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    In Gesù di Nazaret, lo Spirito è passione per la vita



    Luis A. Gallo

    (NPG 1998-01-50)


    Il ritorno dello Spirito

    L’anno scorso, seguendo l’indicazione data da Giovanni Paolo II nel programma di preparazione al Giubileo del 2000, un po’ dappertutto è stato fatto un notevole sforzo d’avvicinamento alla figura di Gesù di Nazaret, sforzo che ha portato alla riscoperta della sua attualità e della sua affascinante proposta evangelica. Molti ne hanno certamente scoperto nuovi risvolti che li hanno aiutati a rivitalizzare la fede in lui. Quest’anno siamo invitati dal papa a focalizzare la figura, per molti probabilmente poco conosciuta, dello Spirito Santo.
    Proprio perché si tratta di uno Spirito, sia pure con l’iniziale maiuscola, il tema può sembrarci meno concreto, meno afferrabile. Eppure l’esperienza ci mette costantemente a contatto con tanti «spiriti». Non tanto nel senso di quegli esseri misteriosi che, nella convinzione di più di uno, popolano invisibilmente il mondo provocando sia il bene (angeli) che il male (demoni), quanto nel senso di quelle forze che spingono gli uomini e le donne, singoli e in gruppo, ad agire in svariate direzioni. Si usa dire, per esempio, che uno è sospinto da uno spirito d’orgoglio, d’invidia, di superbia… Queste forze in effetti esistono. È il caso di una tribù dell’Africa, che si scaglia contro un’altra perché ha dentro di sé un’aggressività che la spinge a voler imporsi ad essa o perfino ad eliminarla; oppure di un gruppo di giovani naziskin che aggredisce un extracomunitario e lo pesta perché si lascia trascinare da una forza razzista che l’accieca; o ancora, di un’associazione di volontari che brucia le sue energie giovanili e consuma il suo tempo nell’assistenza a handicappati perché una generosità incontenibile lo spinge a donarsi generosamente ad essi. Ecco alcuni degli «spiriti» con cui si muovono le persone… Si potrebbero moltiplicare gli esempi all’infinito, in tutti gli ambiti dell’esistenza personale e sociale.
    D’altra parte, stiamo assistendo negli ultimi decenni ad un pullulare di gruppi e associazioni che si rifanno allo Spirito Santo, intendendo per esso lo Spirito di Dio. Sono i gruppi del «rinnovamento nello Spirito» che, in svariatissime forme, si diffondono a macchia d’olio nelle chiese cristiane e anche fuori di esse. Una cosa sembra accomunarle: l’esperienza «Spirituale» (con la maiuscola, appunto perché dello Spirito).
    Ad essi non interessa infatti sapere che esiste lo Spirito; vogliono invece avere a che fare con lo stesso Spirito, e sentire gli effetti della sua presenza e delle sue mozioni. Non pochi tra essi ci tengono ad individuare anche i doni concreti con cui lo Spirito divino agisce in mezzo alla comunità: guarigioni corporali o psichiche, consolazioni spirituali, capacità di parlare diverse lingue… Non si può negare che, contrariamente a quell’esilio dello Spirito che ha caratterizzato la vita di fede dei cristiani negli ultimi secoli, oggi si stia producendo un vasto ritorno del medesimo Spirito in maniera travolgente, fino a preoccupare le Chiese istituzionali perché in buona parte sfuggono al loro controllo.
    Tutto ciò rende urgente un discorso sullo Spirito. Ne dobbiamo parlare per cercare di chiarirci le idee. Ma parlarne come? Purtroppo le circostanze storiche hanno portato le Chiese a parlare dello Spirito in un linguaggio sempre meno comprensibile e afferrabile da parte di tante persone. Il cammino iniziato nei primi secoli, quando come risposta a certe tendenze ereticali si cercò di definirne l’identità in termini dogmatici, come successe nel secondo Concilio ecumenico, quello Costantinopolitano del 381, sfociò, col passare dei secoli, nella formulazione semplicistica presente anche nei catechismi: lo Spirito è la terza Persona della Santissima Trinità.
    Un’affermazione in se stessa esatta e perfettamente ortodossa, ma che finì per non dire più niente alla maggioranza dei cristiani. Forse per questo attualmente si sta tentando di parlarne in modo più libero, meno «ufficiale», anche lasciando da parte quelle affermazioni tradizionali. Ancora più povera è quella allusione allo Spirito come la colombella bianca che è raffigurata in tanti dipinti, e che finisce per non dire nulla, o per suggerire dei sensi completamente fuorvianti.
    Si può quindi parlare in molti modi dello Spirito Santo. Ma noi, cristiani, siamo convinti che sia Gesù di Nazaret in persona la Parola piena e definitiva su tutto ciò che è importante nella vita, quel Gesù che riconosciamo come il rivelatore per eccellenza, come colui nel quale e mediante il quale ha trovato la sua massima trasparenza tutto ciò che Dio voleva manifestare agli uomini per la loro salvezza. Quindi, anche e principalmente quello che si riferisce al mistero grande e trascendente di Dio stesso. È vero, e fa parte anche delle convinzioni cristiane, che ci sono le testimonianze dell’Antico Testamento, anteriori a Gesù, e in esse la presenza dello Spirito è molto rilevante e i risvolti della sua azione sono molto svariati; ma noi crediamo che solo in Gesù Cristo esse trovano pieno compimento e realizzazione.
    Ne consegue che, per parlare con proprietà dello Spirito, non c’è altra strada che quella di passare attraverso di lui. I vangeli ce lo presentano, infatti, come l’uomo spirituale per eccellenza, come un carismatico incomparabilmente pieno dello Spirito di Dio. I racconti del suo battesimo in Mt 3,13-17, Mc 1,9-10 e Lc 3,21-22, riflettendo ciò che le prime comunità pensavano di lui, lo evidenziano chiaramente. Particolarmente solenne è poi l’affermazione che l’evangelista Luca mette sulla sua bocca quale inaugurazione della sua missione nella sinagoga di Nazaret, citando il profeta Isaia: «Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l’unzione, e mi ha mandato ad annunciare la buona novella …» (Lc 4,18).
    Stupisce pertanto che, alle volte, si parli dello Spirito senza passare per questa via. Solo percorrendola si può essere sicuri di non sbagliare. Negli articoli che seguiranno ogni mese cercheremo quindi di addentrarci per questa strada, affacciandoci con grande rispetto all’esperienza spirituale fatta da Gesù di Nazaret. Sarà nostra intenzione scoprire la presenza e la manifestazione dello Spirito Santo di Dio in lui, individuare quella Forza divina che lo spingeva costantemente dal più profondo del suo cuore a vivere e ad agire in un determinato modo. Il tentativo ci aprirà un panorama certamente meraviglioso, e ci permetterà di cogliere i diversi risvolti della figura di questo Spirito Santo che, come afferma la nostra fede, è «Signore e dà la vita» (Credo nicenocostantinopolitano).

    Leggendo i vangeli non è difficile arrivare a convincersi che Gesù di Nazaret sia vissuto con una grande passione nel cuore. L’evangelista Luca gli attribuisce queste parole, che permettono di intravedere la profonda impressione da lui causata in chi lo osservava: «Fuoco sono venuto a portare alla terra, e come vorrei che fosse già acceso!» (Lc 12,49). Qualcosa gli bruciava nel petto, e questo ardore lo spingeva ad agire con entusiasmo incontenibile e con grande determinazione in una precisa direzione. Da parte sua il vangelo di Giovanni, narrando quell’impressionante intervento nel quale mise sottosopra il mercato allestito sotto i porticati del Tempio a servizio del culto, dice che allora i suoi discepoli si ricordarono di ciò che era scritto nella Bibbia: «Lo zelo per la tua casa mi divora» (Gv 2,13-17). Egli appariva quindi ai loro occhi come qualcuno che era «divorato dallo zelo».
    Indagando ancora nei vangeli si arriva anche con facilità ad individuare quale sia stato quel fuoco e quello zelo: non era altro che l’irrefrenabile passione per il regno di Dio. Già fin dalle sue prime battute il vangelo di Marco ne dà testimonianza.
    Presentando infatti l’inizio della sua attività, afferma: «Dopo che Giovanni fu arrestato, Gesù si recò nella Galilea proclamando la buona novella di Dio e diceva: ‘Il tempo è compiuto e il regno di Dio è imminente: convertitevi e credete a questa bella notizia’» (Mc 1,15).

    Il retroterra della passione di Gesù

    Chi conosce anche minimamente la Bibbia sa tuttavia che Gesù non inventò l’espressione «regno di Dio», da lui stesso frequentemente utilizzata per designare ciò che è al centro delle sue preoccupazioni. Egli la ereditò dall’Antico Testamento. Infatti, negli scritti che era andato elaborando il suo popolo sin dai tempi antichi, questa espressione ed espressioni equivalenti, come quelle che davano al Dio JHWH il titolo regale (Sal 28,10; 44,3; 47,3; 95,3) o gli attribuivano l’azione di regnare (Sal 93,1; 96,10; 97,1; 99,1; 141,1.13; 149,2; Es 14,28; Is 33,22; 44,6; 52,7; ecc.), non sono infrequenti. Ma, soprattutto, tale espressione era finita per designare un futuro intervento meraviglioso di Dio in favore del popolo e del mondo intero, il quale avrebbe rinnovato in positivo tutto: gli uomini, le loro reciproche relazioni, la loro relazione con lui e con il mondo. C’era nella tradizione biblica ancora un’altra parola che designava il risultato sostanziale di questo intervento: era la parola shalôm, pace. Ma pace intesa non come semplice assenza di guerra o come la mera «tranquillità dell’ordine» (S.Agostino), bensì come il compimento di tutte le legittime aspirazioni degli uomini e dei popoli.
    Furono principalmente i profeti quelli che, pieni di passione per le sorti del popolo, parlarono di questo intervento divino futuro che avrebbe trasformato la faccia della terra riempiendola di gioia e felicità. E siccome essi non avevano esperienza di un simile mondo così trasformato, utilizzarono per parlarne l’unico linguaggio adeguato, quello della poesia.
    Basta ricordarne un brano tra tanti, a modo d’esempio, per averne un’idea. È quello del profeta Isaia il quale, parlando dell’effetto che avrebbe fatto seguito all’azione del futuro intervento di Dio, dice:
    «Il lupo dimorerà insieme con l’agnello, la pantera si sdraierà accanto al capretto; il vitello e il leoncello pascoleranno insieme e un fanciullo li guiderà. La vacca e l’orsa pascoleranno insieme; si sdraieranno insieme i loro piccoli. Il leone si ciberà di paglia, come il bue. Il lattante si trastullerà sulla buca dell’aspide; il bambino metterà la mano nel covo di serpenti velenosi…» (Is 11,6-8).
    Gesù di Nazaret conosceva le Scritture. Sin da piccolo, come ogni maschio giudeo, era stato iniziato alla loro lettura e alla loro comprensione. La frequentazione della scuola dei rabbini per imparare la Bibbia era un obbligo per ogni ebreo di sesso maschile. Abbiamo quindi il diritto di supporre che più di una volta quei testi profetici che riguardavano il regno futuro di Dio siano caduti sotto i suoi occhi, e abbiano prodotto una profonda impressione nel suo animo sensibile. Non siamo in grado di sapere quali siano stati quelli che più l’abbiano colpito. Sta però di fatto che, quando egli si lanciò alla sua attività, lo fece con il cuore pieno di questa certezza: ciò che era stato annunciato dai profeti «per gli ultimi giorni», quando il tempo sarebbe arrivato a maturità come il grano d’estate, era ormai imminente; il regno di Dio da essi pronosticato stava cominciando ad essere realtà.
    Nelle narrazioni evangeliche Gesù dimostra di esserne profondamente convinto. E un’altra profonda convinzione traspare ancora dalle pagine dei vangeli: quella di essere lui stesso l’inviato da Dio per annunciare l’arrivo del regno. Annunciarlo con le parole e soprattutto con gli atti. Oltre a parlarne, infatti, servendosi come i profeti dei simboli più svariati (la luce, l’acqua, il banchetto, il lievito, il grano di senapa, l’ovile …) per illuminarne le diverse sfaccettature, egli pose dei segni concreti del suo arrivo.
    I segni che pone sono alcuni d’indole individuale, altri d’indole sociale. Guarigioni di ciechi, sordi, muti, paralitici, lebbrosi, liberazione da spiriti nocivi che tormentavano le persone, perdono dei peccati in nome di Dio, sono altrettanti segni da lui posti nell’ambito individuale.
    Quelli posti nell’ambito sociale riguardano invece la convivenza tra le persone e i gruppi: difesa della pari dignità della donna e dell’uomo, eliminazione della emarginazione dei peccatori, attenzione privilegiata ai più poveri e deboli, ai più piccoli tra i membri della società. Tali segni fanno toccare con mano l’avvento di un mondo radicalmente trasformato secondo il disegno originale di Dio.
    Una lettura dei vangeli che segua con attenzione questa sua travolgente attività, mirata a testimoniare la venuta, nella sua persona e nella sua azione, del regno promesso, non può non rimanere colpita dalla passione che vi traspare: Gesù non è un tranquillo operatore di beneficenza, è un vulcano che lascia traboccare il fuoco che gli brucia dentro.
    Dove lui arriva, fugge il mondo vecchio fatto di malattia, alienazione, ingiustizia, emarginazione, peccato, per lasciare posto al mondo nuovo fatto di benessere vero, di amore, di accoglienza, di gioia e felicità.

    La versione giovannea

    Finora abbiamo attinto ai vangeli sinottici, che si muovono sostanzialmente nella stessa lunghezza d’onda. In essi la passione di Gesù appare polarizzata attorno all’annuncio del regno di Dio. L’evangelista Giovanni segue invece un altro schema, tutto suo. E anche per quel che riguarda la preoccupazione centrale di Gesù si esprime in altri termini. È soprattutto la parola «vita», spesso accompagnata dall’aggettivo «eterna», quella che viene particolarmente da lui privilegiata. L’aggettivo non deve depistare.
    Spesso, infatti, è stato interpretato nel senso che la preoccupazione di Gesù sarebbe stata la vita dell’aldilà, quella che si avrà nel cielo, dopo la morte; oppure ciò che viene più di una volta chiamato «vita spirituale», o perfino «vita soprannaturale». In concreto, la comunione filiale con Dio per mezzo suo nello Spirito Santo. Non c’è dubbio che anche ciò faceva parte della sua preoccupazione. Basta leggere i vangeli per averne un’innegabile conferma. Ma il senso che la parola «vita» ha nel vangelo di Giovanni è estremamente ricco e realistico, soprattutto se lo si intende alla luce di quanto Gesù fa: abbraccia la totalità dell’esistenza umana, in tutti i suoi molteplici risvolti, a cominciare da quelli più elementari che riguardano il benessere corporale. È significativo che lo stesso Giovanni, seppure in molto minore quantità dei sinottici, racconti interventi suoi mirati a guarire degli ammalati nel corpo (Gv 4,46-54; 5,19; 9,1-7).
    Recentemente, nella sua enciclica «Evangelium Vitae», papa Giovanni Paolo II l’ha messo chiaramente in evidenza. Egli, infatti, interpretando quella che ritiene essere la frase-nucleo della missione di Gesù – «Io sono venuto perché abbiano la vita, e l’abbiano in abbondanza» (Gv 10,10) – commenta:
    «In verità, Egli si riferisce a quella vita ‘nuova’ ed ‘eterna’, che consiste nella comunione con il Padre, e a cui ogni uomo è gratuitamente chiamato nel Figlio per opera dello Spirito Santificatore. Ma proprio in tale ‘vita’ acquistano pieno significato tutti gli aspetti e i momenti della vita dell’uomo» (n. 1c).
    Il senso, quindi, della missione di Gesù, ciò che dava unità e forza a tutta la sua attività, era la vita in pienezza delle persone, di ogni singola persona. Egli voleva davvero, appassionatamente, che avessero «la vita e l’avessero in abbondanza», e cioè in tutte le sue dimensioni. A questo scopo orientava tutto ciò che diceva e faceva. Per questo anche diede, in definitiva, la propria vita, quando le circostanze lo richiesero. Era questo il modo di glorificare Dio, facendo avvenire il suo regno nel mondo.

    Chi muove Gesù è lo Spirito

    Nella narrazione del battesimo di Gesù dei vangeli sinottici (Mt 3,13-17; Mc 1,9-11; Lc 3,21-22) è presente, tra gli altri, un elemento di rilievo: lo Spirito scende su Gesù come una colomba. Anche nel racconto di Giovanni il Battista, egli dice di aver visto «lo Spirito scendere come una colomba dal cielo e posarsi su di lui». Non solo; afferma che chi lo ha inviato gli ha detto: «L’uomo sul quale vedrai scendere e rimanere lo Spirito è colui che battezza in Spirito Santo» (Gv 1, 32-33).
    Questa concorde testimonianza, non frequentemente riscontrabile, tra i quattro vangeli, sta a testimoniare una profonda convinzione dei primi discepoli: in Gesù abitava in forma stabile lo Spirito di Dio. E non abitava in maniera inerte e passiva, bensì in maniera intensamente dinamica. Infatti, come si vede nel seguito della narrazione, è lo Spirito che lo muove costantemente verso la realizzazione della sua missione, a cominciare dai quaranta giorni passati nel deserto tra tentazioni diaboliche (Mt 4,1-11; Mc 1,12-13; Lc 4,1-13). Le guarigioni da lui operate sono ugualmente attribuite a quella energia che, uscendo da lui, «guariva tutti» (Lc 6,19; cf Mc 525-31; Lc 8,43-46), e gli esorcismi mediante i quali liberava coloro che erano sotto il potere degli spiriti, sono ascritti al «dito di Dio» (Lc 11,20; Mt 12,28). Due metafore – energia e dito – con le quali i sinottici esprimono la presenza vivificante dello Spirito operante in lui. Giovanni, in un altro contesto, manifesta la stessa convinzione. Si tratta dell’intervento di Gesù durante la festa delle Capanne, nella quale, in mezzo alla solenne processione che portava l’acqua viva dalla fontana di Siloe al Tempio, si sente la sua voce che proclama: «Chi ha sete venga a me e beva chi crede in me; come dice la Scrittura: fiumi di acqua viva sorgeranno dal suo seno». E l’evangelista aggiunge esplicitamente che egli intendeva riferirsi allo Spirito Santo (Gv 7,37-38). Almeno secondo alcuni interpreti, i fiumi di acqua viva, a cui alludono le sue parole, sgorgano dal suo stesso seno.
    È lo Spirito che promana da lui, perché è in lui. L’immagine dell’acqua per parlare dello Spirito è infatti presente anche in un altro testo del medesimo vangelo, quello in cui si narra l’incontro di Gesù con la donna samaritana presso il pozzo di Giacobbe.
    A lei, che gli chiede l’acqua viva per non dover tornare al pozzo ad attingerla, Gesù risponde: «Chi beve dell’acqua che io gli darò, non avrà mai più sete; anzi, l’acqua che io gli darò diventerà in lui sorgente di acqua che zampilla per la vita eterna» (Gv 4,13-14). È facile cogliere il nesso che c’è in questo testo tra «acqua» e «vita eterna», nel senso sopra accennato. Ed è facile anche percepire come l’evangelista pensi a Gesù come sorgente di vita piena precisamente perché è pieno di Spirito Santo.
    Fuoco e acqua sono due realtà che si respingono a vicenda nella nostra esperienza; ma nel mondo dei simboli possono stare molto bene insieme. Tutti e due servono a trasmettere la stessa convinzione: Gesù di Nazaret è un uomo pieno dello Spirito di Dio, uno Spirito che è fuoco ed è acqua viva, e che non lo lascia tranquillo ma lo spinge costantemente a uscire in qualche modo da se stesso per andare verso la realizzazione dell’unica grande volontà di Dio, suo Padre: che gli uomini e le donne «abbiano la vita, e l’abbiano in abbondanza» (Gv 10,10).


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