impegnandosi fino al sacrificio della vita. Questa è la via per sconfiggere la malavita organizzata.

    Tv, tu che puoi

    Ma se nella civiltà dell’immagine il ripristino della legalità deve passare necessariamente attraverso il volto di uomini individuati come «contro-eroi», allora i mezzi di comunicazione di massa sono un veicolo insostituibile e hanno un’enorme responsabilità, essendo ormai una fonte di formazione più che d’informazione. Il mezzo televisivo ha il potere di distruggere e costruire modelli: un suo corretto approccio culturale e operativo al modello del «contro-eroe» può essere determinante nell’attuazione dei più diffusi diritti civili della società e quindi nella liberazione dei territori dall’oppressione delle mafie.

    Ecstasy e spinelli per ragazzi sempre più giovani

    Il ragazzo arriva al mercato della droga o perché appartiene a famiglia dedita allo spaccio o perché si droga e allora per «mantenersi» deve spacciare, scippare, rapinare. I due terzi dei minori inseriti nella società criminale rappresentano questa seconda categoria. Il discorso sulle cause che portano il ragazzo a fare uso di sostanze stupefacenti è lungo e difficile. C’entrano le aspettative mancate, il malessere diffuso, le ansie insostenibili, l’incapacità di fronteggiare lo stress emotivo, la mancanza di relazioni significative. Qui va solo sottolineato che il fenomeno, mettendo nel conto anche le droghe di sintesi, è in grande espansione. Allarma il fatto che la collettività si vada assuefacendo al consumo dello spinello, quasi scontato nel consumo giovanile, e delle droghe sintetiche in pressoché pacifica circolazione nella maggior parte delle discoteche del Nord e del Sud, dove sovente all’ecstasy si associa anche l’alcol.
    L’esperienza del giudice minorile conferma che quasi tutti i ragazzi che entrano in rapporto con la struttura giudiziaria fumano spinelli e molti prendono droghe sintetiche. Deve preoccupare che l’età del neofita si abbassi sempre di più.

    Tanto non si rischia

    L’osservazione dei fatti forniti dai vari tribunali minorili non mostra un aumento delle denunce per spaccio né a carico di infra-quattordicenni, né a carico di ragazzi tra i 14 e i 18 anni; anzi a Napoli si registra un lieve decremento. Ma i dati ufficiali sono la punta dell’iceberg, il resto è del tutto sommerso. Va pur detto che le forze dell’ordine sono poco motivate, a causa dell’atteggiamento troppo indulgente di taluni uffici giudiziari. Non si può escludere che l’impegno sia calato.
    Certo è che i reperti di droga sono sempre più spesso costituiti da eroina anche se l’hascisc è ancora la sostanza più trafficata dai minori. I ragazzi più svegli, a cominciare da 8-10 anni, vengono impiegati nel traffico perché velocissimi negli spostamenti – e comunque non imputabili. All’inizio fanno il «palo», poi diventano corrieri. Nelle loro mani la bustina passa per una frazione di secondo. In ogni caso sanno come liberarsene in fretta all’eventuale segnalazione di un poliziotto in arrivo; sanno dove prenderla: in un cortile, dietro un portone, in una buca...; sanno dove nasconderla, dove scappare. L’addestramento è veloce, i minori sono pienamente consapevoli del fatto che non rischiano niente e guadagnano il denaro necessario per ottenere gli oggetti desiderati. Spesso vengono allevati dai genitori esclusivamente con l’idea di ottenere un piccolo capitale da riscuotere il più presto possibile come forza lavoro; perciò sono «messi nello spaccio» per «portare la roba» o per consegnare le bollette del lotto clandestino. Da un po’ di tempo anche per partecipare a qualche spedizione punitiva. Aumenta così il numero di quei ragazzi che poi finiscono con un’arma in pugno, a rapinare e a uccidere: a Napoli nel ’95 sono stati tenuti ben 14 processi per omicidio e 9 per associazione a delinquere di stampo camorristico, tre dei quali connessi con lo spaccio di stupefacenti.

    Accogliere, non giudicare

    A ognuno di questi ragazzi dunque è mancata la famiglia, la scuola, la società, come dimostrano quattro costanti che si ritrovano ogni volta che un minore rimane coinvolto in questioni di rilevanza penale: famiglia disfunzionale, scarsa scolarizzazione, provenienza dalla periferia metropolitana o dal centro storico della città, prolungata permanenza in istituti. Il tutto traccia un esplosivo, scontato percorso di devianza prima e di delinquenza poi.
    Come fermare questo percorso fatale? Gli pseudo-valori da cui questi ragazzi sono attratti e fagocitati – potere e denaro, non importa come ottenuti – possono saltare uno a uno solo attraverso una reale e precoce presa in carico da parte di adulti che accettino il minore come persona e sappiano entrare in relazione con lui non solo e non tanto per giudicare ma per accogliere. Non si possono sradicare dal loro territorio, come qualcuno sostiene. È necessaria invece una radicale bonifica del territorio che passi soprattutto attraverso opportunità di crescita culturale, perché solo scuola e cultura, intesa come confronto e dialogo per spazi di crescita reale, possono costruire sul territorio quella rete di protezione rappresentata dal controllo sociale e allargato.

    Forse adesso è il momento buono

    Oggi questa rete è in via di ricostruzione: lo testimoniano vari segnali, non ultimo quello del pentitismo che evidenzia un’ansia di riscatto alla crescita della quale molto hanno contribuito i «contro-eroi». Soprattutto, occorre, da parte del governo, una politica complessiva di attenzione all’infanzia e all’adolesenza, un’alleanza operativa fra molti ministeri, e penso al Ministero per la Solidarietà e gli Affari Sociali, al Ministero della Pubblica Istruzione, al Ministero di Grazia e Giustizia, al Ministero della Sanità, del Lavoro e dell’Ambiente. Serve una comune strategia operativa che possa rompere il fronte dello schieramento mafioso e dell’indifferenza, dell’omertà e dell’unanimismo senza bandiera e senza obiettivi concreti.
    E occorre anche che il governo delle città accompagni il minore nel suo processo di crescita, garantendogli gli spazi e le opportunità necessari a diventare un adulto libero e responsabile. In fondo, sono questi gli obiettivi di base di uno Stato democratico.

    (Narcomafie, ottobre 1996)


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