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    Compagni di viaggio: come e perché



    Giovanni Battista Bosco

    (NPG 1997-04-35)


    Chi ha esperienza di accompagnamento rimane spesso in forse o perlomeno si interroga di frequente sul suo «accompagnare».
    Senza dubbio sa che il metodo «giusto» sta nel farsi compagni di viaggio dei giovani, ossia nel camminare insieme stabilendo dei rapporti di reciprocità, nel saper andare oltre il semplice vissuto dell’interlocutore per giungere al coraggio della proposta, nel collocarsi in un contesto comunitario che aiuti a sfuggire dall’individualismo narcisista, oggi più che mai subdolo persuasore.
    Ma... e approda sempre un «ma», che scombina i propri piani ben rifiniti. Le risorgenti problematiche del relazionarsi ci sfidano sul «come». Come fare perché chi viene accompagnato non si fermi alla soglia della semplice informazione da ottenere, o addirittura stia sostanzialmente sulle sue in un approccio sfuggente, o ancora non ricerchi altro che l’approvazione delle sue convinzioni? Come fare perché chi accompagna sia capace di andare oltre il semplice inconcludente recepire o al contrario si astenga dall’essere deciso risolutore di ogni situazione; oppure sia portato costantemente a giudicare più che valutare o anche a inseguire inconsciamente gratificazioni piuttosto che indicare percorsi di crescita?
    Senza alcun dubbio non si danno tassonomie di atteggiamenti di un interlocutore isolato dal suo contesto relazionale: azioni e reazioni si scatenano dentro il rapportarsi. Eppure sono reali le figure del singolo interlocutore, che si colloca necessariamente in una situazione di interazione. Relazione, reciprocità, incontro, compagnia sono termini che mettono a nudo che l’accompagnare non è di un solo interlocutore, e nemmeno per necessità di chi accompagna. Si comunica in un rapporto reciproco, ci si relaziona a vicenda, ci si colloca in una rete di rapporti contestuali, per cui non è scontato che chi conduce il gioco sia realmente chi intende accompagnare. Non sarebbe insolito che a guidare la relazione sia chi si presenta per essere accompagnato, e non sempre questo avviene a torto. Le vie complesse e ancora assai misteriose del comunicare fanno implodere spesso la sicurezza degli intendimenti, anche i più genuini e veri.
    E non basta asserire che ci si deve fare «compagni di viaggio», perché il problema sia risolto, anzi la questione viene posta appunto con questa metafora, senza dubbio suggestiva ed evocativa, ma che merita di essere svelata nelle sue implicanze.
    Ci si può chiedere allora come deve essere concepito il rapporto di compagnia perché si possa proseguire nel viaggio? che ruolo assumono gli interlocutori nella differenza del loro essere soggetti con proprie biografie? nella codificazione delle esperienze e dei vissuti, che tipo di linguaggio può essere utilizzato, affinché la comunicazione avvenga durante la compagnia? quali sono gli schemi di riferimento culturale entro cui il cammino si colloca, perché non si proceda a tentoni? e il viaggio presenta esiti intravedibili nella costruzione del proprio progetto di vita?
    Nel nostro discorrere, faremo anzitutto qualche considerazione di tipo antropologico per poter individuare in profondità come si presentano gli interlocutori del viaggio, e quindi affronteremo taluni atteggiamenti educativi di fondo, che rendano praticabile un reale accompagnamento.
    L’ottica del nostro discorso è dunque pedagogica, ma di quella pedagogia che si lascia ispirare dall’evento cristiano e che attinge all’esperienza evangelica.

    CHI È L’INTERLOCUTORE NEL VIAGGIO

    Come considero chi mi sta accanto

    Tra i molti interrogativi che si affollano sui vari approcci sulla persona, uno emerge oggi, in primo luogo, con forza: chi è colui che si mette in viaggio? Non intendo qui indagare sui massimi principi della persona, ma neppure perdermi nelle varie cronache sui singoli individui. E tuttavia avverto che è necessario fermarsi a considerare il volto, anzi i tratti del volto di chi mi è compagno di viaggio, al di là di ciò che appare in prima battuta. Se intendo accompagnarmi con lui e giocarmi così nel rapporto, non posso evitare di interrogarmi sulla identità personale, ossia su come vedo il suo volto intimo su cui si staglia la sua faccia visibile.

    Crisi dell’identità individuale

    Nessuno mette in dubbio oggi che la cultura ha un sicuro influsso sull’identità personale. Il che cosa si pensa nel tessuto sociale e il come si vivono i propri vissuti rendono fertile il terreno in cui cresce il chi si è. Per questo ogni mutamento culturale, cambiando il terreno ossia il quadro di riferimento, determina crisi di identità: il nostro volto cambia perché lo sfondo, il vissuto contestuale è mutato. Suona come un paradosso, ma ciascuno di noi è «figlio del suo tempo», della cultura in cui vive, e non certo manifestazione di un principio astratto.
    Nella cultura di oggi emerge con evidenza, come valore per l’individuo, l’autorealizzazione. La propria identità la si costruisce, il progetto di vita lo si fa con le proprie mani. Ma la cosa sta in tutto e veramente in questo modo, e non si danno alternative? Non è secondario prendere posizione su una simile questione, perché allora, se così è, l’essere compagni di viaggio può significare camminare in solitudine accanto agli altri, capaci unicamente di recepire e di saper utilizzare. Il retroterra culturale di una tale concezione, portata alle sue forme estreme per una più facile comprensione, consiste nell’accettare il vuoto di riferimenti altri e trasformare questo ripiegamento in virtù. Siamo al disincanto: l’uomo è orfano in un mondo senza padri, e la sua identità e il progetto devono risultare frutti esclusivi delle proprie scelte singole. Ci si chiude così nell’egocentrismo solitario di chi sfida con senso di onnipotenza prometeica o di chi si umilia della sua radicale finitezza, invece di rivolgersi oltre o aprirsi all’invocazione. Ma più di frequente, nella costruzione dell’identità autorealizzante, si reagisce con la ricerca di quei riferimenti capaci di saturare il bisogno di sicurezza emotiva, in modo da potersi arroccare su posizioni forti (identità rigida) o perdersi in vaghi sentimenti sincretistici (identità diffusa) o comunque nel policentrismo delle situazioni (identità poliedrica). Di contro, come ulteriore modalità di ricerca di identità, ci si può attestare sulla accentuazione, se non addirittura contrapposizione, delle differenze personali o dei localismi culturali, così da potersi ritrovare in un noi che fa da scudo di difesa dell’io (identità negativa).
    Eppure l’io che conta, che può, che trova, che si configura come limpida sorgente interiore, io chiaro e distinto, cardine di ogni ulteriore scoperta, figlio della pura razionalità, è oggi totalmente in crisi. Si va delineando un opposto profilo: non si cercano risposte, o tutt’al più si indaga in un clima di debolezza del pensiero. Si teme di ingabbiarsi in modelli ideali, per cui si rinuncia a qualsiasi metro di misura della propria esperienza. E ci si condanna così al tramonto dell’io che si perde (identità dispersiva) o che resta fragile (identità debole).
    In questo modo la concezione di identità si trova trascinata da un estremo all’altro. Da una parte, essa viene considerata come il tribunale di ultima istanza, cui tutto deve sottostare; la si qualifica come tensione al compimento, una specie di colossale serbatoio pieno di vigorose energie realizzative. Il soggetto prefigura il proprio progetto come esito necessario delle sue potenzialità, senza scomodare provocazioni esterne se non quali semplici condizioni. Dall’altra, l’io rimane il luogo della libertà diffusa: non si tratta di scegliere tra il bene e il male, bensì di affermare se stessi nell’esperienza di autoaffermarsi in una sorta di volontà di potenza. E dunque vi sono illimitate possibilità di manifestarsi, superando potenziali ostacoli che si frappongono al di fuori del proprio io.

    L’io è un’identità comunicativa

    Tra l’identità tetragona della modernità e l’io debole della post-modernità si invoca oggi un superamento che eviti la facile restaurazione e al tempo stesso faccia uscire dalle sabbie mobili dell’indistinto. Per uscire dal raffronto non serve un compromesso, ci vuole una mediazione culturale: occorre una riscoperta della persona non come assoluta interiorità o esasperata soggettività, bensì quale identità comunicativa. L’autorealizzazione solitaria si trasforma in soggettività aperta, e l’io interiore che sceglie in un io che parla per rivelarsi nel dono comunicativo. L’identità allora non è in primo luogo centrata su di sé, bensì sull’alterità: è l’altro che mi provoca alla crescita e mi sfida nella vita. A ragione si afferma che «all’inizio è la relazione» (Buber) e che l’alterità è «epifania del volto» (Lévinas): l’uomo infatti si fa io nel tu. Del resto, individualismo, autosufficienza, autoaffermazione sono categorie da superare con il criterio della comunicazione. La quale dice dinamica di sviluppo di sé che dalla dipendenza trasmigra all’autonomia, dalla irrilevanza degli eventi passa alla pregnanza dei significati, dalla ricerca di gratificazioni evolve verso la disponibilità gratuita.
    Di certo siamo al di fuori dell’ideologia tecnocomunicativa con l’esaltazione delle autostrade digitali e della perfezione informatica, come al di là della valenza e correttezza comunicativa sia pure letta in termini di abilità retoriche, ossia di capacità di convincimento. L’enfasi sulla sua importanza scadrebbe in una concezione riduttiva della comunicazione. Non si tratta infatti di accontentarsi a trasmettere messaggi o di organizzare al meglio la comunicazione. In questo modo si finisce per ridursi alle equivalenze in voga: «pensare è calcolare e agire è dominare». La comunicazione, come valore epocale, va ben al di là della sua grammatica, come anche della semplice pragmatica, per interpretarsi e completarsi nella semantica della comunicazione, ossia nei suoi significati anche antropologici e fondativi.

    Il versante antropologico dell’io

    Il versante lungo cui si possono dispiegare le ulteriori potenzialità della comunicazione è senz’altro antropologico: si comunica per esprimere e crescere la vitalità umana nel proprio sviluppo storico e si comunica per infondere vigore etico e politico alla convivenza umana. Questo modo di concepire la comunicazione si pone di certo in alternativa, anche se non di necessità in opposizione, alla concezione dell’individuo come isola del desiderio e quindi del conflitto (individualismo) o quale frammento condannato ad essere assorbito dal sistema sociale (funzionalismo), deturpandone la dignità e la libertà.
    La persona umana non può essere una realtà insulare e neppure una entità compiuta: essa è assai più un soggetto in relazione, ed appunto nella comunicazione sviluppa un processo di crescita umana in cui ciascuno riconosce se stesso. Comunicare non è semplicemente usare uno strumento, bensì inserirsi in un processo entro cui si costruisce identità e nel cui tessuto si stabiliscono reti di sviluppo con gli altri. In un gioco dialogico delle differenze, la peculiarità del singolo viene arricchita e al contempo la vicinanza dei soggetti non viene tradita o sconfessata. Il contesto comunicativo è perciò condizione decisiva e cruciale per lo sviluppo dell’identità personale. E la comunicazione riuscita non è semplicemente un messaggio trasmesso e accolto, bensì si configura come una dinamica relazionale entro cui ogni soggetto cresce in dignità. È la dignità della coscienza della propria originalità che prende forma nel divenire libero e responsabile; è la dignità di chi, nella forma riflessa della vita interiore, si apre al senso di sé e delle cose, per riconoscerne la vitale verità; è la dignità che impegna nella disponibilità del dono, lasciando dietro di sé la cultura dell’ego, segnata dal narcismo quale esito e dalla ricerca di gratificazione come fine, e consegnandosi alla legge vitale della gratuità che riconosce anzitutto di essere costituiti in dignità per dono ricevuto.

    Conoscersi è riconoscersi

    Ma come viene costruita, nell’esperienza quotidiana, la propria identità? Lungo quali processi si configura e cresce l’io? Già il sapere di essere un io comunicativo apre a intuizioni, che non muovono di certo verso l’isolamento o la separazione. Ma quali sono le modalità del divenire se stessi?

    L’esigenza del teste

    Ciascuno di noi sa, per esperienza diretta, quanto sia insita in noi la voglia di conoscere le nostre origini, di rendersi conto della storia personale. È evidente in modo indiscutibile e con particolare intensità nel figlio di sconosciuti, che vuol sapere dei propri genitori e non si dà facilmente pace. C’è l’esigenza di essere raccontati, che altri narrino per noi.
    Questo è emblematico per la costituzione della nostra fisionomia personale, del chi siamo, soprattutto quando ci troviamo nelle diverse fasi dell’età evolutiva. Ma questo si addice pure nella vita adulta, anche se ci pregiamo di saperci valutare. In realtà ciascuno di noi si avvale di una serie di informazioni che ha appreso nel rapporto con gli altri per fare confronti, esprimere valutazioni. La conoscenza di noi stessi si è via via accresciuta mediante un’azione, incessante e spesso inconsapevole, di riverbero dei gesti altrui. Ci siamo configurati osservando e reagendo, accettando o rifiutando, insomma misurandoci sull’altrui agire. Rispecchiandoci negli altri, formiamo l’immagine di noi stessi: spesso ci sentiamo okay, solo quando avvertiamo il consenso; e anche quando ne prendiamo le distanze, si agisce di continuo nel confronto. E se è vero che l’adulto si qualifica come tale, appunto perché non va alla ricerca di conferme del proprio io, altrattento reale è il fatto che i legami non si risolvono per semplice decisione della mente. Spesso le ragioni del cuore continuano a durare nel tempo.
    Il sé adulto che abbiamo interiorizzato è frutto sicuro del nostro viaggio lungo le molteplici e diverse esperienze della vita. La mappa della nostra identità si è formata nel continuo riceverci dalle mani degli altri. Nello sguardo e nel raffronto si crea per me il terreno della mia individualizzazione nel tempo; e, se non so chi intendo diventare e per chi diventarlo, non si riesce a delineare nessun cammino di crescita. Se non ci si vede riflessi, come in uno specchio, è impossibile individuare il proprio volto, poiché non si ha in mano la misura culturale per verificare e controllare, censurare o confermare l’immagine nostra. Le persone attorno a noi sono in realtà lo specchio che permette di riflettere tratti del nostro volto. Le relazioni con gli altri non sono un di più inoffensivo per noi stessi, bensì sostanziano la convivenza umana e rappresentano il tragitto per apprendere a divenire persone. Gli altri sono i nostri codici di riferimento, i testi in cui riconoscere noi stessi, le identità con cui costruirsi come persone.

    Nel raffronto ci si progetta

    Siamo immersi in una rete di relazioni interpersonali, e la presenza attiva degli altri è sorgente del desiderio di essere qualcuno con un preciso volto. Il lavoro di conquista della nostra fisionomia e di impegno a progettarci scatena il confronto con gli altri e porta a riconoscere somiglianze e differenze. La voglia di sé si affina e si concretizza nel raffronto: in questo processo può emergere il desiderio di essere diversi, di ambire talune caratteristiche altrui, ma anche si scoprono le nostre potenzialità, si riconoscono i limiti, si accetta la propria singolare fisionomia. Specie nell’adolescenza suscita un grande fascino la persona riuscita: si fa ciò che egli fa, si pensa come lui, ci si adegua al suo sentire. Ma nella dinamica del raffronto si verifica una vasta gamma di reazioni. E se è vero che la spinta a far proprio ciò che è dell’altro suscita la voglia del possesso per gratificarsi o il desiderio di sminuirlo per ammorbidire il proprio senso di inferiorità, altrettanto sincero è il desiderio di ritrarre l’altro o di trascriverlo, perché in lui si intravede la felice riuscita della vita.
    Il gioco del desiderio nei confronti degli altri è assai complesso, ma unico ne risulta il traguardo: il riconoscersi per progettarsi. L’universo delle emozioni e delle motivazioni viene comunemente avvertito come pieno di ambivalenze o di ambiguità: l’altro è fonte di seduzione e simpatia, ma pure di repulsione e distacco. Così gli sbocchi per l’identità sono evidentemente differenti: ci si può progettare per consonanza o per differenza, per contrasto o anche per sintonia. Il traguardo resta sempre il medesimo: prefigurare il progetto di sé nel riconoscere la propria identità.
    E se agli albori della vita prevalgono i meccanismi dell’imitazione o, più in là, la coscienza del desiderio, nella maturità dell’adulto si impone sempre più la dinamica della scelta, che discrimina modelli di vita e valuta la differenza degli stili d’esistenza. Il traguardo è unico: scegliamo uno stile di vita perché si confà al nostro progetto; ciò che viene considerato come un valore, viene perseguito; quanto è intravisto come un bene per sé, lo si insegue. Ma la questione determinante per riconoscere e scegliere taluni atteggiamenti sta nel vederli in atto in qualcuno, nel misurarli su chi ho di fronte. Nella molteplicità dei valori, espressi in una vasta gamma di stili di vita, mi posso decidere per taluni di essi là dove li vedo vissuti e non semplicemente dichiarati. In questo campo le ragioni del cuore, che sgorgano dall’esperienza della vita, sono più forti e convincenti dei motivi della ragione che fondano ma non mostrano, e spiegano ma non provocano.
    Il raffronto con il vissuto degli altri rappresenta così il contesto del proprio progetto, e le nostre scelte si calibrano sui valori incarnati in altri. Anche se tutto ciò appare complesso, tale è il linguaggio del divenire un io, un’identità che cresce nella storia e quindi progetta.

    Nel pluralismo si danno opportunità di crescita

    L’identità può essere costruita nell’esclusione degli altri, nel distacco o nel rifiuto, anche se compiuto in modo morbido, o nell’inclusione altrui, nel tentativo di renderlo uguale a se stessi, anche se non sempre in maniera fagocitante. Nel pluralismo odierno sembra invece che il massimo dei rischi sia quello della noncuranza e dell’incertezza nell’approccio. Pare non sia data neppure la possibilità di un minimo di unità dell’io, visto che la vita odierna è composta di frammenti. Eppure c’è bisogno di convergenze, altrimenti non è possibile alcuna forma di identità.
    Nella nuova prospettiva dell’alterità, l’altro viene giustamente posto ormai come valore positivo nel generare la propria identità. Accettando la valenza dell’altro nella pluralità delle identità, si attribuisce uno specifico valore ad ogni persona, pur muovendosi tutti verso un traguardo comune: la realizzazione rispettosa della pluralità dei sé. Ma l’io allora non è un dato, è assai più un compito da realizzare, nel riconoscimento dell’esistenza altrui. Il pluralismo, come accettazione della differenza, risulta essere opportunità e ricchezza per i singoli.
    Così considerato come un valore, rende praticabile nella prassi le scelte dei singoli di realizzarsi secondo la propria responsabilità: è l’aeropago delle libertà. Ma esso sollecita pure la ricerca della verità, appunto nel confronto. Il pluralismo culturale provoca il dialogo sui valori e sui convincimenti, come anche sulla comprensione della fede e dell’identità cristiana. Anzi si può senza dubbio affermare che c’è un collegamento essenziale tra dialogo e ricerca della verità.
    Del resto la stessa rivelazione di Dio si presenta in una struttura dialogale. Ed il dialogo, nella società moderna, si palesa oggi come l’unico metodo per far fronte alla molteplicità delle posizioni e alla pluralità degli stili di vita. Anche l’identità religiosa non può più essere pensata come un’isola. Piuttosto le si addice l’immagine di «tessitura» (Ricoeur). Proprio perché l’identità non si costruisce nel ripegamento su di sé, nella riflessione intimistica sul proprio io, la tessitura dell’identità si va facendo con la varietà e la differenza dei fili, intessuti in un disegno policromo. Del resto sappiamo quanto siano oggi determinanti le convinzioni, le ragioni di vita, le scelte personali.
    E queste non crescono in un sol colpo, bensì necessitano di un’azione duratura di maturazione, resa possibile appunto da una disposizione a dialogare ed a interpretare la pluralità. Nella sensibilità moderna, si rifiutano le proposte che sanno di preconfezionato o non sollecitano una lettura personale, anzi esse vengono normalmente avvertite come aggressioni alla libertà del soggetto.
    Per configurare la singola si fa perno sull’agire comunicativo, promuovendo processi di comprensione e interpretazione degli eventi riguardanti i valori e il senso della vita. Comunicazione e dialogo assurgono così a strumenti principe per formare convinzioni e atteggiamenti, per costruire identità. All’interno delle più diverse forme di interazione, dall’interrogazione critica, alla ricerca della verità, si genera l’identità, anche cristiana. Non per nulla oggi, a tutti i livelli, regna la categoria del «cammino», e gli itinerari educativi hanno la meglio, perché indicano processi da percorrere, dinamismi da assecondare, esiti da perseguire passo dopo passo, tappa dietro tappa.
    Senza dubbio il pluralismo culturale, etico e religioso odierno, è ambivalente e spesso anche ambiguo, e la proposta di fede può incontrare opportunità o anche difficoltà. Ciò costituisce comunque un dato di fatto, specie per i giovani, e presenta certamente seri rischi. La molteplicità di modi di vivere e di credere può facilitare lo sbocco nel relativismo, sicuramente una piaga odierna, che porta a moltiplicare le esperienze da fare, ma fatica a impegnarsi in scelte di vita. Il contesto pluralistico provoca però ad abbandonare i valori astratti per affrontare la realtà dell’esistenza e la prassi della vita. Oggi ci si interroga più che mai sul senso degli eventi. La solitudine, l’individualismo, l’isolamento etico, oggi esasperati, sfidano il vuoto esistenziale verso la ricerca di risposte. La fede in Cristo suona così un’istanza critica che mette al riparo da esistenze insensate, e fornisce i criteri di discernimento per giungere a vere scelte: è un appello ad abitare nel proprio mondo con il coraggio della libertà. Le comunità cristiane non possono più configurarsi come luoghi protetti e i cammini di fede come strade a senso unico: quelle sono assai più luoghi di libertà, perché tale è la loro vocazione, e questi divengono percorsi di responsabilità. Il policentrismo di senso e i differenti sistemi di riferimento rendono senza dubbio difficoltoso lo schierarsi: l’incertezza si fa strada a piene mani, e spesso si trovano opposti riferimenti per le diverse esigenze della vita.
    E tuttavia la fede, appunto nel contesto di questa molteplicità, può risultare una proposta che sa far convergere il tutto attorno alla persona, per cui la costruzione dell’identità cristiana svolge un ruolo di primo piano. Ormai sia la fede che l’etica non possono essere considerate come codici di valori e di regole che servono ai singoli per orientare la loro vita. Esse sono immaginate assai più come delle piste lungo cui si esplica l’arte dell’esistere, nell’incontro con il Signore della vita: sono cammini da compiere con Colui che è via, verità e vita, e sa farsi nostro compagno di viaggio perché tutti abbiamo la vita e l’abbiamo in abbondanza. Del resto, anche culturalmente, stiamo passando il guado da una società della prescrizione a una società dell’iscrizione, e questo esige una continua ricerca di senso ed avviene in uno spazio di libertà. In tale transizione si pone decisamente il compito di provocare il cambiamento e di sostenere nella responsabilità: discernimento e accompagnamento sono due istanze odierne a cui non ci si può e deve sottrarre. Si tratta di una grossa opportunità di crescita da accogliere.

    Incontrarsi per accompagnare

    Un ulteriore passo nel farsi compagni di viaggio sta nell’incontro. A tale categoria è molto attenta la pedagogia odierna nell’interpretare il rapporto educativo. Martin Buber è uno dei capostipiti nel leggere il fenomenno educativo con la categoria dell’incontro soprattutto se si intende promuovere l’esperienza religiosa e spirituale negli interlocutori. Accompagnare è incontrarsi, ma come?

    L’incontro come tessuto della vera compagnia

    Sempre più si tende oggi a dare rilievo all’esigenza della reciprocità e del dialogo, che presuppone un’educazione all’alterità e alla solidarietà. Per questo si parla a ragione di cultura dell’incontro.
    L’atto educativo richiede di stabilire tra i soggetti un rapporto intenzionale e interpersonale. Ciò significa che l’approccio è giocato sulla totalità della persona e sulla sua libertà e responsabilità. Si tratta di un rapporto io e tu, nel quale gli interlocutori sono pienamente se stessi, soggetti attivi della propria crescita. L’incontro esige la presenza dell’altro, nella sua peculiare realtà: incontro è libertà di relazione anzitutto, ma insieme è porsi di fronte, toccato dalla persona che è lì presente. Allorché ci si pone in reciprocità, ci si addentra in un percorso d’incontro.
    Se mi fermo solo alle apparenze, sosto sulla soglia dell’incontro. E quando mi metto in sintonia sulle emozioni, colgo semplicemente uno stato d’animo. Interpello la mente, allora parlo all’intelligenza. Quando provoco all’azione, mi interessano i comportamenti dell’individuo. Incontrarsi significa invece provocare l’io a mettersi in relazione con tutto il suo patrimonio umano, è guardarsi negli occhi per intravvedere la profondità della persona, vuol dire sfidare chi mi sta davanti come interlocutore. L’incontro avviene tra due identità, due libertà, due responsabilità che raccontano la loro storia per chiedere e dare ragione di ciò che si ha di più caro nell’esistenza, per arricchirsi a vicenda delle proprie conquiste di valore e di senso.
    A ragione l’incontro è sfida alla propria persona, rappresenta la via per comunicare con l’altro in profondità. La relazione di reciprocità è presenza di identità, scambio in pari dignità, accoglienza delle differenze, sintonia di mente e di cuore, è insomma il contatto vitale con il tu che interpella a crescere comunicando se stessi. Appunto per questo l’incontrarsi dà motivo di prendersi seriamente in considerazione, porta a comunicare con il proprio io, che si interroga sulla sua identità. La relazione con l’altro conduce inevitabilmente all’incontro con se stessi, alla riflessione sulla realtà personale. Interiorità non è infatti vuoto o assenza, bensì incontro con il proprio io più interiore che racconta di sé e della sua storia. Da questo incontrarsi con se stessi emerge il desiderio e l’intenzione dell’io, e perciò l’ideale di sé e la progettualità. Si comunica sempre con una qualche intenzionalità, anche inespressa: perciò ci si confronta per definirsi nei propri ideali, si dialoga per arricchirsi in progettualità, ci si incontra per andare oltre se stessi.
    L’incontro cresce nella reciprocità, che dice accoglienza e insieme differenza, sintonia e diversità. Guida alla realizzazione di sé nello sviluppo dell’autonomia e della responsabilità personale, modellando il proprio volto nella peculiarità e con originalità. Esprime intenzionalità, che va oltre il semplice comunicare per sfociare nelle singole idealità: ne sono espressioni la progettualità della comunità e, per il singolo, il progetto di vita. Incontrarsi richiede dunque abilità a mettersi in relazione, capacità di riflettere su se stessi, potenzialità a sapersi impegnare nella progettualità: si costruisce così la propria identità comunicativa e progettuale.

    Per un incontro autentico

    Nell’esperienza cristiana la categoria dell’incontro è fondamentale. La fede infatti invoca l’incontro con una persona, il Signore Gesù, volto di Dio Padre. Del resto la spiritualità non consiste in prima istanza nell’entrare in intimità con noi stessi, in un recupero consapevole del proprio io; chiede anzi di uscire da sé per andare verso gli altri e verso l’Altro. Ciò che trascende l’io della psiche, sede di energie e potenzialità, è parte integrante dell’io che si pone in relazione con una presenza che si fa incontro. L’esperienza cristiana è radicata nel trascendente che costituisce in dignità il soggetto. Mettersi in relazione con l’Altro crea identità, costruisce dignità. L’atto di fede è perciò un rapporto, un rapporto interpersonale con il Dio di Gesù, ed insieme è un’unità indissolubile tra una matrice che dà senso e la libertà del riconoscimento. Il vissuto della fede presenta tutte le caratteristiche del tessuto umano, e ne rivela la matrice che è il Verbo incarnato. A ragione viene infatti asserito che «chi segue Cristo, l’uomo perfetto, sarà lui pure più uomo». Nell’identità del credente i due aspetti, l’umano e il divino, si coniugano senza confusione e si declinano proprio perché distinti ma non separati.
    Questo rapporto è delicato, risulta facile entrare in collisione. Le due facce della medaglia non si identificano: la disponibilità al servizio ad esempio non è automaticamente carità cristiana, eppure se ne può intravedere i semina Verbi. Lo sguardo della fede sa andare oltre e dentro, in profondità. Così il ruolo dell’umano non viene assunto dallo spirituale, altrimenti si rischia di frustrare la responsabilità del soggetto: non si dà nessuna sostituzione, nessun rimpiazzo. E non si tratta di fare spazio al divino, al cristiano: al posto della libido l’agape, della benevolenza la donazione, dell’aggressività la dedizione. Nella spiritualità cristiana non si dà alcuna sostituzione della realtà umana, come neppure viene negato l’elemento umano. L’incontro con Cristo non cancella le resistenze del cuore: non per nulla una vera spiritualità è sempre accomapagnata dall’impegno ascetico, oltre che dall’afflato mistico.
    E tuttavia la fede non si riduce a supplemento, non è un bel vestito, per quanto adeguato. Essa penetra nelle midolla del tessuto umano e lo trasforma dall’interno. Non costruiamo pertanto l’identità cristiana, solo quando e dopo che abbiamo conquistato l’identità umana. L’evangelo è lievito nella pasta, è seme che cresce, è luce che illumina. I due aspetti di richiamano e si coniugano a vicenda. I percorsi perciò vanno nella linea dell’inculturazione della fede e dell’evangelizzazione della cultura, della integrazione tra fede e vita, vangelo e cultura. Perciò l’intervento della fede nell’incontrare il Signore non si colloca solo alla fine. Quando mi interrogo su una qualsiasi realtà umana, la presenza di Dio è già lì che opera. E se pretendo di mettere Dio al posto della mia responsabilità, fallisco. La fede infatti si incarna in ogni realtà umana, che non devo misconoscere per entrare in comunione con Dio.
    L’incontro con il Signore non lascia le cose della vita come stanno: queste sono segni della sua presenza ed efficacia. Esso ci provoca a saper andare oltre: a correggere e perfezionare, completare e superare, integrare e portare a compimento l’esperienza dell’esistere. L’incontro con Dio apre a nuovi orizzonti, suggerisce inediti sbocchi, infonde nuove energie. Si estendono i significati degli eventi e il simbolismo della realtà, sino a far aspirare ad amare come Dio ama. L’autentico incontro con Dio promuove integrazione: ogni esperienza umana è piattaforma per incontrare Dio, e d’altro canto ogni incontro con Dio è motivo di maturazione umana. Il distacco tra le due realtà è un falso: mette in forse la verità dell’incontro.
    Gesù appare come il modello fondante per rintracciare la figura del nostro divenire persone. Alla sua luce noi scopriamo di essere costituiti in libertà, ad un tempo dono e compito: la nostra vicenda si svolge tra il dono dell’inizio, che accogliamo nella gratuità, e la chiamata ad una meta, che configura la nostra vita come compito. Dinanzi alla vita percepiamo di non esserne padroni, come neppure semplici spettatori. La direzione del cammino va dunque ricercata nell’agire come soggetti responsabili e attori protagonisti dell’esistenza. Nell’accompagnare a incontrare Cristo si determina un duplice versante d’attenzione: la libertà personale da gestire come soggetto e la persona di Cristo come paradigma della più alta libertà. La ricerca di un traguardo che dia senso alla nostra libertà ci stimola ad andare oltre bisogni e esigenze, per investire nel desiderio, espresso in idealità e progetti. Ma un simile processo è ambivalente: può portare la voglia di possedere, per cui tutto, anche l’evangelo, diventa strumento per saziare e colmare brame e frenesie. O al contrario può avviare verso la disponibilità per cui la verità di Gesù plasma la nostra vita, costruisce in noi l’immagine sua.
    La sua umanità risalta così come esemplare per la nostra identità e conferisce uno stile peculiare per un autentico incontro con gli altri. Nel nostro essere compagni di viaggio, si mettono in movimento questi dinamismi che ci impegnano a riconoscerci per riconoscere, a confrontarci per discernere la nostra via, ad accogliere le diverse opportunità di crescita, insomma ad incontrarci nella profondità di sé per poter accompagnare in modo autentico. In quest’azione educativa gli incontri di Gesù del vangelo diventano emblematici.

    ATTEGGIAMENTI DA ASSUMERE PER IL VIAGGIO

    Che significa essere compagni di viaggio per un educatore? Come tradurre in termini di prassi le intuizioni antropologiche segnalate? Quali atteggiamenti si devono assumere per poter mediare valori evangelici e vissuti cristiani?

    Crescere, formare, accompagnare

    Prima di addentrarmi ad illustrare talune disposizioni educative che si rivelano maturanti per il cammino comune, richiamo per cenni le istanze che sottostanno al dinamismo dell’agire educativo, vagliando il significato di crescere, formare e accompagnare.
    L’incontro educativo avviene in primo luogo attraverso processi di maieutica. Si tratta di sollecitare a far emergere, a costruirsi dal di dentro. Ciò esige che il soggetto faccia ricerca su se stesso, indaghi sulle potenzialità, come sui suoi conflitti. E che l’educatore non si fermi a considerare semplicemente quanto appare, ma si avventuri nell’andare più in là e dentro. Nel chiedersi quali siano i motivi e le ragioni dell’agire, con l’intento di far emergere e decifrare il mondo motivazionale per la crescita dell’individuo. Questo presuppone che si sappiano riconoscere emozioni e sentimenti, ossia le reazioni a quanto avviene attorno a sé. Ma è senza dubbio assai significativo per la crescita individuare le predisposizioni all’agire, gli stili di vita, ossia gli atteggiamenti del soggetto, che sono i motori della sua azione concreta e stabile.
    In educazione il compito del riconoscere e riconoscersi è fondamentale per entrambi gli interlocutori, ma certo il compito della mediazione educativa non si ferma qui. Perché si possa crescere in maturità, occorre mettere nella condizione di divenire sempre più padroni di se stessi, di saper gestire la propria vita. La soluzione dei problemi di crescita non può essere lasciata al caso: nella ricerca si devono proporre traguardi raggiungibili che tengano conto dei livelli di maturità e facilitino i percorsi di maturazione. Questo compito di facilitare la crescita impegna l’educatore in una azione maieutica, come un generare alla vita.
    Ma l’incontro educativo esige qualche altro passo di mediazione: non basta far crescere dal di dentro nella ricerca della realizzazione di sé, occorre aiutare a riconoscere e proporre dei modelli di vita che suscitino un proprio tipico modo di essere. Si tratta di formare mediante stili di vita e proposte di valori che sappiano imprimere una direzione all’esistenza nelle sue scelte fondamentali. La richiesta paolina di assumere i sentimenti di Cristo, a vivere e ad agire come Lui, ad amare e a sperare come ama Lui, è un invito alla proposta che peraltro non è estranea alla vita umana. In educazione è determinante saper mediare i valori evangelici. E ciò richiede che il formatore ne sia profondamente convinto e che quanto propone sia frutto di esperienza. Evidentemente non si tratta di presentarsi come modello, bensì di rendere visibile la percorribilità di ciò che viene offerto come degno di essere desiderato. Non si forma senza far trasparire la propria chiara intenzionalità, convinti che la persuasione occulta è sempre un danno. Se intende esaltare il fascino della persona di Gesù e il valore del camminare secondo i sentimenti di Cristo, l’azione dell’educatore non può che risultare contagiosa. Il nodo di tutto questo processo sta nel proporre di farsi discepoli, per cui è necessario saper toccare il cuore del giovane, guadagnare il suo animo per conquistarlo all’amicizia con Dio. L’educatore si assume qui il compito di rivelare la mistica dell’essere discepoli del Signore Gesù e insieme di indicare l’impegno ascetico richiesto per diventarlo secondo il cuore di Dio.
    L’impegno di crescere e formare come educatori della fede esige di saper accompagnare. Ci si fa compagni di viaggio dei più giovani per vivere con loro il discepolato di Cristo. L’elemento essenziale sta appunto qui, nella condivisione. E non si tratta del semplice mettersi accanto, del solo conoscersi e accogliersi, di avanzare proposte e indicare stili di vita, bensì di condividere la propria esperienza di fede che chiama ciascuno a camminare secondo il proprio dono e progetto. Perciò è una condivisione esistenziale e vitale, un mettere in comune un qualcosa che sta a cuore e scaturisce dalla profondità dall’animo. Il cammino di credenti non può rimanere estraneo l’uno all’altro, poiché ciascuno manifesta il proprio vissuto nel suo incontro con Dio. Ci troviamo di fronte a un gesto di confessione della fede che coinvolge sulle vie dello Spirito. Mai un educatore potrà essere più convincente che con un simile atteggiamento di condivisione. Senza dubbio l’educatore ha bisogno di una seria preparazione per esercitare il compito di accompagnatore: gli serve saper conoscere i dinamismi dello sviluppo umano, enucleare le sfide della cultura odierna, discernere le mozioni dello Spirito, indicare la via da seguire. Assolutamente indispensabile risulta essere inoltre la competenza che proviene da chi ha compiuto un cammino serio e organico di formazione: non si comunicano valori senza averne esperienza; non ci si improvvisa guide spirituali in mancanza di un percorso compiuto. Eppure, senza alcun dubbio, l’educatore per essere un vero accompagnatore deve saper condividere le esperienza credente, in cammino alla scuola dell’unico vero Maestro, il Signore Gesù. Un compagno di viaggio percorre lo stesso cammino, si orienta verso la meta comune, condivide le esperienze e i sentimenti, si accompagna nella gioia e nella fatica, nell’ispirazione mistica e nell’impegno ascetico.
    Nel contesto di questi riferimenti indaghiamo ora su tre atteggiamenti educativi che facilitano il compito di accompagnamento spirituale e vocazionale.

    Intrattenersi nell’ascolto

    Un primo atteggiamento comunicativo per essere efficaci nel farsi compagni di viaggio è l’ascolto. Saper ascoltare è l’inizio di un processo relazionale che costruisca voglia di interlocuzione tra i soggetti. Senza un compagno di viaggio da ascoltare non è percorribile alcun cammino umano. Si tratta di essere attenti alla narrazione delle storie altrui, premessa indispensabile per stabilire una relazione positiva.
    L’ascolto che suscita dialogo, si contrassegna decisamente come sospensione di giudizio: è attesa e ricerca insieme, accompagnate da una volontà di scoperta. Chi si lascia andare a sentenze o critiche suscita con facilità difese e resistenze nell’interlocutore. La ricerca comune rischia di trovarsi di fronte a strade chiuse, invece che a porte aperte per la scoperta delle rispettive identità. La disponibilità a non valutare chi mi sta davanti esprime al meglio la volontà di ascoltarlo sino in fondo. Anzi proprio l’impegno di attenzione e di rispetto per la persona si traduce in richiesta di dialogo, ossia di poter interloquire con messaggi propositivi di valori. Questa disposizione all’ascolto senza riserve comunica in primis un messaggio di carattere simbolico: e cioè il sommo valore dell’interlocutore, perché tale nella sua dignità, al di là degli argomenti sul tappeto. E poi invia messaggi di tipo tematico che proiettano i soggetti in una situazione di dialogo, dove è possibile sapere, confrontarsi, apprendere, dando così ciascuno qualcosa all’altro attraverso le diverse vie della comunicazione.
    L’accoglienza senza fagocitazione, l’interesse esente da curiosità, l’accettazione fuori da ogni condizione, sono segni di disponibilità all’ascolto che confermano l’interlocutore nel suo esserci su piano esistenziale, sociale e culturale: gli si permette di comprendere e comprendersi, di cercare in libertà, di decidere e scegliere secondo la propria identità, di formulare un personale progetto.
    Qualsiasi ascolto però conduce inevitabilmente ad un esito: ossia a interrogarsi sulle dinamiche e sui processi avvenuti. Gli interlocutori si domandano lungo tutto il processo come hanno agito le loro menti, il perché dei silenzi, dei disagi o appagamenti. L’andare oltre l’ascolto fa scoprire se si è stabilita o meno una sintonia reciproca, nello sforzo di costruire la realtà propria; ingenera le più diverse variazioni del condividere l’esperienza, comune o differente che sia. Ed è appunto in questo raccontarsi che i singoli soggetti avvertono se stessi come protagonisti della loro storia. L’aperta riflessione su di sé edifica una più ricca interiorità, appunto per la presenza attiva dell’altro. Le modalità della narrazione si arricchiscono inevitabilmente: si passa dalla voglia di parlare con qualcuno per operare in noi una catarsi alla scoperta di una propria storia, che non è vuota; si giunge poi a saper ascoltare gli altri nella loro differenza, come anche ad ascoltare se stessi creando memoria. Educare all’ascolto consiste assai nell’aiutare ad apprendere da se stessi, perché è nel saper ascoltare e narrare che ci si riconosce come identità originali.
    Ma allora il saper ascoltare l’altro implica la capacità di ascoltare se stessi. La nostra mente costruisce identità, ascoltandosi nella introspezione e ritrovandosi in una sorta di rispecchiamento. Nelle trame vitali della nostra storia si ricerca chi siamo. La ricostruzione della biografia personale ci obbliga a fare memoria dei tracciati lasciati alle spalle e a individuare gli indizi per il futuro. La parola rivolta a sé, il dialogo interiore, è la strada per scrivere la storia di noi stessi. La mente e il cuore vengono coinvolti a narrare se stessi per ritrovare se stessi. Di certo questo ascolto di sé non si confonde con la sosta intimistica del bearsi narcisisticamente. Richiede di saper andare oltre per riconoscere i tratti del proprio volto, in modo da saper ritrascrivere continuamente la storia personale. È dunque uno strumento per la rigenerazione della persona. Possiamo ritrovare in questo i grandi apostoli della meditazione, poiché tale si rivela l’ascolto. Ed allora avviare all’ascolto meditante significa indicare la via regia per la costruzione dell’identità adulta che sa porsi di fronte alla propria coscienza e responsabilità. La capacità di intrattenersi con se stessi e con la propria storia si rivela condizione cruciale per saper conversare con un altro come sé. E l’abilità di consegnarsi oltre il proprio ascolto, che rischierebbe altrimenti di affossarsi nel ripiegamento adolescenziale, introduce in realtà a mettersi in comunicazione con gli altri nell’intreccio arricchente delle narrazioni delle storie di ognuno.

    Cercare di sintonizzarsi

    Un atteggiamento ulteriore del processo relazionale consiste nel sapersi mettere in comunicazione, nel cercare di sintonizzarsi sulla medesima lunghezza d’onda. Ciò implica per l’educatore la capacità di capire la situazione (intelligenza cognitiva) e di comunicare in modo adeguato (intelligenza emotiva). Il percorso è delicato, perché esige di addentrarsi con empatia nella situazione altrui. Non si tratta infatti di leggere semplicemente la storia dell’interlocutore, bensì di comprenderla in profondità, nel suo cuore. E neppure di perdersi in osmosi nella vita altrui, vivendola come se fosse nostra, bensì di intuire emozioni e individuare ragioni che sostanziano il vissuto dell’interlocutore. In empatia quindi utilizziamo mente e cuore insieme per vedere come in uno specchio e saper valutare.
    Anche se questo mettersi in relazione è un evento unico e organico, tuttavia per meglio comprenderlo, possiamo analizzarlo in talune sue componenti, non dimenticando che nel vissuto i diversi elementi non sussistono senza nessi tra loro.
    Un primo approccio, quello più immediato e visibile, per stabilire una comunicazione, per sintonizzarsi, consiste nel giocarsi sulla mente. La persona parla e dice qualcosa, offre delle informazioni: è il contenuto della comunicazione. Le parole hanno un loro senso, risuonano in un certo testo linguistico (grammatica della comunicazione). Il primo compito dell’educatore risulta essere quello di decodificare quanto ascolta, senza aggiungere nulla, anzi verificando se ha compreso bene i termini e il pensiero. Sono le menti che cercano di sintonizzarsi, possiamo dire con molta approssimazione. L’educatore si trova allora impegnato a mettere in atto tutta la sua capacità di comprensione della lingua del discorso, perché sapere e cultura possono avere differenti schemi di riferimento sia antropologici che sociali.
    Un secondo approccio al fenomeno complesso della comunicazione si riferisce all’universo emotivo, ai sentimenti, che accompagnano la parola e il pensiero (pragmatica della comunicazione). Al di dentro di quanto viene pronunciato con la bocca, si dà voce alla vita emotiva, che è un modo di reagire, e quindi di porsi e di proporsi nella relazione. Sappiamo quanto i sentimenti interpersonali giochino nella comunicazione. Gli interlocutori non sono neutri altoparlanti, bensì cuori vivi con un loro denso vissuto. Essi reagiscono ad un contesto umano composto dalle loro storie, e comunicano insieme con le ragioni del cuore. Il cuore parla con il suo alfabeto, usa un suo linguaggio, che non è meno apprezzabile di quello della mente. L’intelligenza emotiva orienta le nostre relazioni e rende possibile il rapporto empatico. Specie nella comunicazione dei valori hanno grande peso i legami personali, che sfociano da una parte nelle più differenti forme di identificazione e dall’altra nell’impegno di testimonianza.
    Un’ultima modalità di approccio fa accostare alla relazione per evidenziarne il significato, ossia considera il messaggio che si intende comunicare (semantica della comunicazione). Ogni relazione svela qualcosa che va al di là della semplice interazione tra individui. Può risultare desiderio di catarsi liberatoria, bisogno di uscire dalla solitudine, voglia di sentirsi bene insieme, esigenza di risposta a interrogativi che attraversano la vita, comunicazione di valori che si ritengono essenziali. Per certo in ogni relazione si dà un messaggio, che necessita di essere riconosciuto e interpretato. L’ambivalenza e l’ambiguità sono spesso il tessuto su cui poggia la relazione, e la complessità delle storie di ciascuno rende plurimo l’intreccio dei messaggi. Ma il centro della comunicazione sta qui, nel sintonizzare sul messaggio, che è mediazione di significati e di senso: da questo scaturisce lo scambio del pensiero, la conversione del cuore e l’appello al cambio della vita. Quando si intende comunicare veramente, occorre sintonizzarsi su questi fronti della relazione e calibrare adeguatamente i propri messaggi. Il sapersi mettere in relazione forma alla compagnia di tutti.

    Comunicare per progettare

    Il processo di comunicazione non si esaurisce nella relazione, sfocia bensì nella progettualità. Non ci si mette in relazione per guardarsi solo negli occhi, ma in particolare per lanciare lo sguardo in avanti, insieme. Questo rappresenta l’esito dell’essere compagni di viaggio. Se la direzione non è condivisa, ben difficilmente si può camminare in compagnia.
    In tal caso l’atteggiamento da assumere, perché una relazione sia educativa, è quello del voler ricercare insieme, ciascuno sulle orme del proprio progetto di vita. Possono suonare un controsenso queste affermazioni, definiscono invece assai bene che il cammino da compiere è comune, nella diversità e varietà delle vocazioni. Tutti sono chiamati a crescere come adulti nella fede, ma ognuno secondo un proprio specifico percorso; tutti sono chiamati a svolgere la missione della koinonia nella comunità, eppure ciascuno ha un suo preciso compito. La relazione educativa porta di necessità a questi traguardi, che devono essere assunti come tali.
    Al centro della relazione sta sempre il soggetto che, nella ricerca della sua identità, prefigura il progetto di vita, inscritto nel suo codice genetico spirituale. Chi si fa compagno di viaggio, comprende che in simile percorso occorre un credo: fidare nelle risorse della persona e nella forza interiore della grazia. La relazione educativa si fa così capace di accompagnare alle decisioni personali ed evocare la responsabilità delle scelte. Nessuno deve sostituirsi all’altro, né intromettersi surrettiziamente nelle opzioni. Compito fondamentale dell’educatore è affidarsi alle risorse interiori e alla spinta vitale, che portano il soggetto ad orientarsi tra i vari progetti e compiti. È consegnarsi con fiducia alla libertà dell’individuo che, sostenuto dalla grazia, trova la sua via specifica nella comunità. Non si tratta di facile ottimismo, bensì di realismo salvifico, poiché l’evento cristiano riposa sulla salvezza del Dio di Gesù, che qui e ora libera e fa crescere, sfida e chiama nell’intreccio degli avvenimenti umani. Proprio per questo non si introduce dall’esterno la narrazione della storia di Gesù di Nazareht. Modello di uomo perfetto, Egli interpella nel più profondo di noi stessi, delle nostre differenti identità, a seguirlo come discepoli secondo un peculiare progetto di vita. La spinta interiore alla crescita e al cambiamento si configura così nei tratti concreti della storia di un uomo, che è il volto di Dio, icona per ogni uomo ed emblema per ogni progetto.
    Farsi compagni di viaggio significa dunque incontrarsi con il Signore Gesù, accompagnarsi con Lui perché ci indichi la strada della vita. Lui, via verità e vita, precursore della storia di ciascuno di noi, ci rivolge con autorità la sua parola perché sia luce sui nostri passi e forza sul nostro cammino. La sua parola che ci interpella nel cuore della nostra coscienza sfida a una risposta che dobbiamo dare nella responsabilità. In questa maniera la chiamata di Dio e la risposta di vita si coniugano in un percorso che si fa progetto concreto per l’esistenza di ciascuno di noi. Un vero accompagnamento perciò, sia esso spirituale o educativo, non può che essere vocazionale.

    Conclusione: compagni di viaggio con il Maestro

    Abbiamo riflettuto sull’essere compagni di viaggio. Come è comprensibile, ci siamo accorti che il significato di queste parole va ben oltre il loro suono a slogan. Esse esprimono un modo di pensare l’incontro e di definire uno stile di relazione, che si traducono compiutamente in «accompagnamento». Un termine che riassume su di sé la ricchezza antropologica dell’identità degli interlocutori e la peculiarietà degli atteggiamenti della relazione educativa. Abbiamo colto che l’intrattenersi nell’ascolto porta alla consapevolezza della propria autonomia e della responsabilità personale, come alla enucleazione dell’identità singolare e irripetibile di sé. Ci siamo dati conto che il ricercare la sintonia con l’altro promuove il senso della reciprocità, rende possibile il confronto creativo, conduce all’accoglienza delle identità differenti.
    Così siamo divenuti consapevoli che il comunicare con sé e con gli altri non può che condurci passo dopo passo a scoprire quel progetto di vita che ci è proprio e che scaturisce dal codice genetico, posto da Dio in ciascuno di noi.
    In tale cammino di crescita umana e cristiana ci si può rendere compagni di viaggio, coinvolti a tempo pieno con mente e cuore, nell’ascolto e nel comunicare, nel testimoniare e nell’azione. Si gioca dunque non su delle idee o su sentimenti, ma sull’agire di persone, che impegnano sostanzialmente il loro esistere. In tutto questo guardiamo alla figura di Gesù, come «uomo normativo», maestro di ogni accompagnamento.


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