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    Il senso del «no» per dire meglio il proprio «sì»



    Guido Gatti

    (NPG 1998-01-40)


    Diversa natura dei «no» alla vita

    La vita di cui si parla qui non è la vita fisica, che pure di ogni altro livello del vivere è la condizione di base.
    Qui sarà intesa in un significato molto più ampio e più generico: è la vita a tutti i livelli del vivere umano, l’esplicazione di tutte le possibilità espressive, creative, esperienziali, e di crescita umana, contenute nella vita fisica come in un germe.
    Così intesa, la vita è sottoposta a diverse categorie di «no».
    Una prima categoria comprende i limiti oggettivi e insuperabili posti alla vita dalla sua condizione creaturale e quindi dalla sua finitudine.
    Ogni vita umana è più o meno ricca di possibilità di espansione e di occasioni di crescita, ma nessuna vita ne è infinitamente ricca. La vita dell’uomo si muove e si sviluppa dentro confini invalicabili, diversi e diversamente angusti da persona a persona; ogni vita deve fare i conti con impossibilità oggettive, che la riportano continuamente alla consapevolezza, indubbiamente umiliante e dolorosa, della sua essenziale limitatezza: di questo genere sono i «no» che alle aspirazioni potenzialmente infinite della vita oppongono la scarsità economica, la povertà culturale, gli aspetti negativi del carattere, le malattie, la vecchiaia e l’inevitabilità della morte.
    Questa categoria di «no» resterà sullo sfondo della nostra riflessione e ci ricorderà che la grande avventura della vita non ubbidisce alle regole magiche dei sogni infantili, in cui tutto è possibile. Ogni vita dispone in partenza di una certa somma di «talenti».
    Possiamo investire e far fruttare, alla banca della vita, solo quei talenti che realmente ci sono stati affidati. Nessuno può fare più di questo e neppure gli è chiesto.
    Del resto, potrebbe alla fine risultare che la povera vedova abbia gettato nel tesoro del tempio di più del ricco, perché i due spiccioli che essa ha donato erano tutto ciò che aveva, mentre il possessore di doti privilegiate, il detentore dei beni della cultura, della ricchezza e del potere potrebbe averne lasciati infruttuosi una parte più o meno consistente.
    Una seconda categoria di «no» alla vita è costituito da tutto ciò che ferisce violentemente la vita, ostacolandone lo sviluppo, soffocandola e magari sopprimendola: qui il «no» alla vita non è intrinseco alla sua creaturalità e finitudine; è un «no» detto ingiustamente da altre vite; è un «no» non innocente, un segno della fallibilità e colpevolezza dell’agire umano.
    Una terza categoria di «no» alla vita è costituita dai divieti e dalle limitazioni che le diverse «istanze autoritative» (Dio, la coscienza morale, la Chiesa, lo stato, la famiglia) avanzano (imponendo o consigliando o proponendo) nei confronti dei loro «sudditi». Tali divieti riguardano sia possibili scelte particolari sia orientamenti di vita più generali, che vengono proibiti in quanto considerati nocivi rispettivamente al singolo soggetto oppure alla collettività, e perciò riprovevoli, immorali, peccaminosi e variamente punibili, nel caso la proibizione dovesse venire trasgredita.

    Una preoccupazione educativa

    La nostra attenzione, senza trascurare le altre due categorie di «no», si concentrerà soprattutto su questa terza.
    Cercheremo di tracciare al suo interno una specie di linea divisoria tra quei «no», che non sono funzionali allo sviluppo possibile della vita, e quelli che sono invece richiesti da questo sviluppo e si risolvono quindi, al di là della loro formulazione eventualmente proibente e perciò negativa, in un «sì» alla vita. È subito possibile perciò comprendere che le preoccupazioni da cui siamo mossi sono, almeno ultimamente, di natura educativa e sono volte a sondare le modalità più producenti per trasformare questi «no» in uno stimolo, in un sostegno e in una guida saggia, che aiuti i giovani a vivere in pienezza, portando a pieno rigoglio tutte le concrete possibilità di vita che sono in loro.
    L’orizzonte delle nostre considerazioni sarà naturalmente quello della fede; ma ci sembra che esse possiedano una loro evidenza umana, anche a prescindere dalla fede, e abbiano perciò qualcosa da dire anche ai non credenti, purché mossi da una autentica passione per la vita.Va detto comunque che i «no» cui ci riferiamo non sono solamente quelli rivolti dagli educatori agli educandi in senso proprio, ma anche quelli che ogni persona umana è chiamata ad imporre a se stessa, in quanto impegnata in un processo di autoeducazione lungo quanto la vita, per portare a compimento le promesse di vita che porta in sé.
    Questi «no» sono spesso di natura direttamente e chiaramente morale; l’educatore si fa, in questo caso, ambasciatore dell’istanza etica, sia essa vista come volontà di Dio o come bene morale in sé (la natura umana o il bene comune dell’umanità o la stessa logica interna dello sviluppo della vita).
    Ma anche quando questo riferimento fondante all’oggettività del bene e alle interne esigenze dello sviluppo della vita non fosse esplicito e diretto, se la norma etica non vuole essere un atto di arbitrio e di prepotenza, deve poter fare appello a una qualche motivazione di natura, almeno implicitamente, etica.

    Il significato positivo delle norme etiche negative

    È quindi necessario partire da una chiarificazione del significato del ruolo dei «no» nell’ambito dell’esperienza morale.
    Cominciamo col dire che la tradizionale visione cattolica della morale ritiene che le norme etiche, siano esse imperanti o proibenti, non contengono nessun elemento di arbitrarietà e non domandano all’uomo di rinnegare la sua ragione o quella aspirazione alla pienezza della vita che costituisce il fondo della sua libertà.
    Esse sono l’espressione di quelle esigenze morali che costituiscono l’uomo nella sua verità: sono incise nel suo essere, prima ancora che su tavole di pietra: sono la segnaletica della strada che conduce alla piena realizzazione di sé, e una serie messa in guardia nei confronti di ciò che porta invece alla propria autodistruzione, al soffocamento delle proprie possibilità di vita.
    La veracità, l’amore del prossimo, la giustizia, la fedeltà agli affetti familiari sono un bene morale, non perché Dio li ha comandati, ma perché corrispondono alla verità profonda di cui l’uomo è fatto. La menzogna, l’odio, l’ingiustizia, il tradimento dei valori della famiglia e del significato umano della sessualità sono un male morale, non perché proibiti, ma perché distruttivi della verità dell’uomo. Da queste norme la vita non viene compressa ma difesa e orientata a una più ricca fruttificazione; esse non conducono al soffocamento della vita ma alla sua esplosione.
    «Certamente in più di un punto, la normativa etica, soprattutto nella forma esigente che ha assunto nella predicazione di Gesù e nell’insegnamento della Chiesa, potrà sembrare ed essere di fatto controcorrente rispetto alle tendenze istintive e alla spontaneità immediata del desiderio umano. Ma questa opposizione non rivela nessuna ostilità della norma etica nei confronti della vita; essa dipende solo dai limiti della sensibilità morale umana, oscurata dal peccato. La parola di Dio rivela l’uomo a se stesso, anche là dove egli faticherebbe a cogliere le esigenze morali che sono incise nel suo essere, come logica interna dello sviluppo della vita. È questa logica e non una qualche volontà arbitraria di Dio, il vero fondamento del confine tra il bene e il male.
    Naturalmente resta sempre vero che la vita dell’uomo è opera di Dio, espressione del suo libero amore creativo; la sua sapienza e santità è la fonte originaria di ogni vita e solo in quanto tale misura del bene e del male.
    L’idea che Dio possa comandare all’uomo in modo arbitrario contraddice al suo amore nei confronti dell’uomo che è uno dei punti più qualificanti del messaggio di Gesù: non rispetterebbe nulla di quell’uomo, che pure dichiara di amare perdutamente, un padre che lo riducesse alla condizione di servo, in balia di una volontà estranea in cui egli non potrebbe mai riconoscersi.

    Norme e valori

    Certo, la bibbia ci presenta l’esperienza morale del credente sempre e solo là dove essa realmente si situa e dove trova la sua piena autenticità, cioè nel contesto di quel dialogo tra Dio e l’uomo, di cui è costituita la storia della salvezza e che dà all’esistenza umana il suo senso, la sua certezza di riuscita e la sua speranza di eternità.
    Ma il bene morale, pur trovando nel progetto amoroso di Dio e nella risposta di fede dell’uomo il suo orizzonte più vero e convincente, non ha in sé nulla di arbitrario: resta il bene dell’uomo in quanto uomo, il bene postulato dalla verità di cui egli è fatto. Questo significa in concreto che dietro le norme morali, anche di quelle espresse nella forma della proibizione, è sempre possibile intravvedere un quadro organico di valori, che fanno da fondamento e da giustificazione dei precetti stessi.
    Le norme sono sempre esemplificazioni concrete e incarnazioni dei valori; la loro forza vincolante è la forza vincolante dei valori che essi incarnano.
    Le singole norme incorporano i valori senza esaurirli; ne offrono una interpretazione inevitabilmente parziale, ma ne dischiudono insieme la portata universale.
    Dalla norma è sempre possibile risalire ai valori che la ispirano, per ridiscendere da questi alle situazioni storiche e culturali inedite che si devono affrontare. Da un simile confronto scaturiscono quelle indicazioni attuali e quegli imperativi, che il genere letterario di certe forme di catechesi popolare sembra leggere direttamente dentro la formulazione imperante e proibente delle norme.

    Al di là della mitologia dello spontaneismo: la necessità della lotta

    Si è spesso portati a considerare la vita come un «qualcosa che scorre»; inoltrandosi nel tempo e attraversando le più diverse vicende, la vita sembra restare sempre ugualmente se stessa. Il vivente assapora una dopo l’altra le diverse esperienze che egli vive; esse lo fanno gioire e soffrire, ma poi se ne vanno ed egli rimane sempre quello, pronto ancora ad altre vicende e ad altre esperienze, finché dura lo «scorrere» della vita.
    Ma non è così: l’uomo è essenzialmente un essere che si fa, e il suo vivere non è uno sperimentare, un «passare attraverso», ma un diventare; in quanto segnate dalle sue scelte libere, le esperienze attraverso cui egli passa espandono o restringono la sua vita.
    La vita umana è quindi inserita in un processo di autoplasmazione e di autorealizzazione di cui l’uomo stesso è protagonista con le sue scelte libere; è un essere storico, che si costruisce giorno per giorno con le sue numerose scelte» (FC 34).
    A questo quotidiano costruire se stessi, attraverso le proprie libere scelte morali, potremmo dare il nome di autorealizzazione.
    Va detto peraltro che il termine ha, nella nostra cultura, un significato profondamente ambiguo. Esso è frequentemente usato come cifra dell’enfatizzazione della soggettività e dal narcisismo, che caratterizza appunto questa cultura. Si può quindi parlare dell’impegno morale in termini di autorealizzazione, solo se si ha l’attenzione di chiarire bene il termine. Per l’uomo realizzare se stesso, portare a compimento l’espansione piena della propria vita non è tessere l’ordito empirico delle sue capacità, emozioni, esperienze, dominio sul mondo, ma attuare la sostanza etica di cui è fatta la sua umanità. È nella realizzazione di valori che la trascendono, ma che insieme le si presentano come sua attuazione e suo bene, che la persona si realizza.
    Questa concezione si oppone radicalmente a una certa «mitologia dello spontaneismo», molto diffusa nella nostra cultura, soprattutto giovanile. Oggi si pretende spesso che la gestione della propria vita debba essere affidata unicamente alle forze spontanee del desiderio e si teme ogni intervento educativo o autoeducativo come una violenza o una violenza fatta all’autenticità della persona. Ogni preoccupazione educativa si riduce a quella puramente negativa di non interferire.
    Contro ogni mitologia dello spontaneismo dobbiamo riaffermare la necessità dell’impegno e della lotta e dell’educazione che li favorisce, e quindi di quei «no» di cui la vita ha bisogno per affermarsi ed espandersi.
    Il cammino della vita non è né facile né spontaneo. Ci sono perfino dentro il cuore della vita stessa pulsioni e desideri che si oppongono ad essa e che vanno combattuti, sublimati o repressi.
    Questa lotta comporta quindi un certo autorinnegamento, cioè lo sforzo di dire di no a desideri prepotenti che nascono dal di dentro di noi, quindi a qualcosa che ci appartiene, a un poco di noi stessi.

    Una ascesi integrata nel vissuto della persona

    Ma il credente vive questo autorinnegamento nella luce della croce, come partecipazione al mistero della morte-risurrezione di Cristo, mistero che proclama, mostrandola nella stessa persona del Figlio di Dio, la necessità che ad ogni donazione di sé nell’amore corrisponda una kénosi e un annientamento doloroso. Scopo di questa lotta è prima di tutto la disciplina dei desideri e dei moti spontanei dell’animo. L’acquisizione della libertà comporta l’assoggettamento di queste energie vitali a una disciplina che le metta al servizio della crescita della vita.
    Naturalmente la lotta non dovrà mai diventare un’ossessione. Né dovrà avere il carattere puramente negativo di una fuga dal male e di una preoccupazione unilaterale del peccato.
    La vera ascesi cristiana non ha nulla in sé della volontà di annientamento di certe forme di ascesi orientale; o è il risvolto negativo di una seria e non velleitaria passione per la vita o non è cristiana; o produce più vita, o non rientra nei disegni del Dio della vita. Se lo sviluppo della vita ha bisogno anche di ascesi e di rinuncia, non è detto che ogni ascesi e ogni rinuncia sia di per sé umanizzante ed eticamente positiva.
    Il valore morale non si misura solo con lo sforzo sviluppato e col costo sopportato per compiere il bene, ma con la sincerità e interiore libertà dell’adesione al bene stesso. Una virtù che si regge solo sullo sforzo volontaristico è per certi versi apprezzabile, anzi è l’iniziazione necessaria al bene, ma lascia nello stesso tempo trasparire una certa immaturità, è una virtù non ancora profondamente radicata nella persona e perciò ancora in pericolo.
    Le rinunce sono costruttive nella misura in cui sono interiorizzate e vissute nella luce dei valori che permettono di realizzare.
    La rinuncia che produce ansietà e angoscia, l’ascesi non integrata nella personalità nasconde spesso una soggezione forzata a un veto subìto senza convinzione e amore. La vera adesione a un valore può costare, ma produce la serenità e la pace interiore che vengono dal sapere che questo valore è un valore per la persona.

    Il principio di gradualità: l’integrazione dei «no» nel processo di crescita della persona

    Questo discrimine tra rinunce non ancora pienamente umane, perché vissute sotto il segno della costrizione, e rinunce pienamente umanizzanti, perché vissute con accettazione consapevole e libera, ci riporta alla problematica educativa da cui siamo partiti. La preoccupazione educativa che ispira il nostro discorso non può evitare di porsi ulteriori domande a proposito della funzionalità di questi «no» al grande «sì» nei confronti della vita che è il senso ultimo di tutta la normativa morale.
    Si è detto che l’educatore è l’ambasciatore delle esigenze oggettive della vita, e della funzionalità dei «no», contenuti nella normativa etica, rispetto alla piena espansione della vita stessa.
    Ma in quale misura, e con quali modalità dovrà egli svolgere questa funzione di ambasciatore della esigenza, non raramente severe, della verità morale, come via obbligata dell’espansione della vita?
    Per poter rispondere a questa domanda è necessario tener presente che il processo educativo sta tutto intero sotto il segno della gradualità.
    Tutte le dimensioni del fatto morale, tutte le strutture psichiche da cui esso dipende e su cui esso si appoggia, e quindi la struttura pulsionale, la conoscenza dei valori, la capacità di giudicare in termini morali e di discernere il bene dal male nel concreto dell’esistenza, la creatività, l’autocontrollo, la fiducia di base, la capacità di amare il bene... sono realtà che si costruiscono solo gradualmente nella persona, attraverso quel processo con cui la persona costruisce se stessa, la sua maturità e autenticità umana.
    Questa essenziale dimensione evolutiva della vita morale impone l’adozione di quel criterio pedagogico fondamentale che è il principio di gradualità.
    La pedagogia che sostiene e stimola lo sviluppo morale non può essere che una pedagogia di gradualità, che si faccia mediazione dell’appello morale dei valori, adeguando tale appello al livello di maturità raggiunto dall’educando e al ritmo di crescita che gli è concretamente possibile.
    Essa raggiunge la libertà del soggetto là dove essa si trova, la interpella per come essa è in concreto, segnata sempre da condizionamenti, solo parzialmente e gradualmente superabili. Essa realizza le possibilità di bene dell’educando solo proponendogli obiettivi concretamente possibili, cioè concretamente integrabili in maniera costruttiva all’interno del suo unico e irripetibile processo di sviluppo.
    I «no» imposti dall’ordine morale oggettivo, al di là della formulazione necessariamente assoluta, nella misura in cui sono rivolti a una persona concreta in una situazione concreta, devono essere adeguati a questa persona e a questa situazione. Senza perdere la loro oggettività, essi diverranno appello concreto per una persona concreta, seguendo le leggi di una morale dinamica ed educativa.
    Essi finiranno spesso per indicare più una direzione di marcia che un confine: il vero confine tra il bene e il male passa all’interno di ogni situazione concreta: il bene è davanti a me, il male è appena dietro le possibilità concrete di bene che mi sono offerte. Non sono chiamato che a superare me stesso, sforzandomi di andare oltre, a partire da dove mi trovo, nella direzione indicatami dalla norma.
    È a una simile concezione della gradualità che si riferisce evidentemente Giovanni Paolo II quando riconosce che l’uomo «chiamato a vivere responsabilmente il disegno sapiente e amoroso di Dio è un essere storico che si costruisce giorno per giorno con le sue numerose scelte: per questo egli conosce, ama e compie il bene secondo tappe di crescita» (FC 34).
    L’educatore vero si affianca all’educando per stimolare, favorire, sostenere il suo personale itinerario di crescita, di cui egli è il solo vero protagonista.
    Egli non è al servizio che di questa crescita. La stessa proclamazione dei valori, umile ma coraggiosa, cui egli si sente obbligato, non è primariamente un servizio ad una verità astratta, ma alla concreta verità dell’uomo che cresce.
    L’uomo si realizza solo nell’adesione altrettanto incondizionata alla verità e l’educatore serve la crescita dell’uomo solo proclamando senza infingimenti la verità; ma nello stesso tempo l’uomo si relaizza solo per gradi, e l’educatore ne serve la crescita solo accettandone incondizionatamente la gradualità. Gradualità e fedeltà alla verità si compongono in tutto educativo, dove i criteri secondo cui mettere l’accento di più sull’uno o l’altro dei due poli sono criteri educativi, cioè di concretezza.
    Ci sono casi in cui l’accentuazione della totalità della verità, il subito tutto, crea l’angoscia che paralizza, e allora va accentuata la gradualità che sdrammatizza e libera energie represse.
    E ci sono situazioni in cui la comprensione e l’accettazione della gradualità rischiano di ottundere la sensibilità morale; allora è proprio la pedagogia a chiedere di accentuare la fedeltà alla verità e la serietà dell’impegno.
    Queste due preoccupazioni apparentemente contraddittorie, quella cioè di servire fedelmente una verità oggettiva di importanza decisiva per la riuscita umana della persona da una parte, e di capire e aiutare un soggetto fragile e immaturo dell’altra, si conciliano appunto in una concezione dinamica e quindi progressiva dell’impegno morale.
    Questo vale naturalmente in modo particolare per la dimensione negativa, cioè proibente della verità morale.

    Da una comprensione intellettualistica a una comprensione valutativa

    Di grande importanza per una produttiva integrazione dei divieti morali nel vissuto delle persone è la loro capacità di percepirne la loro effettiva funzionalità all’espansione della vita.
    Ma non è sufficiente, per questa integrazione, una comprensione puramente intellettualistica, per la quale il valore venga colto nella sua formulazione concettuale con una forma di sapere puro, privo di grandi risonanze esistenziali. È necessaria una più coinvolgente comprensione valutativa, con la quale il valore venga colto proprio come valore, cioè come fatto di autorealizzazione, come interesse fondamentale della persona stessa. Ancora una volta, il passaggio da un apprendimento puramente intellettuale di una norma proibente a una vera assimilazione vitale può essere solo graduale. L’educatore che urga autoritariamente una simile norma in un soggetto ancora incapace di una simile integrazione vitale rischia di essere controproducente.
    «Nella misura in cui il giovane non sperimenta e non realizza come valore il valore morale difeso da questa proibizione... l’obbligo morale resta soltanto una norma che viene dal di fuori... Egli non può essere toccato intimamente, perché non sperimenta in maniera esistenziale il valore morale in essa espresso. Ne comprende intellettualmente il significato, ma ciò non è sufficiente a comunicare il valore in questione. Diversa è invece la cosa... se il dovere morale, il valore in esso difeso, viene dall’uomo vissuto nella profondità della propria esistenza, se lo implica personalmente e lo vincola in coscienza» (K. Rahner).
    Una simile comprensione, che permette di vivere i valori nella profondità dell’esistere (e che quindi vincola in coscienza), si dà solo all’interno di una storia (personale o collettiva), cioè all’interno di un fatto di crescita graduale, secondo ritmi che non sono sempre identici per ogni persona, perché dipendenti dal vissuto concreto delle stesse: «La storia della coscienza e della libertà segue ovviamente nei singoli uomini ritmi diversi» (K. Rahner).
    La misura dell’obbligo morale che può essere fatto valere nei confronti della singola personalità in via di sviluppo dipende appunto dai ritmi della sua maturazione. Non è una totalità già esistente fin dall’inizio.
    Questo però ha delle conseguenze sul piano educativo. Esse sono principalmente rappresentate dai limiti del meccanismo autorità-obbedienza e dalla inefficacia del puro e semplice indottrinamento. L’autorità e l’obbedienza possono avere una certa funzione educativa morale, ma solo sussidiaria e comunque provvisoria. Non possono essere di più di una «pedagogia degli inizi» o dell’innesco. Anche la semplice presentazione concettualmente esatta della verità morale, se produce inevitabilmente un «surplus» di sapere puro, non produce necessariamente una vera maturazione di coscienza; non è solo attraverso l’indottrinamento (e tanto meno attraverso l’impero arbitrario dell’autorità dell’educatore) che cresce il vero orizzonte della persona, che non è solo esecutivo-materiale, né solo intellettuale ma esistenziale-valutativo: «Come la violenza, anche il semplice indottrinamento (che comunica soltanto concetti senza suscitare dall’interno una autentica esperienza morale) non trasforma in nessun modo la coscienza. Soltanto quando attraverso nuove ed autentiche conoscenze si scuote la coscienza del singolo individuo o della società, in modo tale che essa colga creativamente il nuovo valore e ne rimanga trasformata, soltanto allora questa coscienza morale, trasformata, giunge alla vera norma e se ne sente vincolata» (K. Rahner).

    Una morale sperimentale?

    R. Bleistein ha parlato di una morale per i giovani come di una morale sperimentale, nel senso che «il giovane è solo sulla strada per diventare un soggetto morale e per questo il suo comportamento, a seconda dell’età e della fase di sviluppo attraversato, può e deve essere solo irregolare, non rigido, operante per tentativo e per esperimenti, se egli dovrà essere un giorno (al termine della pubertà) soggetto di responsabilità morale.
    La morale giovanile deve perciò essere caratterizzata come una morale di itinerario, un’etica della ricerca, una morale sperimentale».
    Questo non deve comunque portare a nessuna mistificazione della verità morale e delle sue esigenze. La gradualità non deve servire a tranquillizzare ma a crescere; magari a sdrammatizzare, ma solo in funzione del crescere. L’educazione morale si ispira a un’etica del possibile, ma solo perché tesa a dilatare gradualmente la sfera del possibile stesso.
    Lo sviluppo di queste possibilità è la sua responsabilità.
    Crescere verso la maturità morale è per lui il promo dei comandamenti; perché essa si identifica semplicemente con lo sviluppo della vita e della realizzazione di sé.
    Una pedagogia morale consapevole di questo sarà necessariamente una pedagogia della sfida e del compromesso, della comprensione ma anche dello stimolo.
    Non si tratta d’altronde di una pedagogia facile: essa presuppone nell’educatore la rinuncia all’ambizione di creare nel ragazzo impossibili forme di precocità morale, la preventivazione di lentezze, ritardi e regressioni nello sviluppo e quindi nell’azione educativa che dovrà adeguarvisi.
    Essa comporta la rinuncia alla pretesa di far valere sul ragazzo la propria superiorità di adulto, attraverso l’esercizio arbitrario dell’autorità educativa, e il proprio potere intellettuale, attraverso la tentazione dell’indottrinamento.
    Essa richiede una precisa conoscenza del soggetto concreto dell’educazione, della sua struttura cognitiva ma anche della sua reale capacità valutativa, del suo sviluppo affettivo, dei suoi conflitti, dei condizionamenti negativi cui soggiace. Essa utilizza accortamente il dubbio, il senso di inadeguatezza e di insufficienza come occasione per i corrispettivi passaggi di livello.
    Essa comporta soprattutto una incondizionata accettazione dell’educando che può venire solo da un amore capace di dare in modo così disinteressato, da rinunciare perfino al legittimo orgoglio del proprio successo educativo, almeno nei tempi brevi.


    T e r z a
    p a g i n A


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