Pastorale Giovanile

    Home Indice

    Pastorale Giovanile

    Attesi dal suo amore
    Proposta pastorale 2024-25 

    MGS 24 triennio

    Materiali di approfondimento


    Letti 
    & apprezzati


    Il numero di NPG
    luglio-agosto 2024
    600 cop 2024 2


    Il numero di NPG
    speciale sussidio 2024
    600 cop 2024 2


    Newsletter
    luglio-agosto 2024
    LUGLIO AGOSTO 2024


    Newsletter
    SPECIALE 2024
    SPECIALE SUSSIDIO 2024


    P. Pino Puglisi
    e NPG
    PPP e NPG


    Pensieri, parole
    ed emozioni


    Post it

    • On line il numero di LUGLIO-AGOSTO di NPG sul tema degli IRC, e quello SPECIALE con gli approfondimenti della proposta pastorale.  E qui le corrispondenti NEWSLETTER: luglio-agostospeciale.
    • Attivate nel sito (colonna di destra "Terza paginA") varie nuove rubriche per il 2024.
    • Linkati tutti i DOSSIER del 2020 col corrispettivo PDF.
    • Messa on line l'ANNATA 2020: 118 articoli usufruibili per la lettura, lo studio, la pratica, la diffusione (citando gentilmente la fonte).
    • Due nuove rubriche on line: RECENSIONI E SEGNALAZIONI. I libri recenti più interessanti e utili per l'operatore pastorale, e PENSIERI, PAROLE

    Le ANNATE di NPG 
    1967-2024 


    I DOSSIER di NPG 
    (dall'ultimo ai primi) 


    Le RUBRICHE NPG 
    (in ordine alfabetico
    e cronologico)
     


    Gli AUTORI di NPG
    ieri e oggi


    Gli EDITORIALI NPG 
    1967-2024 


    VOCI TEMATICHE 
    di NPG
    (in ordine alfabetico) 


    I LIBRI di NPG 
    Giovani e ragazzi,
    educazione, pastorale

     


    I SEMPREVERDI
    I migliori DOSSIER NPG
    fino al 2000 


    Animazione,
    animatori, sussidi


    Un giorno di maggio 
    La canzone del sito
    Margherita Pirri 


    WEB TV


    NPG Facebook

    x 2024 400


    NPG X

    x 2024 400



    Note di pastorale giovanile
    via Giacomo Costamagna 6
    00181 Roma

    Telefono
    06 4940442

    Email

    Auto-trascendimento: per una corretta immagine di sé



    Pina Del Core

    (NPG 1998-01-26)


    Ogni epoca ha la sua nevrosi ed ogni epoca necessita di una sua psicoterapia[1] – scriveva Victor Frankl, fondatore della logoterapia, in uno dei suoi più famosi libri. Quale è la crisi e quale la terapia per questa nostra epoca travolta da mutazioni e sfide senza pari nella storia, tali da farla entrare in una fase di profonde prospettive di trasformazione?
    Si sa che ogni svolta storica comporta periodi di crisi profonde dovute allo sconvolgimento di quadri culturali, sociali e religiosi. Ciò provoca nuovi problemi che sfidano, in primo luogo, l’educazione. Gli stessi problemi, quelli di sempre, come il senso della vita e della morte, l’identità e le relazioni, la fede e il suo rapporto con la ragione, vengono percepiti e interpretati in modo inedito, riproponendosi in maniera spesso drammatica, mentre le soluzioni cercate si dimostrano talvolta tendenzialmente povere, parziali o esasperate in direzioni tutt’altro che positive. Si pensi, ad esempio, alle esperienze di violenza e di morte, alle diverse forme di manipolazione e di strumentalizzazione della vita così ampiamente presenti nel nostro pianeta. Si rimane sopraffatti da un senso di impotenza e, pur essendone in pieno disaccordo, ci ritroviamo come immersi nella logica nichilista di una cultura di morte, incapaci peraltro a scontrarci con essa.
    Quale potrà essere allora la terapia più adeguata per superare gli esiti della cultura del «no» che sembrano dilagare nelle nostre società e che innescano una spirale di distruttività, di insignificanza e di morte in tante vite umane, soprattutto giovanili?
    Quali i percorsi educativi concreti per favorire la cultura del «sì», per risvegliare la fiducia nella vita, per elaborare una corretta immagine di sé aperta alla positività e alla costruttività, capace di accettare il limite e di trascenderlo nell’impegno per qualcosa o qualcuno a cui dedicare la propria esistenza?
    Individuare i processi educativi da mettere in atto non è facile, soprattutto se ci muoviamo nel contesto di un’educazione che intenda privilegiare un approccio sistemico, l’unico capace di «giocare» con la complessità e il pluralismo della cultura attuale. Da più parti si invocano soluzioni, si elaborano progetti, si ricercano vie nuove. Ma le soluzioni «culturali» o politico-sociali del problema non sono sufficienti se non si tiene conto di ciò che si verifica nella persona, vale a dire dei suoi dinamismi di sviluppo, di quei processi di maturazione senza i quali non sarebbe capace di far fronte al compito e all’avventura della propria crescita e all’inserimento positivo nella società. Ogni processo educativo, del resto, parte dalla persona, dalle sue risorse e potenzialità perché, mediante la valorizzazione delle medesime, sappia collocarsi con fiducia, competenza e libertà critica nella storia e nella cultura.
    Per dire «sì» alla vita è necessario prima di tutto aderire a se stessi e valorizzare positivamente tutte le proprie risorse. Occorre elaborare un’immagine positiva di sé da porre a fondamento della propria identità se la si vuole solida, stabile e allo stesso tempo flessibile, capace di gestire il cambiamento.
    In questa prospettiva si colloca il presente contributo, che intende fissare l’attenzione degli educatori su quello che la riflessione antropologica e psicologica, e soprattutto l’esperienza educativa, hanno evidenziato, come uno dei possibili percorsi di costruzione e di prevenzione, la maturazione, cioè, di una capacità tipicamente umana: l’autotrascendimento.
    In una intervista Giuseppe De Rita, mentre esprime il disagio di una cultura che genera distruzione e crisi, soprattutto nei giovani, mette in guardia da un pericolo che non è molto distante dalla realtà attuale. «Una degenerazione più estesa e seria c’è: il ‘fai da te’ può diventare egoismo, individualismo, solipsismo, narcisismo, soggettivismo etico facilmente inclinante alla devianza delinquenziale, super-potenziamento dell’Io. Da questo si può salvarsi soltanto uscendo da se stessi, tornando a guardare gli altri e ad andare verso gli altri, convincendosi che l’identità non sta in se stessi, ma nel rapporto con il prossimo».[2] Se, dunque, l’accentuato egocentrismo e la distruttività sono i maggiori ostacoli al trascendimento di sé per raggiungere l’altro, l’autotrascendenza può costituire l’antidoto all’autodistruttività tipica di una cultura del narcisismo. Si tratta di recuperare nella persona la positività di fondo di un sé, capace di vivere l’autoriferimento e, in qualche misura, l’oggettivazione di se stesso, senza perdersi nei meandri di un’introspezione «selvaggia» che facilmente sfocia in meccanismi autodistruttivi, ma costruendosi invece nella relazione.
    Ciò suppone un movimento progressivo e continuo di apertura e di trascendimento di sé. L’essenza dell’esistenza umana – secondo la logoterapia di V. Frankl – si trova nel proprio autotrascendimento. «Per essenza l’uomo è aperto [...]. Essere-uomo significa andare al di là di se stessi. L’essenza dell’esistenza si trova nel proprio autotrascendimento. Essere-uomo vuol dire essere sempre rivolto verso qualcosa o qualcuno, offrirsi e dedicarsi pienamente a un lavoro, a una persona amata, a un amico cui si vuol bene, a Dio che si vuol servire».[3]

    IL NARCISISMO COME PARADIGMA DI UNA CRISI

    L’orizzonte culturale della nostra società appare segnato da crisi profonde non solo sul versante economico, politico e sociale, ma soprattutto valoriale. Di fronte alle mancate promesse della modernità, specie quella di un progresso crescente e continuo, l’individuo, sganciato da una dimensione progettuale e dalle aspettative ad essa collegate, reclama la soddisfazione dei suoi bisogni e il diritto di vivere la sua vita individualmente, con un’autonomia che gli garantisca la libertà di esistere senza costrizioni di nessun genere.
    Pertanto l’insistenza sul pensiero debole, sull’io minimo conduce la persona ad incurvarsi sempre più su se stessa per l’impossibilità di accettare lo scarto tra le attese e la realtà, tra la mitologia e l’assolutizzazione del progresso e la complessità della storia spesso soggetta a movimenti di involuzione.[4]
    La segnaletica del disagio che colpisce gli uomini e le donne del nostro tempo, e non soltanto i giovani, sembra notevolmente cambiata: un malessere vago e generalizzato, un senso di «vuoto» interiore e di angoscia, un senso di rabbia, spesso repressa, una scarsa stima di sé unita contemporaneamente ad un bisogno di grandezza, un profondo senso di inadeguatezza o di colpa che induce attitudini depressive, un’ambigua tendenza a dipendere ma nello stesso tempo l’incapacità a stabilire legami affettivi forti e duraturi.
    Come spiegare questo diffuso senso di inadeguatezza presente nelle nuove generazioni che, pur avendo tutto, pur essendo magnificamente dotate di creatività, di intelligenza e di strumenti culturali per svilupparla, interiormente si percepiscono inadeguate, non si sentono all’altezza di..., si mostrano insicure e titubanti nel manifestare le proprie qualità umane? La sproporzione esistente tra l’alto ideale di perfezione o le pretese narcisistiche di assoluta onnipotenza e l’effettiva capacità di attuarli crea sempre più stati di tensione profonda: una sorta di conflittualità latente, generatrice di quella inquietudine e insoddisfazione di fondo che assume toni depressivi anche senza registrare insuccessi apparenti.
    Il malessere che ha investito le società dell’occidente sembra quindi assumere un nome preciso che definisce meglio la dimensione psicologica della crisi: il narcisismo.[5]
    Un autore francese, in uno studio molto interessante, evidenzia tre crisi che, a suo parere, traducono un’incertezza ancora sconosciuta: la carenza di interiorità, la tendenza all’auto-aggressione, la sessualità primaria.[6] L’analisi psicologica del problema fa emergere che queste tre dimensioni si possono ricollegare al narcisismo come ad una comune matrice per diverse ragioni: l’esaltazione dell’apparire sull’essere rende sempre più povera e vuota l’interiorità, l’investimento sull’immagine più che sul sé reale genera svalorizzazione, scarsa autostima e comportamenti autodistruttivi, l’incapacità di stabilire un vero legame affettivo con l’altro, di integrare l’altro nella propria relazione provoca un arresto alla sessualità immaginaria (o primaria) tipica del bambino.
    È importante allora domandarsi in quale rapporto stanno narcisismo e immagine di sé e come tale rapporto possa essere superato per evitare di ricadere nelle tre grandi crisi di cui sopra.

    Immagine di sé e narcisismo

    In una cultura narcisisticamente orientata l’identità personale si costruisce prevalentemente sull’immagine, sull’apparire, mediante un processo di etero-direzione che induce la persona ad essere ciò che gli altri e la società vogliono o pensano che sia. A un certo punto però il soggetto, nel suo percorso di crescita, si ribella e si rifugia in un’immagine idealizzata di sé che, mentre gli fa considerare il proprio mondo come l’unico possibile, il migliore, lo porta a percepire gli altri e la realtà nella loro «estraneità» e nella loro potenziale «pericolosità», quindi come nemici.
    L’amplificazione dell’immagine prodotta dalla cultura del narcisismo rende difficile e problematica la costruzione dell’identità, in quanto la persona, per adeguarsi all’immagine ideale, mediante aggiustamenti progressivi e rimodellamenti della propria immagine, tende ad apparire – anche a se stessa – ciò che non è. Questi patteggiamenti della propria soggettività, questa specie di adeguamenti nello sforzo di un’auto-presentazione il più possibile perfetta e «gradita» impediscono percorsi di identificazione e di realizzazione di sé, oltre a provocare una dolorosa percezione di inautenticità e di incoerenza che, a lungo andare, si traduce in tendenze depressive. Si finisce allora per inseguire un’identità «virtuale» e non «reale», si insegue cioè il diverso, l’altrove, il possibile, amplificando l’immaginario e l’irrazionale con tutte le conseguenti frustrazioni che ciò comporta. Ne nascono personalità fragili che non sono in grado di fronteggiare la realtà a motivo di un io ipertrofico, bisognoso di piacere e di successo, con una forte spinta alla realizzazione di sé, ma che si percepisce incapace di attuare ciò che desidera o sogna. «È proprio allevando personalità che aspirano a una autorealizzazione (valore indubbiamente centrale nella cultura giovanile attuale), intesa in modo eccedente la realtà, che si ottiene di formare «io» in realtà più deboli e più fragili. Stiamo così assistendo al paradosso di una cultura che, avendo fatto perno sui valori dell’«io» intesi in modo edonistico e narcisista, ha ottenuto oggi di ritrovare figli spaventati all’idea di non poter attuare tutto ciò che dal loro «io» sono stati educati ad attendersi».[7]
    Gli elementi che connotano la personalità narcisista sono il culto dell’immagine o l’idolatria dell’immagine, la falsificazione di sé e l’incapacità di stabilire rapporti che non siano funzionali, di controllo o di sfruttamento dell’altro. Tale distorsione dell’immagine di sé non ha niente a che vedere con il normale processo di costruzione dell’immagine di sé, quale elemento essenziale dell’identità personale.
    Si sa che dal punto di vista evolutivo e dinamico l’immagine di sé si costruisce inizialmente sul narcisismo, quale piattaforma di base, come attitudine autoreferenziale e di autocentramento che consente al soggetto di sviluppare una conoscenza di sé. L’io diventa esso stesso oggetto di riflessione e di introspezione, soprattutto nell’adolescenza, ed elabora le diverse rappresentazioni di sé a partire dagli altri: l’eteropercezione in tal caso precede l’autopercezione, assumendo un influsso quasi determinante, specie se si tratta degli altri «significativi» come i genitori, gli educatori o gli amici.
    Ci vorrà un lungo e faticoso processo di maturazione per modificare questa prospettiva, cioè per passare da un atteggiamento autocentrato ad un atteggiamento eterocentrato. Difatti, la maturazione affettiva e relazionale, nella sua evoluzione e nelle sue tappe, consiste soprattutto nel passaggio dall’amore egocentrico e narcisistico, tipico del bambino e dell’adolescente, a quello oblativo che connota l’affettività adulta e matura.
    Al primo gradino della maturazione affettiva troviamo un modo di amare che è fondamentalmente egocentrico e narcisistico. È l’atteggiamento del bambino o di chi non può o non vuole considerare se non il proprio punto di vista personale. La persona egocentrica è centrata su se stessa, si sente e pretende di essere al centro del mondo. Non è capace di vera apertura all’altro, perché prevale la propria soddisfazione e la ricerca di compensazione o di gratificazione in ciò che fa per gli altri. L’altro, cioè, non è accolto, incontrato e conosciuto per quello che è veramente, ma per quello che fa o produce e, in particolare, per la soddisfazione che dà. Ciò vizia in partenza ogni incontro personale, perché questo stile affettivo, caratterizzato da possessività, captatività e accaparramento, dal bisogno compulsivo di ricevere affetto, consacra la persona nell’immaturità, in uno stato di centramento su di sé con evidenti risvolti negativi sul piano delle relazioni interpersonali e anche nella relazione con Dio, là dove si esige una maggiore capacità di superamento di sé nell’auto-trascendenza. La personalità narcisista ricerca continuamente negli altri segni di affetto, di conferma e di stima, anzi reclama (pretende) dall’altro la soddisfazione dei propri bisogni. Per questo tende ad accentrare l’attenzione degli altri su di sé, anche mediante atteggiamenti di esibizionismo o di vittimismo. La ricerca esasperata di sé si manifesta appunto con atteggiamenti di auto-esaltazione che si possono facilmente trasformare, per contro, in atteggiamenti di disprezzo e di odio di sé. Si trova qui la matrice di alcuni comportamenti autodistruttivi tipici degli adolescenti e dei giovani o di personalità narcisiste. L’immagine di sé in tal caso rimane fortemente segnata dall’ambivalenza: esaltazione-disprezzo, amore-odio, valorizzazione-svalutazione, positivo-negativo. E l’emotività viene caricata di tonalità depressive derivanti dalla delusione di se stessi e degli altri allorquando le attese-pretese egocentriche e autoesaltatorie vengono smentite o disattese dalla realtà.

    Un problema di identità

    Il narcisismo, divenuto ormai un clima culturale, una mentalità pervasiva della società, tocca la realtà più profonda dell’io, cioè l’atteggiamento nei confronti di se stessi. «È la illusoria sensazione di essere onnipotenti (so fare ciò che gli altri non riescono a fare); onniscienti (so tutto ciò che è veramente importante sapere; chi sa più di me, ha delle cognizioni superflue, inutili, che in qualche modo sono già incluse in quello che so io); onnipresenti (esiste solo lo spazio abitato da me; altre realtà, se esistono, non meritano la mia curiosità, il mio interesse: certamente non sono importanti come le mie). [...] Nel narcisismo si nega la propria ‘creaturalità’, si sfugge dalla parte di sé percepita brutta, cattiva, goffa, non si ha fiducia nella capacità di prendersi cura di noi; non si riesce a sostenere un legame genuino e profondo, perché si ha bisogno solo dell’altro che applaude».[8]
    Si tratta, in definitiva, di una modalità affettiva di autocentramento, che in quanto tale è segno di una carente identità: chi non ha fatto una sufficiente e adeguata esperienza della propria individualità nella consapevolezza della sua diversità e del suo valore personale, ha evidenti problemi sul piano delle relazioni e della sessualità.
    Difatti nella letteratura psicoanalitica il narcisismo è spesso considerato come sinonimo di auto-erotismo, inteso sia come manipolazione erotica del proprio corpo, sia come gratificazione legata all’ammirazione della bellezza del proprio corpo. Per Freud il narcisismo indicava un tipo di relazione oggettuale primitiva in cui il sé e il proprio corpo sono assunti come oggetto d’amore.[9] Oggi, in un contesto culturale segnato da assenza di significato e da vuoto affettivo, il narcisismo viene inteso piuttosto come un modo di affrontare la vita e la realtà, come un problema di identità, nel senso che, mancando dei riferimenti identificativi stabili, l’identità non possiede più dei confini sufficientemente definiti e si costruisce nell’indeterminatezza. Ciò sembra essere all’origine di quel sentimento di perdita o di inferiorità che spinge l’individuo al ripiegamento su se stesso per ritrovarsi in qualche modo, oppure alla ricerca di rapporti di tipo fusionale o simbiotico.[10]
    A questa luce si comprendono le molteplici e complesse difficoltà che sorgono sul piano relazionale: comportamenti di vanagloria e di vanità quale compensazione di un profondo senso di inferiorità, ricerca spasmodica di tutto ciò che può elevare la stima di sé e nello stesso tempo negazione di tutti quegli aspetti spiacevoli o minacciosi della realtà propria ed altrui, certe relazioni superficiali o brevi, legami affettivi di dipendenza che mal sopportano la separazione o la differenziazione.
    La vera difficoltà dell’io narcisista consiste nel fatto di non riuscire a stabilire un vero legame affettivo con l’altro, un legame cioè che non sia fusionale o sostitutivo, in quanto egli «è segretamente affetto dalla passione per l’altro, ma vorrebbe esserlo senza assumere la differenza tensionale che ciò introdurrebbe in lui; di qui il suo sforzo di amare chi gli rassomigli in massimo grado, fino al punto estremo di ridurre l’altro all’ombra di se stesso».[11] Si pensi alla realtà, abbastanza frequente, di relazioni di amicizia troppo esclusive, fondate su un attaccamento eccessivo al punto da vivere una vita «unica», in una sorta di identificazione fusionale o anche a relazioni omosessuali derivanti da una carente identificazione con se stessi e/o dalla paura/ostilità nei confronti dell’altro sesso.
    Tutto questo, al di là delle dinamiche individuali e soggettive, si ricollega a quei parametri culturali tipici dell’Occidente che hanno definito in qualche modo la modalità di costruzione dell’identità, come ad esempio l’assunto di base che l’identità va cercata dentro di sé, nella propria interiorità più che nell’altro. Trovare la propria identità nell’altro vuol dire imparare ad andare oltre se stessi, significa rispondere alla domanda «Chi sono io?» mediante il confronto e il rispecchiamento nell’altro, vuol dire assumere la differenza come via per una più completa individuazione.
    Non a caso Maslow, discutendo il rapporto che lega individualità e altruismo, osserva che «il modo di trascendere l’io è quello di cominciare con l’avere una forte identità».[12]
    Per cui solo se la ricerca della propria identità si muove nella direzione di processi di autotrascendimento è possibile che la scoperta del proprio valore personale e la consapevolezza di sé si arricchiscano e si consolidino.

    Una soluzione: l’accesso all’alterità

    La consapevolezza di sé e la scoperta della propria identità, così come la crescita nelle relazioni, passa attraverso l’accesso all’alterità,[13] che implica il superamento della tendenza a fare di sé il centro e il riferimento di tutto, a mettersi in rapporto con le cose e con gli altri a partire da se stessi nel desiderio di ritrovarsi in essi. Ciò è un residuo di quel sogno primitivo dell’uomo e del suo desiderio di onnipotenza che si esprime nella tendenza narcisistica a cercare negli altri se stessi o l’immagine idealizzata di sé.
    Accedere all’alterità significa andare in senso opposto, cioè imparare a mettersi in rapporto con gli altri indipendentemente dal bisogno che si ha di loro. Si tratta di incontrare l’altro come diverso da me e che, in quanto tale, mi scuote, mi rende vulnerabile; di riconoscere la differenza tra me e l’altro, accettandola, rispettandola e così rinunciare al fatto che l’altro non è come io pensavo che fosse. Significa inoltre superare la tentazione della fusione primaria, laddove si sperimenta la sicurezza derivante dalla piena e totale identificazione, dall’indistinzione e indifferenziazione.
    La relazione con l’altro quindi può diventare un ostacolo o una chance, una delimitazione frustrante o una splendida opportunità di crescita, può sviluppare atteggiamenti di solidarietà e di dedizione oppure atteggiamenti di ostilità, di aggressività o di dominio.
    Esiste però un modo per vivere l’alterità anche nei confronti di se stessi, che consiste primariamente nell’accettare di essere diversi da quello che pensiamo o sogniamo di essere. «La demarcazione tra sé e l’altro non è innanzitutto quella fra me e l’altro; essa è all’interno di me, in un’alterità che mi abita, attraverso tutto ciò che in me è altro, estraneo al mio volere: alterità dell’inconscio, di una sessualità mai dominata, di una aggressività mai vinta, di una affettività avida e della morte che opera in silenzio a ogni istante della mia vita».[14] Ciò implica una capacità di auto-trascendenza e di decentramento da sé che consente di prendere le distanze, di distaccarsi dalle immagini ingannevoli di sé, dai sogni e dalle illusioni, dalle attese e/o pretese narcisistiche ed egocentriche.
    Il passaggio dal narcisismo («non esisto che io») all’accettazione della realtà («esiste l’altro e la differenza») non è automatico, ma è frutto di un lungo processo di crescita che comporta la rinuncia al proprio egocentrismo, la lotta contro la rinascente tentazione di fare di se stessi il riferimento unico e insostituibile, l’apertura e l’incontro con l’altro in quanto «altro», cioè in quanto diverso e al di fuori della mia soggettività. «La relazione Io-Tu – scrive Lévinas – consiste nel porsi di fronte ad un essere esterno, cioè radicalmente altro, e nel riconoscerlo come tale. Questo riconoscimento dell’alterità non consiste nel farsi un’idea dell’alterità. [...] Non si tratta di pensare l’altro (autrui), né di pensarlo come altro, ma di rivolgersi a lui, di dirgli Tu. L’accesso adeguato all’alterità dell’altro non è una percezione, ma questo dargli del tu».[15]
    La dialettica tra alterità e identità non è così pacifica e scontata nella nostra cultura. «La scoperta dell’Altro, cioè del non omologabile dentro una lettura della storia di tipo univoco e totalizzante, è il tormento delle nostre coscienze oltre che il tormento di poteri politici e religiosi».[16] L’alterità si presenta quindi come un nervo scoperto nella cultura contemporanea che stenta a superare l’individualismo e a mettere da parte la visione soggettivista in cui l’io viene prima dell’altro. La stessa relazionalità, quale dimensione essenziale dell’identità, va riletta in un’altra prospettiva: l’incontro con l’altro nella relazione non avviene tanto a partire da una identità costituita, ma da una identità che si costruisce sull’altro, a partire dal confronto con l’altro.
    Accedere all’alterità dunque può diventare una soluzione, e non solo a livello individuale, al problema della relazionalità e della maturità personale, contribuendo al risanamento di quei disturbi narcisistici della personalità molto diffusi nella nostra società e difficilmente riconducibili ad una vera e propria patologia psichiatrica. Ma anche sul piano culturale e storico può essere una chiave di soluzione che facilita il passaggio da una cultura del monologo a quella del dialogo contribuendo così all’instaurarsi di una vera cultura della pace. Si tratta di una prospettiva che si apre sull’incapacità della cultura occidentale di superare una certa logica di violenza simbolica e reale nei confronti dell’altro, inteso come diverso, come portatore di altre culture, di altri valori e visioni della realtà, come colui, cioè, che ci è estraneo e nemico.
    Educarsi a raggiungere e ad accogliere l’altro nella sua irriducibile alterità diventa allora una silenziosa, ma efficace denuncia di ogni violenza, di ogni conflittualità, sia essa consumata nel privato che nel pubblico, perché disinnesca quel potenziale distruttivo insito in un modo di pensare e di pensarsi volto all’autocompimento, all’autorealizzazione. È invece nell’autotrascendimento dell’io che si diventa capaci di auto-delimitarsi per fare spazio all’altro.

    ESIGENZA DI AUTO-TRASCENDIMENTO

    L’appello ad uscire da se stessi è un’istanza antropologica e psicologica prima che evangelica. Difatti la capacità di raggiungere la persona dell’altro come un «tu», come qualcuno che è diverso, con una sua propria autonomia, instaura nella persona quell’orientamento oblativo dell’affettività, che è il vertice di un cammino di maturazione affettiva e relazionale. Nel suo dinamismo essenziale esso implica l’apertura, l’accoglienza dell’altro, il rispetto della sua persona, l’accettazione della sua individualità ed autonomia, la responsabilità nei suoi confronti. Tale capacità, però, presuppone un sano amore di sé che consiste innanzitutto in un rapporto positivo con il proprio corpo, nell’assenso alla propria realtà così come è, nella liberazione da ogni falsa immagine di sé, sia che si presenti troppo positiva che troppo negativa. «Contrariamente a quanto crede la cultura del narcisismo, l’io non scopre la sua identità autopotenziandosi ed autocontemplandosi, ma infrangendo questa logica per aprirsi ad una nuova. È l’altro – l’altro nella sua irriducibile alterità – colui che ci fa dono di questa possibilità operando, con la sua presenza appellante, la fine dell’io autosviluppantesi e il suo risveglio ad una nuova realtà».[17]
    Solo in un cammino di superamento del narcisismo è possibile instaurare dei rapporti interpersonali genuini, profondi e duraturi e, nello stesso tempo, sconfiggere la paura della differenza, della diversità e di ogni alterità.
    In questa prospettiva l’autotrascendenza è l’aspetto opposto al narcisismo, anzi ne costituisce l’alternativa. Pertanto se il narcisismo si configura come un’autocentrazione emozionale che porta a rivolgere tutta la corrente affettiva (pensieri, desideri, affetti, motivazioni,...) a sé; a proporre se stessi e il proprio vantaggio, a vedere sempre le cose e le persone in continuo riferimento all’io, alla propria affermazione personale, ai propri bisogni, l’autotrascendenza, mediante un movimento totalmente contrario, si pone come un decentramento emozionale. Se il narcisismo si esprime in un continuo bisogno di soddisfazione, di gratificazione, di riconoscimento e di piacere che genera, da un lato, rapporti funzionali o di controllo o di sfruttamento e dall’altro un senso di «diversità» dagli altri, perché ci si sente «eccezionali», ci si crede in diritto di avere, di essere riconosciuti come valori, senza però sentirsi un valore, l’autotrascendenza, al contrario, è un atteggiamento di trasparenza in cui prevale il reale oggettivo; è sviluppo di attitudini e di investimenti affettivi sugli oggetti, sulle persone, un investimento gratuito, non per avere, ma per realizzare e costruire; è senso di meraviglia e di apprezzamento per gli altri.
    Ma cosa è in concreto questa auto-trascendenza e quali effetti può avere sulla persona perché viva un’esistenza armonica, serena e significativa, capace di dire «sì» alla vita e di superare ogni tendenza autodistruttiva che la fagogiterebbe nell’ingranaggio di una cultura del «no»? Le mie riflessioni in merito partono da un orizzonte interpretativo che fa capo alla teoria e alla prassi di Victor Frankl, famoso psichiatra viennese appena deceduto (nel mese di settembre). Il richiamo al suo originale orientamento di pensiero, tuttora particolarmente attuale, mi permette di offrire un’ampia descrizione dell’autotrascendenza, un fenomeno fondalmentalmente antropologico che egli ha collocato alla base della Logoterapia, una psicoterapia che sembra costruita «ad hoc» per i mali e i disturbi psicologici del nostro secolo. Le sue tecniche di intervento psicoterapeutico dimostrano efficacia e validità in molte situazioni di disagio – non solo quelle già sperimentate da Frankl stesso – come ad esempio, la tossicodipendenza e l’alcoolismo, l’aggressività e la criminalità, la depressione e il suicidio, le nevrosi sessuali ed altre forme nevrotiche come la «nevrosi della domenica», la malattia da manager, la nevrosi da pensionamento, ecc. che non si possono considerare «patologie in senso clinico», ma che sono ormai diffusissime nelle nostre società, al punto che diventa sempre più urgente l’impegno per la loro prevenzione. In questa linea credo che la logoterapia possa offrire delle significative stimolazioni in chiave preventiva e quindi educativa a quanti hanno a cuore la crescita dei giovani.

    L’auto-trascendenza: una capacità tipicamente umana

    L’autotrascendenza si può definire come un orientamento dell’esistenza umana al di là di se stessa e come una fondamentale apertura all’alterità. Si tratta perciò di una capacità specificamente umana, che porta l’uomo a riconoscersi perennemente in tensione verso l’altro-da-sé, non per confondersi nell’altro, né per dominarlo, ma per scoprire, nell’incontro, il suo vero volto, la sua vera identità, il compimento di se stesso. L’uomo visto da Frankl è un essere aperto e dinamicamente proteso verso il mondo, un mondo di significati e di valori, e ciò grazie alla sua capacità di autotrascendenza che lo rende essenzialmente un essere rivolto verso qualcosa di diverso da se stesso. Nel parlare di autotrascendenza egli si riferisce «al fatto che essere-uomo vuol dire andare verso qualcosa al di là di se stesso, qualcosa che non è se stesso, qualcosa o qualcuno: un significato da realizzare, o un altro essere umano da incontrare nell’amore. L’uomo realizza se stesso nel servire una cosa o nell’amare una persona. Quanto più adempie il suo compito, quanto più si dona al suo partner, tanto più è uomo, tanto più diventa se stesso. Egli può realizzarsi solo nella misura in cui si dimentica».[18]
    Da un punto di vista fenomenologico due sono le principali manifestazioni dell’autotrascendenza: l’amore e la coscienza. L’uomo, cioè, può trascendersi sia verso un altro essere umano sia verso un significato o un valore. Nel primo caso egli si trascende nell’incontro con il Tu, con l’altro da sé, perché nell’amore è capace di dirigersi verso un’altra persona accogliendola nella sua unicità e singolarità. Nella coscienza invece l’uomo si trascende confrontandosi con i significati e i valori.[19] Soltanto in questo suo trascendersi l’uomo raggiunge la pienezza e il compimento di se stesso. «Così l’uomo si realizza, non già preoccupandosi di realizzarsi, ma dimenticando se stesso e donandosi, trascurando se stesso e concentrando verso l’esterno tutti i suoi pensieri. Per un’analogia [...] prendiamo, ad esempio, l’occhio. Quando mai esso può vedere qualcosa di sé se non nel caso in cui si guarda in uno specchio? Un occhio con una cataratta può scorgere come una nuvoletta che è appunto la sua cataratta; un occhio con un glaucoma può scorgere come un alone iridato intorno alle luci. Ma un occhio sano non vede nulla di sé – è autotrascendente».[20]
    C’è dunque un rapporto molto stretto tra autotrascendenza ed autorealizzazione. Tuttavia la realizzazione e il raggiungimento della felicità sono una conseguenza dell’essere orientati verso uno scopo, di essere per ciò stesso decentrati da sé.
    «Ciò che si chiama autorealizzazione – ribadisce con forza Frankl – è, e deve rimanere, l’effetto preterintenzionale dell’auto-trascendenza; è dannoso ed anche autofrustrante farne oggetto di precisa intenzione. E ciò che è vero per l’autorealizzazione, lo è anche per l’identità e per la felicità. È proprio l’affannosa ricerca della felicità che impedisce la felicità. Più noi ne facciamo oggetto dei nostri sforzi e più sicuramente manchiamo il bersaglio. Ciò è soprattutto evidente quando si tratta della felicità sessuale, della ‘ricerca del piacere’ sessuale».[21]
    La ricerca del piacere, del potere o del successo, quando è fine a se stessa, diventa automaticamente distruttiva e frustrante, in quanto essi più si ricercano e meno si raggiungono. Un esempio tipico è dato dalle difficoltà in ambito sessuale: è ampiamente dimostrato dall’esperienza clinica che l’iper-intenzione (la ricerca eccessiva di qualcosa) e l’iper-riflessione (l’eccessiva attenzione nel compiere una determinata azione) sono controproducenti in campo sessuale, al punto che sia l’orgasmo che la potenza sessuale vengono meno se si perseguono con eccessiva attenzione.
    Questi principi teorici sono efficacemente utilizzati nel trattamento logoterapeutico. Difatti le tecniche della Logoterapia – denominate da Frankl intenzione paradossa e dereflessione – fanno leva proprio sulla capacita di autotrascendenza, perché nella misura in cui il malato riesce a distogliere la sua attenzione dal sintomo e a rivolgersi verso qualcosa di oggettivo dedicandosi a un compito concreto o ad una persona, egli trascende se stesso superando così le sue difficoltà personali. Anche in situazioni drammatiche o difficili è possibile, grazie alla capacità di trascendere il proprio io e di indirizzare la propria vita verso un «per che cosa» o verso un «per chi»,[22] sopravvivere. In effetti la forza motivazionale che viene attivata dal tendere verso uno scopo, così come la spinta a trovare un senso nelle situazioni difficili o dolorose che si vivono, risveglia nella persona energie e risorse sconosciute e insperate, per cui, quasi per incanto, si diventa capaci di superare il limite, di sopravvivere alla frustrazione e si riesce anche a fare esperienza di alcuni «no» in vista di un sì.

    Distanziarsi da sé... al di là dell’immagine

    Nell’attuale società narcisista, dominata dal culto dell’immagine in cui comportamenti e norme vengono proposti e vissuti in chiave di «spettacolarità» e si fondano su illusorie promesse derivanti dai consumi e dall’effimero, risulta sempre più difficile aiutare gli adolescenti e i giovani a sviluppare dinamismi di apertura e di generosità, lanciandoli fuori di sé verso orizzonti globali e significativi. La rappresentazione e l’apparenza giocano un ruolo quanto mai deleterio per la costruzione di una corretta immagine di sé che invece deve essere fondata più sul realismo del possibile che sull’idealismo di modelli che poi nel concreto si rivelano non praticabili. Si pensi soltanto all’immagine corporea – specie quella femminile – sottoposta a pesanti pressioni, che costringono ad adeguarsi ai modelli standard, provocando così anoressia o disturbi alimentari, sensi di inferiorità, evasioni nell’immaginario.
    Prendere le distanze da se stessi è un compito non facile, perchè presuppone che la persona sia abbastanza solida da non temere il crollo dell’immagine che si è costruita. Ciò risulta tanto più difficile per il narcisista in cui l’incongruenza o l’opposizione tra il sé e l’immagine, tra il concetto di sé vero e quello falso o superficiale, provocano una scissione tale da indurre alla negazione dei sentimenti e quindi all’incapacità di riconoscere il proprio bisogno di far colpo o di essere approvato, e ad accettare l’insuccesso, la frustrazione o la rabbia per timore di indebolire o di perdere la propria immagine.[23]
    Oggi diventa sempre più difficile l’autotrascendimento a motivo dell’accentuarsi del problema dell’identità. È questa un’esigenza così pressante che l’individuo ne sembra molto più consapevole rispetto al passato e perciò è più preoccupato di definire chi è e che cosa può diventare. Non è più soltanto l’adolescente, il filosofo o la persona malata che si preoccupano del problema dell’identità, ma chiunque, persona o gruppo, comunità o istituzione. La ricerca esasperata di autodefinirsi, in un contesto storico e culturale che non offre più dei punti di riferimento identificativi, trasforma il «normale» dinamismo della riflessività in ripiegamento ansioso e depressivo su di sé o su frammenti di sé.
    La capacità di riflettere su se stessi è una capacità propriamente umana che si sviluppa in modo particolare nell’età adolescenziale, in concomitanza con lo sviluppo cognitivo e come bisogno di trovare una definizione di sé in un momento di grandi cambiamenti fisici, emotivi e relazionali; essa tuttavia può diventare un dinamismo perverso quando, in presenza di un forte narcisismo, si trasforma in preoccupazione per se stessi, per la propria immagine, in autocentramento emozionale e cognitivo.
    «In questi ultimi anni – fa notare ancora Frankl – all’autorealizzazione si è aggiunta un’altra tendenza: si tratta dell’iper-riflessione, la tendenza cioè a riflettere continuamente su se stessi. [...] Tale autoriflessione costituisce un’assurdità pericolosa perché insegna e dice che ognuno deve conoscersi, auto osservarsi ed esaminarsi attraverso centinaia di ore di psicoterapia ed essere addestrato nella retrospezione e nella introspezione».[24] Si comprende allora perché occorre attivare la capacità di autotrascendenza per non incorrere nel cerchio vizioso di un’autoanalisi che può diventare distruttiva perché, anziché liberare le energie orientandole verso una direzione significativa ed unificandole attorno ad un nucleo centrale che funge da polo integratore, provoca la dispersione e il logoramento fisico e psichico.
    La capacità di autotrascendersi e di prendere posizione nei confronti delle circostanze esterne o nei confronti di particolari stati d’animo si manifesta anche nell’ironia, nell’umorismo, nella capacità di ridere di se stessi. Qui è chiamato in causa un altro fenomeno specificamente umano, l’autodistanziamento, che rende possibile non solo la capacità di prendere le distanze da se stessi, ma di mettersi di fronte a se stessi, persino di contrapporsi e di uscire dal proprio corpo, malato o eccessivamente curato, e di guardare se stessi dall’alto.
    In realtà, sia l’autotrascendenza che la capacità di autodistanziamento sono implicite nel concetto stesso di «esistere». «Ex-sistere – afferma Frankl – significa distanziarsi da sé e porsi di fronte a sé. L’uomo esce fuori del ‘piano’ psicofisico e attraverso lo ‘spazio’ dello spirito torna a se stesso».[25]
    Un primo effetto dell’autodistanziamento è quello di rendere la persona capace di oggettivare i propri problemi e di distanziarsi da essi, ma soprattutto di cambiare atteggiamento nei confronti dei condizionamenti o degli eventi, specie di quelli che provocano sofferenza. Si verifica, in altri termini, un vero e proprio «riorientamento esistenziale». Ciò è riscontabile nei casi di tossicodipendenza, alcoolismo e di criminalità, allorquando, se non si è gia innescato il meccanismo della dipendenza, si riesce a colmare il «vuoto esistenziale» derivante da una mancanza di significati e di valori, con la scoperta e la dedizione ad uno scopo che dia senso alla propria vita.[26]

    EDUCAZIONE O TERAPIA?

    L’autotrascendimento come processo e come itinerario non è facile da assumere e da vivere stabilmente nella persona. È necessario un cammino di maturazione che si colloca all’interno di un itinerario più ampio di crescita umana. Mentre la capacità di autotrascendenza è tipica della persona adulta e matura, nello stesso tempo è anche un processo continuamente in atto nell’esistenza umana e trova le sue premesse nelle tappe precedenti dell’età evolutiva.
    L’autotrascendenza allora è educazione o terapia? Non è facile rispondere, tuttavia bisogna dire che le due dimensioni non si escludono a vicenda. È necessario innanzitutto assicurare alcune condizioni indispensabili per favorire un corretto sviluppo di tale capacità.
    Abbiamo visto i due disagi che insidiano l’autentica realizzazione di sé: il narcisismo e l’egocentrismo. Pertanto se la persona si comprende solo nella sua originaria relazionalità, cioè trova la sua consistenza nell’essere al quale si protende; se questa è la sua struttura costitutiva, solo nell’apertura comunicativa e relazionale essa troverà la sua realizzazione. Appare allora tremendamente vera la realtà espressa nel mito di Narciso che incontra la morte proprio nel tentativo di fissarsi sull’immagine di se stesso anziché sull’altro.
    In questa direzione l’educazione dovrà puntare su esperienze ed interventi che facilitino la reale apertura all’altro, mediante un esercizio costante di accettazione e di accoglienza della sua diversità. Ma per fare ciò bisogna assicurare un clima-ambiente in cui si possano sperimentare relazioni interpersonali stimolanti l’auto-stima, relazioni cioè in cui si possa respirare la sicurezza, la confidenza e la fiducia.
    L’autostima come elemento fondamentale per la costruzione di una corretta immagine di sé si fonda su una fiducia di fondo derivante dalla capacità di dire sì a se stessi, da un atteggiamento positivo e accogliente verso se stessi e dunque verso gli altri. Alla base dell’auto-stima c’è la convinzione e la decisione di essere degni di amore e di essere in qualche modo competenti. In tal senso è importantissimo il riconoscimento positivo che proviene dall’altro, perché aiuta a rendersi consapevoli delle proprie capacità, a sentire cioè di possedere delle caratteristiche desiderabili e di essere in grado di raggiungere qualche obiettivo importante nella vita.
    È qui che si pongono le basi per sviluppare la capacità di dare senso alla vita, di impegnare le proprie energie e risorse nella realizzazione di un compito significativo e di superare ogni difficoltà esterna o interna che renderebbe impossibile il raggiungimento di tali mete.
    Lo sviluppo di un atteggiamento di positività nei confronti di se stessi, degli altri e della vita, costituisce inoltre un fattore essenziale di prevenzione contro ogni forma di autodistruttività o di violenza, di evasione o di trasgressione.
    Infatti, di fronte alle difficoltà della vita si rischia di cadere nel fatalismo o nell’aggressività ed intolleranza se non è raggiunto un certo grado di autoaccettazione e di tolleranza alla frustrazione.
    Nel concreto, ciò si realizza in un ambiente dove la persona viene educata ad affrontare la realtà, aiutata a superare le necessarie frustrazioni e a porsi in un’attitudine di apertura, di responsabilità e di servizio. Bisogna quindi lavorare per moltiplicare questi luoghi educativi in cui sperimentare rapporti interpersonali gratuiti e accoglienti, stimolanti e incoraggianti, relazioni segnate da una reale esperienza di accettazione. C’è bisogno dunque di educatori dotati di tale capacità relazionale. Ma si sa, soltanto chi ha un atteggiamento positivo ed accogliente nei confronti di se stesso e degli altri è capace di instaurare relazioni che generano l’autostima e il senso del proprio valore personale.


    NOTE

    [1] Frankl V.E.., La sofferenza di una vita senza senso. Psicoterapia per l’uomo d’oggi, LDC, Torino-Leumann 1982, 9.
    [2] Da un’intervista a Giuseppe De Rita a cura di Lietta Tornabuoni dal titolo: La forza delle cose, in «Note di Pastorale Giovanile», XXIX (1995) 9, 43-45.
    [3] Frankl V. E., Ciò che non è scritto nei miei libri. Appunti autobiografici, in Fizzotti E. (a cura di), Chi ha un perché nella vita.... Teoria e pratica della logoterapia, Ed. LAS, Roma 1993, 83-106,83. Si veda pure ID, Logoterapia e analisi esistenziale, Morcelliana, Brescia 19774, 54.
    [4] Cf Secondin B., Spiritualità in dialogo. Nuovi scenari dell’esperienza spirituale, Edizioni Paoline, Milano 1997, 12. Si veda pure ID, Verso un’Europa dello Spirito, in Asprenas, 39 (1992) 163-178. La problematica dell’io minimo è affrontata da Lasch in uno studio interessante che analizza i grandi problemi dell’umanità in un società che sotto la spinta di grandi rivolgimenti tende ad omologare la soggettività, la creatività e la progettualità individuale. Essendo costretto alla sopravvivenza di fronte ad un futuro che si presenta problematico, nel timore di eventi catastrofici, l’essere umano allora tende a contrarsi, a ripiegarsi su di sé, nella ricerca di un senso della vita che non gli viene più offerto dalla cultura o comunque da un’entità che va oltre il singolo e che supera in qualche modo le visioni parziali (cf LASCH C., L’io minimo. La mentalità della sopravvivenza in un’epoca di turbamenti, Feltrinelli, Milano 1985, 7-9).
    [5] Cf Lasch C., La cultura del narcisismo. L’individuo in fuga dal sociale in un’età di disillusioni collettive, Bompiani, Milano 1992.
    [6] Cf Anatrella T., Non à la société dépressive, Flammarion, Paris 1993.
    [7] Siri G., Sé, identità, adolescenza nella condizione postmoderna, in Pedagogia e Vita, 5 (1992) settembre-ottobre, 51.
    [8] Salonia G., Kairòs. Direzione spirituale e animazione comunitaria, E.D.B., Bologna 1996, 51.
    [9] Si veda in proposito la voce «Narcisismo» in Laplanche J.-Pontalis J. B., Enciclopedia della psicanalisi, Vol. II, Editori Laterza, Bari 1974,321-324.
    [10] Cf Hans C., Il narcisismo, in Psicologia contemporanea, 65, 1984, 29-35. Il concetto di narcisismo è notevolmente cambiato in rapporto alla visione psicoanalitica tradizionale. Ci si muove oggi nell’ambito della psicologia clinica verso una concezione strutturale del narcisismo che viene definito come «ciò che permette all’individuo umano di fare l’esperienza della sua individualità vivente attraverso rappresentazioni idealizzate di sé» (Duruz N., I concetti di narcisismo, io e sé nella psicanalisi e nella psicologia, Astrolabio, Roma 1987,13), a partire dalle quali egli costruisce la propria identità e si sperimenta come soggetto vivente, unico e coerente.
    [11] Ivi 9.
    [12] Maslow A.H., Motivazione e personalità, Armando, Roma 1973, 319.
    [13] Il tema dell’alterità trova nel filosofo francese E. Lévinas il migliore interprete e può costituire un valido riferimento teorico per comprendere il cammino di sviluppo psicologico di un’affettività che si matura. Si veda in proposito Levinas E., Nomi propri, Marietti, Casale Monferrato 1984.
    [14] Rondet M.–Viard C., La crescita spirituale, E.D.B., Bologna 1989, 48.
    [15] Lévinas, Nomi propri, 22.
    [16] Balducci E., L’altro. Un orizzonte profetico, Ed. Cultura della Pace e F.E.B., Firenze 1996, 33.
    [17] Di Sante C., L’alterità: tracce di un «nuovo» pensiero, in Note di Pastorale Giovanile, XXVI (1992) 3, 64-69,68.
    [18] Frankl, La sofferenza di una vita senza senso, 16.
    [19] Cf Frankl V. E., Un significato per l’esistenza. Psicoterapia e umanismo, Città Nuova, Roma 1983, 67; ID, Fondamenti e applicazioni della Logoterapia, SEI, Torino 1969, 30.
    [20] Ivi 36-37.
    [21] Frankl, La sofferenza di una vita senza senso, 37.
    [22] Ivi 36.
    [23] Cf Lowen A., Il narcisismo. L’identità rinnegata, Feltrinelli, Milano 1992, 48-50.
    [24] Tratto da un’intervista a Frankl riportata da Fizzotti, Chi ha un perché, 110.
    [25] Frankl V. E., Teoria e terapia delle neurosi, Morcelliana, Brescia 19782, 234.26) Cf Froggio G., Genesi e mantenimento dei disagi sociali e delle condotte devianti secondo la logoterapia di Frankl, in Fizzotti, Chi ha un perché, 115-133.
    [26] Cf Froggio G., Genesi e mantenimento dei disagi sociali e delle condotte devianti secondo la logoterapia di Frankl, in Fizzotti, Chi ha un perché, 115-133.


    T e r z a
    p a g i n A


    NOVITÀ 2024


    Saper essere
    Competenze trasversali


    L'umano
    nella letteratura


    I sogni dei giovani x
    una Chiesa sinodale


    Strumenti e metodi
    per formare ancora


    Per una
    "buona" politica


    Sport e
    vita cristiana
    rubrica sport


    PROSEGUE DAL 2023


    Assetati d'eterno 
    Nostalgia di Dio e arte


    Abitare la Parola
    Incontrare Gesù


    Dove incontrare
    oggi il Signore


    PG: apprendistato
    alla vita cristiana


    Passeggiate nel
    mondo contemporaneo
     


    NOVITÀ ON LINE


    Di felicità, d'amore,
    di morte e altro
    (Dio compreso)
    Chiara e don Massimo


    Vent'anni di vantaggio
    Universitari in ricerca
    rubrica studio


    Storie di volontari
    A cura del SxS


    Voci dal
    mondo interiore
    A cura dei giovani MGS

    MGS-interiore


    Quello in cui crediamo
    Giovani e ricerca

    Rivista "Testimonianze"


    Universitari in ricerca
    Riflessioni e testimonianze FUCI


    Un "canone" letterario
    per i giovani oggi


    Sguardi in sala
    Tra cinema e teatro

    A cura del CGS


    Recensioni  
    e SEGNALAZIONI

    invetrina2

    Etty Hillesum
    una spiritualità
    per i giovani
     Etty


    Semi e cammini 
    di spiritualità
    Il senso nei frammenti
    spighe


    Ritratti di adolescenti
    A cura del MGS


     

    Main Menu