Pastorale Giovanile

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    Vocazione e itinerari di educazione alla fede



    Giovanni Battista Bosco

    (NPG 1997-04-9)


    Richiamo anzitutto due indicazioni autorevoli sui cammini di fede, gli «itinerari» di PG-PV.
    * Negli Orientamenti pastorali della CEI per gli anni ’90 (ETC), là dove si parla della prima via privilegiata, «educare i giovani al vangelo della carità», viene affermato con rilievo che in ogni Chiesa particolare non deve mancare «un’organica, intelligente e coraggiosa pastorale giovanile»: premessa indispensabile a tal fine è «un preciso progetto educativo»... nel rispetto «dei cammini specifici».
    Il cenno al tema dell’itinerario è più sviluppato da un documento sulla formazione dei catechisti (Uff. Catechistico 91), in cui vengono descritti ben sette itinerari per i diversi gruppi di interlocutori. Lo si potrebbe definire il documento sugli itinerari, visto che vi si scrive: «La proposta dei contenuti della fede nel modo di un cammino che avvicina una meta per tappe progressive, con l’uso di strumenti adeguati, con attenzione alle situazioni, in modo da suscitare la libera adesione di tutta la persona, è esigenza intrinseca alla fede» (p.27 e).
    * Nella recente Nota «Con il dono della carità dentro la storia», la Chiesa in Italia del dopo Palermo rievoca a più riprese e in modo esplicito il tema del cammino di fede e degli itinerari. Ne tratta là dove si parla della PG, «con i giovani per testimoniare la speranza», asserendo che, nell’urgenza di «ripensare la pastorale giovanile» in un progetto globale, occorre sostare sulla formazione «attuata mediante itinerari, differenziati per età e per situazioni esistenziali, impegnativi ed esigenti, ma rispettosi della gradualità... che introducano ad una vitale esperienza di fede».
    Ne parla inoltre in un capitoletto dal titolo significativo «Cammini di formazione». Dopo aver riaffermata la necessità di una «seria formazione alla vita cristiana», aggiunge che «l’educazione alla fede introduce l’uomo passo dopo passo alla pienezza del mistero e si fa itinerario»... con «attenzioni specifiche, perché la proposta non suoni generica, ma colga ciascuno nella propria concreta situazione».
    Sono due orientamenti che scaturiscono dall’esperienza e dal vissuto ecclesiale, ed esprimono un’esigenza sentita a tutti i livelli e in ogni situazione, in particolare nel mondo giovanile. Non ci troviamo quindi di fronte ad un tema per pochi o che riguardi gli esperti, bensì ad una proposta che la Chiesa in Italia segnala autorevolmente come modalità da seguire nell’azione pastorale da parte della comunità.
    Ma interroghiamoci ora direttamente sulla questione degli itinerari di pastorale giovanile vocazionale (PGV). Nel titolo li si contrappone alla sequenza di iniziative, o perlomeno vi si invita ad una evoluzione, passando dalle iniziative ai cammini di fede. E perché mai questo?

    UNA SITUAZIONE PGV CHE FA PROBLEMA

    Voglia di significativo e in qualità

    Oggi la PGV corre il serio pericolo di essere segnata dall’angoscia, o perlomeno dall’ansia, assume comunque spesso un volto nevrotico. Non sappiamo come fare, che linguaggio usare con i giovani, come dire la fede nell’oggi, come agganciare in modo duraturo, che modelli di vita credibili avanzare... La nostra azione pastorale rischia di essere accompagnata dalla continua agitazione dei momenti euforici o dallo stato comatoso delle depressioni, trascinata da una parte all’altra dai continui tentativi.
    Talora pare che si vada alla ricerca costante, anche esasperata, di esperienze coinvolgenti, che però fanno leva sulle emozioni e sull’efficacia del momento. Ci accorgiamo come esperienze quali campi-scuola, grandi convocazioni, weekend, giornate, multimedialità rimangano spesso vissuti isolati, che incidono solo se c’è un prima e un poi. Possiamo pure tentare di perseguire la linea dei vissuti «forti» (da pugno sul tavolo), chiari e decisi, ma così vediamo assottigliarsi le file dei partecipanti ai nostri incontri. E soprattutto rischiamo di scommettere meno sulle certezze, fondate sulle convinzioni, che sulle sicurezze, che tacitano solo ansie e paure nei confronti della vita.
    Ma forse, con tutta questa problematica, più che davanti a una crisi di nervi, siamo di fronte ad uno smacco della coscienza pastorale, che non sa cogliere il mistero dell’iniziativa di Dio e insieme i ritmi di crescita del giovane d’oggi, che non riesce a coniugare il fascino della chiamata con l’impegno graduale della proposta. E tuttavia, in questi tentativi di animazione emerge un’istanza genuina che merita attenzione: la voglia di esperienze significative e in qualità, come vie educative da percorrere con i giovani d’oggi. Ma dove e come collocarle perché diventino costruttive ed efficaci nel cammino di maturazione?

    Volti da riconoscere e da incontrare

    Oggi la PGV si espone a rischio in due direzioni: o di rimanere incollata alle situazioni «fragili» dei giovani, nello sforzo di conoscere il loro mondo e di essere loro vicini, oppure di provocare cortocircuiti con proposte «esigenti», nel desiderio di rispondere agli appelli dell’evangelo. Ci troviamo di fronte a una PGV dell’alternanza tra la troppa pazienza e l’impazienza. Ed allora come risolvere il dilemma? Nell’analisi del mondo dei giovani emerge chiara una domanda educativa: il bisogno di riconoscerli e di incontrarli nella loro realtà.
    Se analizziamo l’universo giovanile, lo si trova molto sbilanciato verso i vissuti affettivo-emotivi: la gioventù odierna è definita laterale, che fatica a far funzionare l’emisfero sinistro del cervello, sede dell’intelligenza logica, assai poco sollecitato dai mass media (L. Ancona). La ricerca Cospes-LDC sull’adolescenza, L’età incompiuta, mette in chiara evidenza tale peso dato all’emotivo. In effetti oggi, sotto la pressante stimolazione dei mass media, nel vissuto giovanile fa breccia il pensiero narrativo e il linguaggio analogico (racconti e metafore), rispetto al pensiero paradigmatico che si esprime in linguaggio logico-formale (ragionamenti e dimostrazioni). È una costatazione questa che diventa sempre più palese e irrefutabile.
    Se tentiamo di leggere i tratti del volto giovanile nella cultura odierna, li si avverte subito come contigui: dalla cultura dell’essere si sta avanzando verso la tirannia dell’apparire. Oggi infatti si investe moltissimo sull’immagine: non per nulla trionfa il narcisismo. Così si amano esposizioni esagerate e soprattutto gratificanti, a scapito del sentimento profondo del sé. La costruzione dell’identità diventa un problema serio e la ricerca di valori autentici una difficoltà. A ragione A. Lowen afferma che «quando la notorietà è più ammirata della dignità e quando il successo è più importante del rispetto, vuol dire che la cultura sopravvaluta l’immagine e il pensiero si fa superficiale». In una cultura simile allora esistere è essere visti, con il danno irreparabile di venire espropriati della propria interiorità e quindi di sottrarre terreno ai valori esistenziali. Una vera azione educativa viene così impedita.
    Se ci poniamo di fronte ad un certo tipo di cultura diffusa nel nostro tempo, diviene irresistibile la tentazione di contrapporre, anche in senso pedagogico oltre che culturale, alternative contrarie a quanto viene rilevato: allora al pensiero debole che frena la mente, si oppone il pensiero forte; ai valori bassi che tarpano le ali e serrano il cuore, i valori alti; alle appartenenze corte che fanno vivere costantemente nel provvisorio e funzionale, i legami lunghi; alla religiosità evanescente che sembra trionfare, l’asserzione ad alta voce dei diritti della religione. Ma forse non ci diamo conto che così facendo tanti giovani ci passano accanto e vanno oltre, se non si rischia addirittura di lasciarci alle spalle dei delusi o degli illusi.
    Alla luce di queste note cogliamo senza indugio una cosa, che non serve rincorrere i giovani o prenderne le distanze, senza incontrarli come persone. Non si tratta infatti semplicemente di assecondare la fame di emozioni o di contrastare il culto dell’immagine, così come non risolvono il problema educativo della maggioranza dei giovani le proposte contro. La questione è altra. In modo chiaro e pressante si impone un’istanza pedagogica di fondo: i giovani sono da riconoscere nella loro situazione personale e nel loro tessuto culturale, ma decisamente ancor più sono da incontrare nelle loro soggettività e voglia di vita piena, se si intende guardare avanti e andare oltre. Hanno bisogno di essere considerati nella loro integralità e nella totalità della loro esperienza: perciò necessitano di interiorità e silenzio, di profondità e solidarietà, di identità e responsabilità; e al contempo di relazioni genuine e di coinvolgimento, di ragioni di vita e di convinzioni, di amicizia e di allegria, di fiducia in sé e nella vita. Ma come far sì che quest’incontro vitale in situazione sia produttivo per la maturazione della persona, nella sua varietà di espressioni e dimensioni?

    Una sfida culturale da non eludere

    Oggi la PGV si trova di fronte a una situazione non facile: la superficialità porta a soluzioni dell’esistenza a base di spots incisivi e slogans facili, di schegge e fotogrammi (la nevrosi dello zapping); la confusione disorienta gli animi, per cui religione o tifoseria, vegetariano o volontario, rock melodico o inseminazione artificiale sono merci dello stesso supermercato, che non presentano grosse differenze; il disorientamento etico crea la mentalità diffusa per cui la trasgressione è norma accettata e l’illegalità una manifestazione di furbizia.
    Eppure, in questo contesto, si avvertono sensibilità nuove che attendono di essere portate a maturazione, specie tra la gioventù. In particolare tre esigenze vive si manifestano come una sfida culturale che non va elusa, e meritano la nostra attenzione.
    * Nel vivere odierno i giovani sono (ci dicono le ricerche) autocentrati e autoreferenti, e perciò nella condizione di avvertire con facilità il vuoto esistenziale, anche perché rifuggono dai grandi sistemi. Di frequente denotano domande di senso, che si scontrano con il clima di disincanto e di indifferenza, e che però trovano strade inconsuete per esprimersi (musica e gergo, esoterismo e nuova religiosità). «Non ho una ragione per togliermi la vita, ma neppure un motivo valido per vivere» è la filigrana dei romanzi di giovani autori come Culicchia in Tutti giù per terra e come Brizzi in Jack Frusciante. Il giovane vive in una cultura che lo sfida sul senso, per cui ciò che sospira sono le «ragioni» di vita. E non si tratta evidentemente e in primo luogo di ragionamenti e spiegazioni, di informazioni e dimostrazioni, bensì di motivazioni che svelino il senso dell’esistenza, di narrazioni che mostrino il significato dell’esperienza umana, insomma che gli si renda «ragione della speranza che è in noi». Non si tratta dunque di illustrare la sintassi della vita, come neppure la pragmatica, bensì la semantica dell’esistenza.
    * I giovani del nostro tempo (e lo constatiamo spesso) stanno imparando a navigare in una società complessa come in un campo dalle mille decisioni, e le scelte si rivelano sempre più difficili. In una sindrome da eccesso di opportunità, rischiano spesso di consumarsi nelle piccole decisioni banali, navigando a vista. Hanno bisogno di qualcuno che sappia valorizzare le loro esperienze di vita, intessendole nella filigrana di un percorso certamente di piccoli passi, ma compiuto nella direzione di scelte esistenziali valide. Solo il recupero dell’ethos della responsabilità può far superare il relativismo delle scelte e lo sfilacciamento del tessuto sociale. Ne è prova il confronto giornalistico tra Scalfari e Montanelli (laici), Reale e Martini (cattolici) sui fondamenti etici della convivenza: questi risultano dissonanti nella loro fondazione tra i due schieramenti, ma identici nell’esigenza di produrre solidarietà e responsabilità sociale.
    Alla collettività, che vuol resistere alle intemperie della degenerazione sociale, serve una massiccia dose di etica che faccia convergere passioni e interessi. Il giovane avverte più di tutti il vuoto di riferimenti morali e rincorre chi, sia pure in modo vile o ignobile, riempie il suo impeto etico, che gli faccia vincere in qualche modo la disgregazione personale. La sua passione per l’autenticità e la sincerità è una via percorribile nella scoperta di riferimenti etici che facciano da guida nelle decisioni e nelle scelte.
    * La cultura odierna, intrisa di realismo-pragmatismo, incolla i giovani al loro presente. Essi vivono il sociale nell’orizzonte vicino delle relazioni corte e rifuggono quasi istintivamente dalle implicanze funzionali e dai sistemi istituzionali. La loro sensibilità ricerca, come una calamita, il rapporto emozionale e vitale. La fame di relazione vicina è sintomo e risposta alla solitudine di cui soffrono. Questo impeto del desiderio si conclude spesso nel legame dell’amicizia, valore piuttosto sconosciuto nella cultura postmoderna, ma che i giovani stanno invece riattualizzando. In cambio, la relazione fondata sul compito (come dovere, come ministero) incontra le loro diffidenze, poiché viene giudicata formale o funzionale. Così di fronte alla relazione che vuol andare oltre (metacomunicazione), che vuol raggiungere un esito prestabilito, i giovani si mostrano sospettosi, potendosi celare in essa voglia di persuasione occulta, oppure anche temono che ci si intrometta nel regno sacro della propria libertà. La loro passione è l’incontro vitale, ossia la relazione basata sul rapporto vicino che suscita emozioni e coinvolge nei sentimenti: qui si sentono implicati e partecipi. Il focus della loro attenzione si concentra quindi più sul vissuto del cammino che stanno facendo che sulla meta da raggiungere. Anche per questo la retorica torna di moda: il discorso che vale è quello convincente, autentico, personale, più di quello veritativo, razionale, sistematico. Il vissuto ha la meglio sulle formulazioni contenutistiche.
    Ma noi educatori ci interroghiamo, e giustamente: è possibile che il valore della razionalità possa essere sottaciuto? è auspicabile che il rapporto istituzionale diventi il grande assente? non deve essere recuperato l’orizzonte lungo, se si vuol parlare oggi correttamente di solidarietà? rimane valida la proposta di un progetto di vita che duri nel tempo? Come valorizzare questa immersione nel vissuto e la voglia di esperienza?
    Con quest’analisi, ci troviamo di fronte una serie di istanze: si chiamano ricerca di senso e sensibilità etiche, esigenza di interiorità e peso del sentimento, bisogno di ragioni di vita e di relazioni genuine. In più occorre trovare un punto di incontro che trasformi in evento educativo la voglia di significativo e in qualità, i volti da riconoscere e incontrare, la sfida culturale che apre a nuovi orizzonti. Non possiamo lasciare queste esigenze senza risposta.
    Una metodologia che rispetta le situazioni di vita, i ritmi di crescita, le progressioni dello sviluppo, la forza della proposta, la maturazione verso i valori, l’incontro vitale e solidale, ha un nome: itinerario educativo. Non tutto si esaurisce in esso, anzi questo, come vedremo, esige delle travi portanti. Ma senza dubbio l’itinerario appare oggi la risposta dinamica alle richieste educative e formative dei giovani, che altrimenti rischiano la condanna ai frammenti di vita, la schiavitù dell’episodico e la tirannia dell’attimo fuggente.
    Ma come si deve configurare l’itinerario per rispondere alla domanda educativa della gioventù?

    ITINERARIO EDUCATIVO: UN MOSAICO DA COSTRUIRE

    Ormai siamo tutti convinti che l’esistenza nostra porta in sé il codice genetico del proprio progetto di vita. E se da una parte è oltremodo indispensabile riconoscere questo codice avvolto nel mistero di Dio, altrettanto decisivo è assumere la propria responsabilità di fronte al compito della vita, che nella società odierna si delinea sempre più come un progetto da edificare con le proprie mani, nella valorizzazione della soggettività del protagonista. In questa prospettiva dinamica e vocazionale si colloca l’itinerario educativo con la sua tipica configurazione. Per illustrarne le travi portanti ricorriamo a un’immagine, il mosaico. Produrre un mosaico è come costruire le basi di un itinerario.

    Le tessere: rivalutazione del quotidiano

    Senza le tessere, e tutte le tessere necessarie, non si riesce a comporre un mosaico. Così senza i gesti dell’esistenza di ogni giorno non si fa itinerario. Anzi, l’itinerario si gioca tutto sull’esperienza quotidiana: ad essa si riferisce, con essa si confronta, in essa si impasta. Non si tratta perciò di mettere insieme le belle parentesi dell’esistenza, bensì di assumere tutto il vissuto quotidiano. Il quale comprende senza dubbio aree d’azione come studio, lavoro, relazioni, famiglia, gruppo, parrocchia..., ma non meno è luogo del vissuto feriale e festivo, ordinario e insolito, individuale e sociale, emotivo e razionale. Quotidiano è anche tempo che si snoda nel presente, per cui ogni evento ha il suo peso e la sua incidenza, ma si prolunga pure nella memoria del passato come nel futuro che influenzano il presente. In particolare per noi, quotidiano è sorgente di temi generatori: sono gli eventi dell’esistenza e gli interrogativi della vita. Nel quotidiano si sviluppa la vita come luogo di incontro, spazio di crescita, gioco da giocare, avventura da sfidare, dono da impegnare, talento da trafficare, sogno da realizzare. Il vissuto è ormai considerato centrale dalla cultura postmoderna e dalla nuova razionalità, le quali sostano in modo privilegiato sul particolare e sul presente per leggerne la pregnanza universale e storica. La cultura odierna non è pensabile o spiegabile senza dar valore all’esperienza.
    Anche i nostri Vescovi ne riconoscono il peso. «Tutta l’esperienza giovanile» deve essere evangelizzata, scrivono nell’ETC. È il quotidiano come trama essenziale dell’esistenza, che deve essere assunto, affinché la fede possa venire inculturata e la cultura evangelizzata. La vita quotidiana è il luogo delle scelte e delle elusioni, dei silenzi e della parola, della lotta per la crescita e delle rassegnazioni per le sconfitte; è talvolta una banalità da sopportare, un’euforia da assaporare, una seccatura da evitare, una fatica per crescere, un evento da vivere... Già lo sappiamo: non riusciremo mai a chiudere i conti con la vita quotidiana; sarà sempre un qualcosa che solleva punti interrogativi o esclamativi. Essa rimane sempre un mistero da indagare. Nella vita quotidiana si fa esperienza di Dio: in essa si manifesta la sua presenza, si avverte la sua azione, Lo si incontra, pur coscienti che Lui ne è sempre al di là. A ciascuno di noi spetta riconoscere l’azione di Dio nella forza simbolica degli avvenimenti, rivelatrice della realtà invisibile. L’esistenza cristiana è infatti radicata nella consapevolezza di essere immersi nell’amore che Dio ha verso di noi: l’evento dell’incarnazione è illuminante. Perciò nel vivere di ogni giorno si sviluppa la nostra vita teologale, che trasforma l’esperienza di vita in esperienza evangelica. Non per nulla i Vescovi sollecitano i credenti a «maturare una spiritualità incarnata nella concretezza della vita quotidiana e della storia».

    Il disegno: l’intenzionalità da esprimere

    Il disegno di un mosaico manifesta le intenzioni dell’autore, ossia che cosa intende raffigurare. Così nel sapere pedagogico odierno, l’intenzionalità ha un grosso peso perché prefigura prospettive e progetti cui dare vita: essa rappresenta uno degli snodi educativi più decisivi.
    E se è vero che una qualsiasi azione umana non può essere che intenzionale, cosciente o ignara che sia, quella che tende consapevolmente alla crescita è senza dubbio pedagogica, poiché propone e progetta la maturazione dell’uomo. L’intenzionalità avvertita e progettata qualifica l’agire dell’uomo, e ancor più quello dell’educatore e del pastore.
    Ma che cosa dice e che comporta questa intenzionalità nell’itinerario che abbiamo qualificato come educativo, e quindi contrassegnato dalla responsabilità progettuale?
    Anzitutto comporta il coinvolgimento di un «chi», investito del compito intenzionale. È un chi che compie il cammino di fede: un qualcuno, non un qualcosa; uno chiamato per nome, un volto identificabile e riconoscibile nella sua dignità e peculiarità.
    Oggi i giovani sono più che mai sensibili alla propria soggettività, pur immersa nella palese ambiguità di poter sfociare nell’individualismo o nel narcisismo. La cultura odierna la esalta, magari sino all’esasperazione. E tuttavia essa dice un valore: ossia che ciascuno deve essere considerato nella sua singolarità e quale protagonista della e nella sua vita. Di cittadinanza attiva e di soggettività sociale si parla, e a ragione, a livello politico, interpretando una diffusa sensibilità culturale. Anche la Chiesa incoraggia i laici cristiani a sentirsi soggetti e protagonisti della propria vita cristiana e della nuova evangelizzazione.
    Nella costruzione dell’itinerario occorre perciò avvertire con forza questa soggettività dei protagonisti. Essa si esprime in particolare in una esigenza forte di costruire la propria identità. È un tema decisivo oggi, dal momento che viviamo in un contesto di identità deboli o diffuse, di identità multiple, mentre divengono urgenti le identità dinamiche che sappiano correlare conformità e differenze. In questo campo il rischio grosso per i giovani è oggi quello di percorrere la strada del sincretismo o dell’alternanza: ossia da un lato affastellando tutto in un insieme accumulato di esperienze di ogni genere, o dall’altro passando in modo schizofrenico da un’offerta all’altra a seconda della situazione. Diventa allora indispensabile per ciascun giovane la capacità di mediare o di integrare le differenti possibilità all’interno di una indentità che sa pronunciare in consapevolezza il suo io. L’identità rimane senz’altro una coscienza interiore del suo divenire che sa attingere alla memoria e sa proiettarsi in avanti, ma è di certo un io che, pur immerso nella cultura del singolare, si apre alla cultura del plurale, al noi, senza perdersi, anzi in profonda sinergia con gli altri. Se ciò non avviene, è difficile sostenere l’ethos della vita; e l’etico, quale istanza del bene per tutti e per ciascuno, degenera in etnico, fonte di contrapposizione e persino di negazione dell’altro. L’identità dei protagonisti viene comunque messa in gioco nell’itinerario e assume un ruolo centrale.
    In seconda battuta, intenzionalità rimanda alla meta da scegliere. È facile oggi lasciarsi scegliere e condurre, e tuttavia non è venuto meno il senso della progettualità, anche se di piccolo cabotaggio. Di progetti infatti si discute sovente a tutti i livelli pubblici, è una necessità. Qui però ci si vuol soffermare sulle opzioni di fondo che guidano i progetti di vita. Si tratta di un’intenzionalità che viene costituita e sostenuta da scelte fondamentali. Non ci nascondiamo la dissonanza stridente dal momento che oggi i giovani fanno fatica a operare scelte per la vita e decisioni durature non si danno con facilità nella cultura odierna. È questo un problema educativo cocente cui dare risposta: come comporre le esigenze di scelte esistenziali per costruire un progetto di vita e la fatica dei giovani a impegnarsi in esse in modo continuato?
    L’itinerario ha la pretesa di essere una soluzione, o perlomeno avanza una proposta valida. Itinerario dice progressione, invita alla gradualità; è attento ai processi di crescita e alle dinamiche della vita; in esso intenzionalità e scelte non sono sottoposte alla drasticità delle sole mete finali, ma vengono misurate e calibrate sulle tappe progressive e gli obiettivi intermedi, rendendo percorribile il cammino a piccoli passi. Il grande compito dell’educatore che opera con mentalità da itinerario consiste essenzialmente nell’accompagnare il giovane a saper decidere e scegliere passo dopo passo, aiutando a tenere alto lo sguardo verso l’orizzonte, la maturità umana e cristiana. Si coniugano così le esigenze di non rimanere invischiati nelle seduzioni del momento e insieme di non volare alto sopra le teste delle persone, condannandole ad osservare il traguardo da spettatori.
    Un tale riconoscimento di soggettività e un simile compito di accompagnamento non possono che essere letti e agiti in reciprocità. La quale diffida dell’egualitarismo dei modi (giovanilismo) e non accetta i distacchi educativi (autoritarismo), ma pone in reciproca relazione identità differenti che si arricchiscono della propria umanità (relazione educativa). Soprattutto nella prospettiva della fede esistono esperienze dissimili che, per essere educative, devono confrontarsi su un testo unico: l’evangelo. Tutti sono chiamati a sedersi alla mensa comune, a sentirsi discepoli dell’unico Maestro. Compagni di viaggio, ci dirigiamo tutti verso una meta a cui siamo invitati. Per questo l’intenzionalità del cammino di fede non deve e non può essere misurata semplicemente sull’esperienza e saggezza degli interlocutori. Essa piuttosto è giocata con decisione sulla sapienza di Colui che è la via, la verità e la vita. Le scelte vengono fatte e le decisioni sono prese sulla parola di Gesù, il Signore della vita, che diviene per ciascuno l’Interlocutore primo e ultimo.

    Il mosaico in contesto: comunità come luogo di riferimento

    Il mosaico non viene applicato sul nulla; di solito è collocato in un un’opera d’arte, comunque in un contesto architettonico. Lo sfondo del mosaico non è indifferente, anzi ne esalta o ne mortifica il valore e il senso. Lo stesso si può dire dell’itinerario. Esso non può sussistere isolato da un contesto, non si sostiene senza una comunità che se ne fa garante. Così manca di coordinate, di riferimenti essenziali, se non può rifarsi al progetto di comunità, che ne rappresenta il quadro di riferimento dentro cui l’itinerario si muove in modo dinamico.
    Conditio sine qua non per poter operare secondo itinerari è dunque la comunità pastorale, con i suoi ministeri e carismi, che valorizza al massimo. Lo è non semplicemente perché verrebbe a mancare un tessuto sociale e un centro d’azione; assai più lo è invece perché essa è il soggetto che fa esperienza di fede: configura il volto misterico dei credenti, esprime convergenza tra annuncio-celebrazione-diaconia, si fa comunità missionaria sul territorio, vive la comunione con Dio nella fraternità... Senza questo humus di base, l’itinerario diventa un gioco solitario, è come un fiore senza un giardino attorno che ne garantisce la cura e favorisce la crescita. La comunità rimane il soggetto protagonista che offre le coordinate essenziali: indica la finalità e ne segnala le mete, fa monitoraggi sul terreno per renderlo più fertile, accosta la pluralità dei soggetti per garantire il cammino comune, identifica le dimensioni fondamentali da sviluppare, accentua le priorità su cui spendersi, ricerca le risorse e i mezzi con cui perseguire gli intenti, verifica il cammino che si sta compiendo... In una parola fa progetto: non solo lo elabora, ma lo scrive nella vita e lo incide sul vissuto.
    Un itinerario che vuol raggiungere pienamente i suoi scopi si muove sulla piattaforma del progetto di una comunità. E se il progetto rappresenta le coordinate lungo cui si muove la comunità per svolgere una pastorale organica e adeguata, l’itinerario ne riprende le istanze fondamentali e le traduce in un cammino dinamico, percorribile da singoli e gruppi per maturare come adulti nella fede. Per questo le comunità cristiane debbono garantire l’impegno «a offrire alle nuove generazioni la possibilità di un incontro personale con Cristo, nell’ambito di una comunità fraterna, dove ciascuno sia aiutato a sviluppare la propria identità, a scoprire e seguire la propria vocazione». E questo può essere svolto da una comunità che opera con mentalità da itinerario.

    L’ispirazione artistica: una spiritualità che vivifica

    Per risultare un’opera d’arte, il mosaico si nutre di un’ispirazione. Anzi, quanto più la passione artistica è viva, tanto più il mosaico entra nella storia dell’arte. Anche l’itinerario, che si sostiene su semplici fatti tecnici, non ha futuro: necessita di un’ispirazione, di un’anima.
    A ragione i nostri Vescovi nel dopo Palermo, rispondendo agli interrogativi su «come dire oggi nella storia il vangelo della carità? quali forze e strategie mettere in campo?», scrivono nella Nota: «La prima risorsa e la più necessaria sono uomini e donne nuovi, immersi nel mistero di Dio e inseriti nella società, santi e santificatori»; ed ancora: «Non basta aggiornare i programmi pastorali, i linguaggi e gli strumenti della comunicazione... Occorre una fioritura di santità».
    Consapevoli che «la società moderna trasforma le virtù in prestazioni e gli ideali in servizi» (Alberoni), rimaniamo sempre più convinti della necessità di un «supplemento d’anima», che non si ferma ai metodi, anche i più raffinati. Anzi, appunto perché tali metodi e strategie trovino piena efficacia, dovranno tendere ad essere sempre meglio espressione viva e mediazione educativa di spiritualità. Quella spiritualità proposta e vissuta, che fa crescere dal di dentro e si incarna nel quotidiano; che non è «né uno spiritualismo intimista, né un attivismo sociale, ma sintesi vitale»), «la sintesi e il cuore» della vita cristiana (Traccia 94, 27).
    Il Papa attuale, rivolgendo l’appello a fare nuova l’evangelizzazione, indica tre piste di rinnovamento: l’ardore, il metodo e le espressioni. Ma senza dubbio, ogni autentico rinnovamento della metodologia e delle espressioni della pastorale scaturisce solo e sempre da quella radice vivificante che è l’ardore, ossia lo spirito che l’anima, la spiritualità.
    * L’itinerario perciò deve essere innestato su questa radice vivificante, deve nutrirsi e crescere attraverso di essa. Se non procede così, resta destinato alla sterilità.
    È la spiritualità che vivifica l’itinerario, lo fa crescere dall’interno: essa è come un’ispirazione artistica che infonde slancio ed energia, una passione per l’opera da compiere che accompagna e rassicura lungo il cammino, un orizzonte che affascina e attrae.
    L’itinerario infatti trova la ragione di sé nella spiritualità, che motiva e ispira, e ne è la sua fonte di vitalità. Nel suo svolgersi progressivo, esso riceve e produce vita, perché accompagnato dalla spiritualità, che ne lievita i passi e le tappe, sostiene nel progredire. Come esito, l’itinerario persegue la maturità in Cristo, l’adulto nella fede, la pienezza della carità, ossia la santità di vita: sua meta e traguardo è la spiritualità in pienezza. La spiritualità è per l’itinerario fonte di energia, compagna di viaggio e traguardo di vita.
    L’itinerario perciò svolge un compito fondamentale, anzi insostituibile nell’educazione alla fede: attraverso tappe progressive, la spiritualità si incarna nella vita quotidiana, si misura sulle disposizioni alla crescita, si incultura nella situazione concreta. Insomma, itinerario e spiritualità si ricercano e si esigono a vicenda per il raggiungimento della loro efficacia.
    * Ma richiamarsi alla spiritualità, come fondamento dell’itinerario, significa in particolare evocare il Grande Artista che è all’opera. In un primo approccio, spiritualità dice uno stile di vita credente, ma rimanda con forza all’incontro di Dio con il giovane perché questi viva in comunione. Un tale incontro avviene avvolto nel mistero, che si manifesta negli eventi umani. Esso appare come un camminare secondo lo Spirito, lasciandosi guidare da Lui in docilità e in audacia; è seguire Gesù, modello e amico, scegliendo con Lui e come Lui; è andare verso il Padre, come figli grati e obbedienti, assumendo la vita come vocazione. Il grande Artista è Colui che prende l’iniziativa dell’amore, che chiama per nome, che ci riconosce nella singolarità. È l’efficace Artefice che forgia i cuori, ne opera la conversione, ne muove la libertà. È Chi sostiene nel cambiamento, chi accompagna e guida, il terapeuta dell’esistenza.
    * E infine raccordare itinerario e spiritualità significa impegnarsi con serietà nelle mediazioni culturali e credere nella scelta educativa. Il Papa attuale rafforza questa necessità, quando scrive che «il fatto culturale primo e fondamentale è l’uomo spiritualmente maturo, cioè l’uomo pienamente educato... Il compito primario ed essenziale della cultura... è l’educazione. Questa consiste nel fatto che l’uomo diventi sempre più uomo, che possa essere di più... che sappia sempre più pienamente essere uomo» (Unesco 80). Il cammino di crescita nella fede infatti «si situa all’interno del processo di formazione umana, consapevole delle deficienze, ma anche ottimista circa la progressiva maturazione, nella convinzione che la parola del Vangelo deve essere seminata nella realtà del vivere quotidiano...; la fede deve divenire elemento unificante e illuminante della personalità» (JP 15). Si tratta perciò di tener ben presente la finalità prospettata dal progetto formativo della Chiesa in Italia, che richiede di «educare al pensiero di Cristo, a vedere la storia come Lui, a giudicare la vita come Lui, a scegliere e ad amare come Lui, a sperare come insegna Lui, a vivere in Lui la comunione» (RdC 38). «Gli itinerari, dicono i Vescovi, non accettino riduzioni fideistiche o devozionistiche, ma si misurino con le esigenze della cultura; non offrano solo modi di vivere, ma ragioni di vita; sappiano infondere la passione per il vero e il bene, conducano a scelte coscienti e responsabili» (Nota 96 40).
    L’educatore deve perciò rendersi interlocutore visibile dell’Invisibile (testimone trasparente), impegnarsi nella mediazione di proposte culturali ispirate all’evangelo (maestro convinto), giocare la propria persona nella relazione educativa (comunicatore autentico), farsi compagno di viaggio nell’avventura dell’esistenza (accompagnatore autorevole). La mediazione pedagogica è senza dubbio un compito secolare, ma l’impegno educativo, vissuto con cuore apostolico e carità pastorale, è decisamente via alla santità per tutti gli interlocutori.

    PER TRACCIARE UN ITINERARIO: I PUNTI FERMI

    Se ci rappresentiamo quanto abbiamo detto sino ad ora sui fondamenti dell’itinerario come una bella e ampia valle, con prati e strade, cosparsa di villette e di case, attraversata da torrenti, con macchie e laghetti qua e là, e così via, possiamo considerare l’itinerario concreto come un sentiero da scegliere per giungere ad una meta stabilita.
    Naturalmente i percorsi possono essere molti (lungo diverse traiettorie) e differenti (per la variazione di difficoltà). E tuttavia posseggono tutti dei riferimenti comuni: sono i punti fermi, che configurano l’itinerario. Ne esaminiamo i più rilevanti.

    L’attenzione all’età e al gruppo

    La prima attenzione da avere per formulare un itinerario è quella di considerare il gruppo nella sua realtà storica e culturale, sociale e di persone, di leggere in profondità il suo vissuto estistenziale e quotidiano, di diversificare le caratteristiche dei soggetti secondo le fasi di sviluppo, di tenere sullo sfondo le particolarità dei dinamismi sociali odierni.
    Evidentemente non interessa al nostro caso una ricognizione psicologica o sociologica o altro, condotta in modo asettico, qualora foss’anche possibile. E neppure una analisi che sia completa sotto tutte le angolature culturali e gli approcci scientifici. Ciò che vale e serve per l’itinerario è rilevare con coraggio e leggere in profondità, alla luce degli elementi di analisi disponibili, le esigenze e le provocazioni che gli adolescenti, i giovani, il gruppo pongono all’intervento educativo e all’azione pastorale. Nel prefigurare l’itinerario adatto, l’educatore deve saper misurare i suoi interventi sulle sfide concrete degli interlocutori. Non si tratta dunque di imporre le finalità predeterminate sui soggetti, bensì di accoglierne le provocazioni, collocandole in una prospettiva pastorale e inserendole in un cammino di maturazione. La nostra risulta essere così una lettura eminentemente educativo-pastorale, fatta perciò con lo sguardo della ragione, del cuore e della fede insieme.

    La dinamica della vita in Cristo

    Nella sua configurazione concreta, l’itinerario appare come un insieme di elementi di contenuto, di scansioni e di metodo. Ma esso non gioca il suo peso educativo sulle condizioni tecniche, anche se indispensabili. Il nesso interno che collega i vari elementi e dà loro senso, non può essere assolutamente dimenticato o sottovalutato. Anzi, il dinamismo della vita in Cristo deve trovare la sua piena collocazione.
    L’Incarnazione ne è il principio centrale e vitale: l’evento Gesù, il Signore della vita, volto e parola di Dio per l’uomo si fa criterio di azione pastorale. In Lui scopriamo il significato e il valore dell’umanità dell’uomo, per cui l’Incarnazione diviene criterio con cui discernere e valutare il nostro essere e agire.
    È decisivo perciò non ragionare con categorie strumentali, come se il rapporto tra il mistero di Dio e Gesù di Nazareth fosse collocabile sul piano di una fotografia del suo volto o di una registrazione della sua parola. In Gesù, invece, Dio ha davvero assunto un volto umano e si è fatto viva voce; si è reso vicino, prossimo, per incontrare e salvare l’uomo. Così il Cristo, oltre che rivelazione del volto di Dio, è in Gesù anche la rivelazione più piena dell’uomo.
    Egli rappresenta il caso unico e irripetibile di un’umanità tanto realizzata in pienezza da essere il supremo modello dell’uomo. È Colui che realizza tutte le potenzialità umane: è l’uomo nuovo, che rende ragione della novità di vita proposta a chi lo segue. «Chi segue Cristo, l’uomo perfetto, si fa lui pure più uomo».
    Un tale dinamismo della vita umana in Cristo Gesù, uomo e Dio, viene sviluppato nell’itinerario in un percorso teologale scandito in quattro momenti (aree), che delineano i passaggi della crescita del giovane verso la pienezza della sua umanità e della fede.
    * Il primo momento si concentra sul valore della vita come dono da accogliere. Con l’Incarnazione l’umanità dell’uomo è il luogo in cui Dio si fa presente come Colui che salva, riscattando dal male e riempiendo di vita. Il tessuto quotidiano dell’esistenza diviene lo spazio degli eventi salvifici. Senza dubbio il vissuto dell’esperienza come tale si colloca nel solco dell’ambiguità, ma l’impulso alla crescita, alla pienezza di vita che costatiamo, rivela la tensione che ogni uomo porta in sé: la vita è un dono da sviluppare finché giunga al suo compimento. Questo slancio verso la maturità piena della propria umanità manifesta con chiarezza che l’uomo è chiamato ad andare oltre: così si apre all’invocazione che supera l’umano e lo trascende. L’uomo è provocato a spalancare le braccia in un gesto di riconoscimento del dono della vita e di apertura al suo Creatore (1° area: verso la maturità dell’esperienza religiosa).
    * Il servizio educativo alla fede però non termina a questo primo momento: esso intende far incontrare il giovane con il Signore della vita. L’invocazione si fa attesa di Qualcuno. In questo senso gli accadimenti della vita rappresentano una ricorrente sfida esistenziale per il giovane e gli appelli dell’evangelo trovano il loro sbocco nell’ascolto del Signore che parla. Su questa piattaforma avviene l’incontro: Gesù, il Signore della vita, ricerca e interroga il giovane, e questi si apre all’incontro nella disponibilità e nell’accoglimento. Quest’incontro con Gesù è differente dagli altri incontri che scorrono lungo la nostra giornata. Si tratta di un incontro del tutto singolare in cui il Dio di Gesù viene sperimentato come colui che salva, che dona la vita in pienezza. Incontrarsi con Lui significa allora accogliere il mistero di Dio che sconvolge la nostra vita, e scegliere che Gesù Cristo sia il primo e l’ultimo, l’alfa e l’omega, che conduce la nostra esistenza. La vita si apre così all’inedito della grazia, e la forza di Cristo irrompe nel cuore umano (2° area: verso l’incontro con Cristo).
    * Il terzo momento del dinamismo della vita in Cristo ci immerge nel vissuto ecclesiale. L’incontro con Gesù, il Salvatore, espone sempre a un respiro di Chiesa, corpo mistico di Cristo e sacramento universale di salvezza. La sequenza ininterrotta di testimoni del Risorto, che incontriamo lungo la storia, manifesta con forza la nuova presenza del Signore tra noi nell’efficacia del segno della comunione ecclesiale. In compagnia di tutti i credenti, il giovane può essere accompagnato nella crescita della fede. Anche lui si dispone così, nella comunità di fede, ad essere lievito di vita per ogni uomo e seme di speranza per tutta l’umanità. La sua vita teologale, di fede speranza e carità, prende forma nella comunità, contribuendo alla testimonianza viva della esistenza nuova in Cristo, morto e risorto (3° area: verso un’intensa esperienza ecclesiale).
    * L’ultimo passo di questo percorso teologale ci porta al traguardo. Abbiamo ammirato la vita come dono, che viene perfezionata e arricchita nell’incontro con Cristo, e condivisa e testimoniata in comunione nella Chiesa. Essa però è pure impegno. La vita per essere pienamente tale, deve essere donata in oblatività per gli altri. Cristo, inviato del Padre, si spende totalmente per la missione affidatagli. La Chiesa non vive per se stessa, ma per la salvezza dell’umanità: è costitutivamente missionaria. Questo «per» ci introduce nell’esito finale cui è chiamato ogni credente: impegnare la sua vita per il Regno, che è Regno di giustizia, di amore e di pace. Lo scopo è uguale per tutti i cristiani: condividere con passione la causa di Gesù, nelle più differenti e varie vie vocazionali. Il tutto sta a riconoscerle nel loro impegno di vita e di felicità a servizio dell’uomo e di ogni uomo; altresì ad accettare che sul proprio progetto Dio detiene la signoria, protagonista con l’uomo dell’esito della sua esistenza personale e dei destini dell’umanità. Il ciclo della vita cristiana si completa, impegnando i credenti nella missione di servizio al Regno di Dio (4° area: verso un impegno vocazionale per il Regno).
    Come si può ben notare, lo sviluppo delle aree, non è settoriale e meccanico, bensì dinamico: le aree si richiamano e si connettono a vicenda. La parabola della espansione della vita nell’itinerario prospettato passa dalla vita umana che si apre al trascendente, alla vita trasformata in Cristo, alla vita celebrata nella Chiesa, e infine alla vita di impegno per il Regno. È come un circolo virtuoso in cui la nostra esistenza viene assunta e trasformata, purificata e potenziata, e riconsegnata nella gioia e nella speranza della sua pienezza. In questo ciclo si verifica l’evento straordinario, accaduto a Cana: l’acqua della nostra vita quotidiana, per l’intervento misterioso di Gesù, il Signore della vita, ci viene restituita in vino fragrante, che allieta la mensa degli uomini e porta la felicità vera a tutti. Il racconto evangelico mostra assai bene la dinamica della vita in Cristo, individuato nell’acqua trasformata in vino, che dà un senso nuovo al convivio di Cana. L’itinerario quindi gioca sulla vita che viene trasfigurata dall’intervento del Signore e impegnata per la felicità di tutti i commensali.
    La progressione dell’itinerario proposto conduce ad un esito nitido: la vita come vocazione e missione, impegnata come Gesù per la costruzione del Regno. Ma se è vero che al culmine del percorso sta la vocazione, è altrettanto chiaro che la dimensione vocazionale attraversa l’itinerario e le sue aree. Non siamo di fronte ad uno sviluppo della vita che ha solo come sbocco la proposta vocazionale, bensì ci troviamo davanti ad una crescente attenzione vocazionale in ogni momento del cammino di fede. Il senso della vocazione, che il Papa chiama «cultura della vocazione», può essere individuato e collocato infatti lungo tutto l’itinerario educativo. Risulta così il seguente sviluppo: vocazione alla vita, come chiamata alla maturità umana e religiosa (1°area); vocazione cristiana, come appello alla vita in Cristo (2°area); vocazione nella Chiesa, come comunione di vita e di missione (3°area); vocazione per il Regno di Dio, come chiamata a impegnarsi nella specificità dei carismi e dei ministeri, e nelle diverse forme di servizio (4°area).
    Questo sviluppo lungo le diverse aree, caratteristico del dinamismo dell’itinerario, non conta solo per il tema vocazionale, ma vale anche per tutti i temi generatori, che fanno parte dell’esperienza giovanile, senza esclusione. Una tematica religiosa o secolare, personale o comunitaria, di impegno o vocazionale trova il suo completo compimento nel dinamismo circolare dell’itinerario. Se si vuole perciò garantire l’esito della maturità nella fede, occorre che i singoli aspetti della vita vengano svolti in modo unitario e convergente, e quindi non in sequenze o giustapposizioni, come se l’esperienza cristiana fosse separata tra l’umano e il divino, tra il personale e il comunitario. L’itinerario ben progettato mette in relazione e collega in nessi significativi i vari aspetti, non schematizza in compartimenti stagni, non separa i diversi elementi: è dinamico e organico, partecipando ai processi e percorsi della vita in Cristo.

    Le tappe progressive

    I percorsi educativi, se vogliono condurre a una meta, devono essere corrispondenti a quanto ci si propone. Se le prospettive sono minime o di basso profilo, l’itinerario procede a raso terra. Se le finalità volano alto, corrono il pericolo di non sfiorare neppure gli interessati. Le mete da fissare devono riguardare le cose che contano per la vita e la fede, e interloquire con l’uomo d’oggi. Essere giovani credenti oggi non è come dieci anni fa; vivere la fede in un contesto di postmodernità richiede evidenze culturali tipiche in cui collocarla... La visione di uomo e di credente, di società e di Chiesa, di liberazione e di salvezza, ecc. determina il traguardo a cui si intende giungere. Di certo non si tratta di predisporre un trattato, ma piuttosto di avere coscienza che tappe (fasi di maturazione), movimenti (espressi con «da...a»), obiettivi (traguardi pratici a cui condurre) comportano precise scelte evangeliche e teologali, antropologiche e culturali, educative e pastorali. Nell’educazione e nell’educazione alla fede non vi è nulla di più deleterio che abbandonare all’improvvisazione quanto deve essere assunto con lucidità e responsabilità, dal momento che c’è di mezzo la vita di persone concrete. Si tratta allora e in primo luogo di indagare sul perché della scelta di certi obiettivi, sul motivo per cui si stabiliscono quelle tappe e quei particolari movimenti. L’intuizione del momento ci aiuta, ma la riflessione rende coscienti e responsabili. Si tratta pure di configurare, in maniera pratica e praticabile, questi elementi di metodo cui abbiamo fatto cenno: quanto più sono operativi, tanto più saranno efficaci; ma, appunto perché agevoli all’azione, devono essere assolutamente sottratti al pragmatismo, o peggio a una sorta di comportamentismo religioso. Appunto perché elementi di metodo, non possono trascurare le loro ragioni giustificative, anzi devono risultare espressione del tessuto culturale ed educativo in cui si radicano.
    Tappe, movimenti, obiettivi sono i mezzi operativi con cui rendiamo traducibili grandi idealità e mete alte in possibili cammini, percorribili da giovani concreti. Per questo meritano tutta l’attenzione del caso.

    Nodi di metodo

    Le istanze di metodo nell’itinerario possono essere numerose, ma talune sono determinanti, infondono coerenza all’insieme ed assumono la funzione di snodi nell’azione educativa: esse sono gli atteggiamenti, le esperienze, la relazione educativa.
    * Degli atteggiamenti ricorderò solo la loro centralità in vista dell’efficacia educativa. Sappiamo quanto sia facile per chi educa rischiare di sviluppare le dimensioni fondamentali della persona in modo isolato, percorrere strade evolutive differenti e anche dissonanti, con esiti schizofrenici. Il mondo cognitivo, quello affettivo e l’attivo; la mente, il cuore e l’agire sono immagini di tratti essenziali della personalità integrale, rappresentano i momenti forti in cui ci si esprime nell’umano a tal punto che la persona non si può dire veramente cresciuta se questi tre mondi non giungono a maturazione armonica.
    Ed allora, come procedere a livello metodologico per giungere a questo traguardo? Occorre insieme parlare all’intelligenza, toccare il cuore, provocare l’azione. Gli interventi educativi vengono spesso schematizzati: c’è chi insiste sulle conoscenze, sui contenuti da apprendere; chi gioca tutto sui vissuti, sul coinvolgimento, sulla vicinanza; chi persegue il risultato insistendo su norme e comportamenti da mettere in atto, privilegiando l’impegno etico.
    La pedagogia e la pastorale fanno oggi una scelta di centralità e priorità: educare gli atteggiamenti. Sono delle «disposizioni a», delle «disponibilità ad entrare in relazione con», espressioni di una strutturazione interna della personalità che trova compinento nell’operatività. Sono frutto dell’identità personale e del suo sistema di relazioni. L’accento viene posto sulla scelta di giocare in un tutt’uno la tensione relazionale, valoriale e operativa della personalità umana. Asserire che al centro sta l’atteggiamento, significa confermare la scommessa che l’educazione si costruisce dal di dentro (provoca vissuti e ragioni di vita), si sviluppa nella relazione (sollecita al coinvolgimento del noi), trova manifestazione nell’esperienza sociale (si incarna nella cultura), e si spinge oltre, verso i valori che durano (apre all’inedito). Costruire un atteggiamento significa dar vita ad una disposizione che si rifà al vissuto, che ne legge le ragioni e trova sbocco in un impegno.
    * Dell’esperienza mi limiterò a sottolineare che rappresenta le forche caudine dell’educazione oggi. Già è evidente qui che non si pensa semplicemente alle esperienze da far fare ai giovani, anche se devono essere previste e sono fondamentali. Bensì si intende trattare dell’esperienza come sistema simbolico, come piattaforma per ricercare e scoprire il senso degli accadimenti. Esperienza è manifestazione del mondo vitale, si riferisce allo spessore visibile e invisibile degli avvenimenti, si presenta come campo di decodifica delle realtà profonde dell’esistenza. Non è il semplice avere esperienze, bensì è il viverle in profondità in modo da esprimerne il senso per la vita e potersi riconoscere in esse come persone vive.
    Allora più che le molte esperienze da ingurgitare e consumare, vale il «fare esperienza», che pone il giovane nella disposizione di assaporare con intensità il vissuto, di sostare in silenzio per cogliere ciò che parla, di mettersi in relazione per condividere e confrontare, di far emergere il senso degli eventi. Far esperienza non dice comunque che solo le esperienze straordinarie o singolari meritano attenzione, bensì che ogni esperienza può risultare significativa, a patto di saper indagare dentro e oltre. Del resto ci è noto quanto le esperienze più qualificanti sotto il profilo educativo siano quelle su cui ci si sofferma a riflettere, in una sorta di ricerca e azione che mette in moto tutto l’essere in ogni sua potenzialità e risorsa.
    * Della relazione si potrebbe stendere un trattato, considerata la sua importanza. Mi limiterò a ricordare la rilevanza strategica della comunicazione in ogni forma di approccio umano. Essa avviene in ogni fenomeno che coinvolge l’uomo e accade comunque: la comunicazione è il suo humus, sia essa intenzionale o diffusa.
    Nel nostro caso intendiamo restringere il campo alla relazione educativa, che si pone sul piano squisitamente intenzionale. Ad essa ci riferiamo nel presentare le considerazioni che seguono.
    L’asimmetria è d’obbligo: ossia gli interlocutori si mettono in relazione come identità differenti e a diverso livello. Il fatto di lasciarsi coinvolgere nella relazione per educare non può e non deve abolire le distanze. Addirittura non bisogna accorciarle, se questo dovesse implicare una negazione della propria identità personale e il rivestimento di forme giovaniliste o paternaliste.
    La relazione educativa si instaura nell’incontro tra due libertà, due identità, due progettualità. E appunto per questo diviene possibile non soltanto l’incontro di compiacimento, di gratificazione, ma anche quello della proposta valoriale e del progetto di vita. L’educatore, se vuol essere realmente tale, non può sfuggire a questa sua responsabilità.
    Allo stesso tempo, l’atteggiamento di distanza non deve creare distacco: la distanza educativa è salutare, se non separa e sa distinguere, se è capace di coinvolgere senza assorbire. Ci si attiva in una relazione empatica, che è un mettersi nei panni dell’altro. Non considera però la situazione altrui «come se» fosse la propria, non la confonde con la sua. Ma, nell’insieme della propria esperienza, l’educatore sa cogliere il sentire e il volere dell’interlocutore. Così si viene interpellati nella intersoggettività e, collocandosi in interdipendenza, ci si mette in relazione propositiva e creativa. La relazione educativa diviene in tal modo liberante e porta a maturità.

    Il metodo dell’itinerario alla resa dei conti

    Quando si parla di metodi e di tecniche riguardanti la fede, si ha spesso l’impressione di muoversi in un campo minato o, al meglio, di dover trattare di superfluo e di eventuale. Sì, certo, essi sono degli accidenti, ma in senso aristotelico: sostanza e accidenti costituiscono la realtà.
    La sapravvalutazione dei contenuti o la loro esaltazione, portano a rimpicciolire il valore del metodo. Eppure è come se, nelle nostre società avanzate, volessimo usare la nave per un trasporto veloce tra Europa e USA, oppure sulle autostrade digitali indugiassimo a voler scrivere come con le Olivetti meccaniche. Sarebbe davvero non un controsenso, ma senza dubbio una insensatezza.
    Del resto la società dell’immagine docet in maniera drastica: o ti adegui, o sei fuori. Lo snodo sta ovviamente nell’integrare i due aspetti dell’unica medaglia, altrimenti puoi essere condannato all’inefficacia dei percorsi e all’inefficienza dei processi. Metodi e tecniche (metodologie ed espressioni della nuova evangelizzazione) rendono storica la vita, e spesso mediano il messaggio nel momento attuale. Ma questo avviene ad alcune condizioni, senza di cui anche il miglior bisturi, invece di portare rimedio, conduce alla rovina. Le enumero soltanto, senza ulteriore commento.
    Anzitutto metodi e tecniche devono prendere le mosse da una mentalità da itinerario, e non semplicemente da un angusto gioco delle parti. Chi dovesse pensare che, per far funzionare al meglio l’itinerario, basti costruire e operare come con uno strumento digitale che appare perfetto, si illude di grosso. È destinato prima o poi ad una deprimente disillusione, se non addirittura ad un deciso rifiuto.
    Ma se questo ragionamento sta nel vero, non meno esatta ne è la conseguenza. Appunto perché strumento godibile, il metodo esige competenza, che è intelligenza delle situazioni, sostenuta, per dirlo con le parole del convegno ecclesiale di Palermo, dalla cultura alta (studio sui libri) e dalla cultura quotidiana (riflessione sul proprio vissuto). È la competenza che scaturisce dal senso di responsabilità per il nostro ministero educativo e che quindi mette in atto tutte le proprie potenzialità a servizio dei giovani.
    Nell’uso degli strumenti metodologici, il cuore ha la sua parte. Non si tratta però di considerarlo un recupero dei tempi supplementari, anche se questi possono rivelarsi decisivi.
    Le ragioni del cuore devono accompagnare metodi e tecniche, infondere loro vitalità e creatività, sostenerli nel loro impatto con la realtà dell’umano, perché la qualità totale degli interventi educativi diventi possibile ed efficace. Persino trattando di cultura organizzativa, si introduce oggi l’idea del «fattore umano» come determinante. Il clima dell’organizzazione è sostenuto dall’uomo con tutte le sue passioni, a cui si è molto attenti e ci si rivolge sempre più, poiché è lui il protagonista primo dell’agire terreno.

    Il pensierino finale che fa aprire gli occhi

    Sulla tematica dell’itinerario, viene a proposito una citazione, che suona come il pensierino finale, ma ha il pregio di concludere invitando ad aprire, anzi a spalancare gli occhi. Commentando il suo Sistema preventivo, don Bosco asseriva con forza: «Ricordatevi che l’educazione è cosa del cuore». E aggiungeva con convinzione ciò che spesso non viene citato: «e che Dio ne è il padrone. E noi non riusciremo a cosa alcuna, se Egli non ce ne insegna l’arte e non ce ne dà in mano le chiavi».


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