Una conversazione con Dario Antiseri
A cura di Giancarlo De Nicolò
(NPG 1986-05-14)
Uno dei problemi più grossi della filosofia e del pensiero ha a che fare con la crisi culturale, oggettiva e soggettiva, di oggi. Vorrei dire qualcosa soprattutto su quanto riguarda la crisi della ragione dal punto di vista oggettivo, cioè nella filosofia, nelle ideologie, nella scienza.
LA CRISI DELLA RAGIONE DEL FONDAMENTO
Quello che secondo me è in crisi, è il modello giustificazionistico o fondazionalistico della ragione. In Occidente vi è una tradizione, che va da Platone fino ai nostri giorni, che sostiene che «essere razionale» nella scienza, nell'etica, nella politica, nella metafisica, nella religione, significa riuscire a fondare una teoria in maniera assoluta, incontrovertibile: se non si danno fondamenti non si è razionali.
Mi spiego. Si dice che si è razionali nella scienza (lo si dice tuttora, come modello ideal-tipico) quando si è capaci di fondare - o almeno di renderla più probabile - la verità di una teoria scientifica; nell'etica quando si riescono a fondare valori e norme che dovrebbero valere per tutti e per sempre; in politica quando si fonda il potere di un partito o di un uomo; in metafisica quando si riesce a fondare in maniera incontrovertibile alcune teorie metafisiche; nella fede quando attraverso la ragione riusciamo in qualche modo a puntellare alcuni contenuti della stessa fede.
Tale tradizione del pensiero occidentale ha avuto molto influsso, anche perché si presenta come securizzante per l'uomo e la società.
Ora, circa tale pretesa della ragione, ha qualcosa da dire uno dei più grandi filosofi contemporanei, Karl Popper. È stato detto che Popper è importante non solo perché ci ha fatto capire che la scienza è fallibile (cosa che anche altri avevano affermato), ma è ben più importante perché ci ha fatto capire, almeno in due casi, cosa vuol dire «essere razionali».
Che significa essere «razionali»: il caso della scienza e della politica
Il primo caso si riferisce alla scienza.
Si è sempre pensato, da parte della gente e degli scienziati, che «essere razionali» significa fondare una teoria scientifica, darle dei fondamenti indiscutibili: la scienza sembra essere quell'attività umana che dà veramente certezza: se una cosa è scientifica non si discute.
Ma è proprio l'opposto: tutta la storia della scienza è la storia di una disputa ininterrotta: teorie in competizione, fatti che sfasciano teorie, immaginazione che crea nuove teorie...
La scienza progredisce proprio perché ha eliminato il fondamento. Si è razionali nella scienza non perché si fonda, ma perché si sfonda, perché riusciamo a trovare crepe nelle teorie, a falsificarle per farne di migliori, perché inventiamo congetture e poi le proviamo, cercando di falsificarle.
Popper ha quindi rovesciato l'immagine della ragione, almeno nella scienza: in essa non si può fondare nulla: la scienza è fallibile perché la scienza è umana. E razionalità vuol dire passione per i problemi, immaginazione, controlli critici, discordia e non consenso.
Ma anche in politica Popper ha insegnato cosa vuol dire essere razionali.
Nel libro La società aperta e i suoi nemici (dove c'è l'attacco più significativo sia al Platone «totalitario» che ad Hegel e Marx dichiarati «falsi profeti» ), Popper afferma che l'impostazione data da Platone al problema politico ha poi inquinato tutto il pensiero occidentale.
Platone si pone questa domanda: «chi deve comandare?», e tutto l'Occidente ha risposto di continuo alla domanda di Platone. Platone ha risposto: «i filosofi», ma dopo di lui hanno risposto: i preti, i tecnici, questa o quella razza, questa o quella classe...
Il pensiero politico occidentale è stato giustificazionista, cioè ha cercato di addurre le ragioni per cui quella classe o quella razza o quel ceto doveva avere il potere: ha giustificato il potere di chi l'aveva o di chi avrebbe dovuto averlo.
Ma il vero problema politico, secondo Popper, non è chi deve comandare, ma: «come controlliamo chi comanda; attraverso quali istituzioni siamo messi in grado di controllare o rimuovere chi è al potere, senza spargimento di sangue?». La «società aperta» è la società democratica, che ' non è solo «il governo della maggioranza», ma un'idea istituzionale, un insieme di istituzioni attraverso le quali controlliamo chi è al potere, lo critichiamo e poniamo alternative.
Razionalità in politica non significa giustificazione del potere, ma critica del potere e proposta di continue alternative: le regole della democrazia sono in fondo l'analogo del metodo scientifico.
Una intuizione generalizzabile: etica e metafisica
Penso, seguendo W. Bartley, che si possa generalizzare la concezione di Popper. Cosa vuol dire «essere razionali» nell'etica? L'etica non consiste nella descrizione o spiegazione dei comportamenti. L'etica non è etologia. L'etica non è scienza. Non sa offrire proposizioni indicative. Essa prescrive e valuta: dall'essere non deriva il dover essere e la scienza non produce valori. Forse siamo in grado di giustificare i valori ultimi di sistemi etici, così come ha preteso di fare il giusnaturalismo?
Certo, si può giustificare una norma in base a un'altra, e questa in base a un'altra ancora, e così via, ma alla fine arriviamo agli assiomi fondamentali del sistema etico; e a questo punto ci chiediamo: e questo perché vale?
Qui la ragione comprende che vi è un limite: le norme fondamentali di un sistema etico non sono fondate, ma proposte. Sono proposte etiche, e vengono o accettate o respinte, ma non possono essere razionalmente fondate.
Cosa può allora la ragione nell'etica? Anzitutto mostrare che l'etica non è scienza, perché la scienza dice come stanno le cose, certe cose, in modo parziale e smentibile, l'etica invece dice cosa dobbiamo fare, come devono stare le cose. La ragione può continuamente mostrare lo scarto logico tra le due.
Poi si è razionali nell'etica indagando sulla coerenza dei sistemi di norme, esaminando i costi e i mezzi per il raggiungimento di certi fini, mostrando che certi fini sono irrealizzabili, di principio o all'epoca; mostrando che la realizzazione di certi fini può condurre al calpestamento di altri fini ritenuti buoni; analizzando il maggior numero di alternative per risolvere un problema etico; scoprendo la «ferocia» e l'irrazionalità delle utopie...
In tal modo la responsabilità etica è legata alla ragione, che contribuisce a far prendere decisioni ad occhi aperti, responsabili. Ma la cosa più importante che la ragione può fare nel campo dell'etica è far vedere che i valori non si possono razionalmente fondare: sono posti, pre-posti all'intero sistema. E i vari progetti effettivi di azione sociale cercano poi di realizzare tali valori con gli strumenti del sapere, e sono accettati o respinti in base alle loro conseguenze; ma i valori e le gerarchie dei valori non sono razionalmente fondabili.
Questa posizione non porta alla distruzione della morale e della convivenza, anzi, è il presupposto del valore della tolleranza e della democrazia: la consapevolezza che i valori non possono essere fondati e quindi imposti è il presupposto della libertà di coscienza e della creazione/invenzione di valori.
Cosa vuol dire essere razionali nella metafisica?
Si afferma generalmente che fare metafisica significhi trovare asserti incontrovertibili o principi in grado di fondare quella data metafisica. Ma tale pretesa è chiaramente irrazionale.
E ciò lo si può vedere quando guardiamo alla natura stessa della metafisica: essa è, come afferma Popper, un insieme di teorie che, scritte al verbo indicativo, pretendono di informarci sulla realtà, sull'essere, ma non sono controllabili empiricamente, non sono falsificabili. Sono concezioni della storia, immagini dell'uomo, concezioni della morale e del diritto, idee della scienza, teorie su Dio.
Possiamo specificare meglio.
Immagini della storia: sono le idee concernenti il destino umano, dei singoli e dei popoli. Platone sosteneva che la legge della storia è una legge di decadenza, S. Agostino pensava chela storia fosse guidata dalla Provvidenza, Vico parlava di corsi e ricorsi storici, Hegel sosteneva che la storia dei popoli è guidata da una ragione nascosta, Marx pensava che la storia si evolve in modo dialettico e progressivo e che il motore della storia fossero i fatti economici... Antropologie filosofiche o immagini filosofiche dell'uomo: sono idee sull'essenza dell'uomo, sulla sua libertà e responsabilità, sul suo destino...
Teorie su Dio: sulla sua esistenza o meno, sulla possibilità di provarne l'esistenza o di parlare di lui, o sulla necessità di dissolvere il problema per risolverlo...
Ma la ricerca di una certezza assoluta, di fondamenti assoluti per le teorie metafisiche è destinata all'insuccesso, perché le teorie filosofiche sono infalsificabili.
Esse non possono pertanto essere selezionate in base al ricorso ai fatti, ma pure sono criticabili perché, come sostengono Popper, Bartley, Watkins ed altri ancora, esse sorgono in funzione di problemi e, se non risolvono questi problemi (etici, concettuali, politici, religiosi, ecc.) o li risolvono - data una certa ecologia storica della conoscenza - peggio di altre teorie, vengono scartate.
Tanto per citare qualche esempio, basta pensare alla teoria di Hobbes o di Locke create per risolvere problemi politici, al tomismo per garantire certi contenuti della fede, alla dialettica marxista ripresa da Lenin per giustificare la rivoluzione del proletariato...
Le metafisiche sono preferibili in base ai problemi che risolvono, per la «plausibilità» dovuta al fatto che riescono a interpretare meglio di altre la «verità» scientifica dell'epoca, o costituiscono la legittimazione e giustificazione di un certo programma di ricerca scientifica, o di un tipo di politica o di un contenuto di fede...
Anche in questo caso si vede che «ragione» in metafisica non significa fondare una metafisica, ma mettere in relazione una teoria con certi problemi dato un contesto culturale.
Per questa via logica e epistemologica si è veramente rovesciata l'immagine della ragione: la ragione non è più fondamentalista e giustificazionista, ma critica.
Significativo è che per altre vie i sostenitori del pensiero debole arrivino alle stesse conclusioni. Come scrivono Vattimo-Rovatti: «il dibattito filosofico odierno ha almeno un punto di convergenza: non si dà una fondazione unica, ultima, normativa».
La certezza, la fondazione ultima è sempre stata una pretesa di un certo tipo di ragione: costruire degli assoluti terrestri, con presunti fondamenti razionali; e lo scopa era eliminare i danni dell'insecuritas. dell'incertezza, della «contingenza (come la definivano i medievali): da qui la creazione di gabbie metafisiche, di puntelli metafisici, anche per la fede stessa.
Ma l'immagine valida della ragione dell'uomo è, almeno per quanto oggi se n, sa, quella dell'incertezza, dell'insicurezza Ecco allora il nocciolo della crisi cultura], di oggi: la perdita del fondamento, la scomparsa di pseudo-certezze, di illusioni, di certezze create con mani umane, la caduta degli assoluti terrestri. E con ciò si apre anche la via per un modo più umano di vivere. Scriveva Thévenaz: «La fragilità della condizione umana e la finitezza dell'uomo costituiscono una realtà da sempre riconosciuta. La metafisica della sicurezza cercava di circoscrivere la fragilità per neutralizzarne i danni. Il pensiero moderno si è invece deciso, soprattutto a partire da Kant, per la fragilità e la finitezza umana. Esso non scorge più in esse semplicemente la colpa dell'uomo, ma la sua situazione».
RAGIONE, SENSO, VALORI: UN ITINERARIO DI SCOPERTA
Questa concezione della ragione non fa vivere senza punti di riferimento. Una ragione non fondamentalista, una ragione che pone i limiti della ragione apre lo spazio del senso, dei possibili sensi: apre lo spazio del sacro.
Wittgenstein diceva di voler capire la struttura del linguaggio scientifico, le regole con cui viene giocato il linguaggio della scienza, perché gli interessava capire quello che la scienza non può dire e che è quello che più conta per noi.
La ragione non chiude la strada del sacro; sono se mai le pretese di certe metafisiche che lo possono bloccare.
Ma decidere quali possibili sensi, quali valori per la vita, per la storia, questo è frutto di scelte, di decisioni personali.
Vi è, per così dire, una posizione laica circa il senso della vita, della storia. Non si tratta, come affermano gli storicisti, di scorgere una specie di senso dentro la storia come una legge eterna, perché queste sono pretese metafisiche, non informative, della ragione; si tratta invece, come dice per esempio Popper che è agnostico, di quel senso che noi riusciamo a dare alla nostra vita, fosse anche solo il lavoro: si tratta dei valori che si riesce a proporre e testimoniare in una prospettiva terrena.
Ma c'è anche la posizione di chi dice che, mentre la ragione non può dare sensi assoluti della vita e della storia, tuttavia essa ammette che il senso assoluto venga, per esempio rivelato e predicato. Diceva Wittgenstein che «pensare al senso della vita significa pregare», e Freud asserì che il senso è sempre un senso religioso.
Non potendo dare un senso assoluto alla vita, lo spero, lo invoco: il senso ultimo, assoluto, è sempre un senso religioso; e la ricerca filosofica, più che fondare, deve poter rendere possibile questo messaggio, dopo aver eliminato i vitelli d'oro degli assoluti terrestri: la rivelazione infatti ha senso solo quando se ne sono eliminati i surrogati, quando si riesce a mettere in evidenza l'insecuritas di cui dicevo prima.
La ricerca del senso è dunque fondamentale per l'uomo, perché il senso è salvezza dall'assurdo: il non-senso è l'assurdo. E la possibilità di sfuggire all'assurdo è quella di cercare o creare valori, pur sapendo che questi valori (democrazia, eguaglianza, scienza...) non hanno un supporto oggettivo, assoluto, sono scelte.
Non c'è un fondamento logico e empirico a nessun valore ultimo.
Questa è l'esperienza del politeismo del valori, come diceva Weber: è la nostra coscienza che sceglie, la nostra libertà fondamentale. Eticamente scorretto sarebbe proclamare che esistono valori assoluti da imporre ad altri. E questo per la ragione che la condizione umana è quella dei tanti «sensi» che vengono offerti, proposti, testimoniati.
Vorrei riassumere e concludere su questo punto: vi è una crisi, oggi, anche di senso. Ma non perché siano in crisi i diversi sensi, che invece vediamo proliferare, e che vengono continuamente proposti o riproposti.
Sono in crisi le vecchie argomentazioni con cui si cercava di fondare questi sensi; se si vuole, è in crisi un senso assoluto fatto dalla ragione. I principi etici non si dimostrano, si propongono.
In breve: scienza senza certezza, etica senza verità, metafisica senza fondamenti. Dunque: una decisiva autoconsapevolezza logica ed epistemologica della contingenza umana. La ragione non è assoluta, la ragione è limitata, la ragione è contingente.
E qui si apre anche la via alla fede, che è una scelta soggettiva, almeno a parte hominis, ma che certamente dà al credente la speranza di un fondamento ultimo di sen- so, un supporto assoluto.
Questa del senso è certamente una questione decisiva per la fede: non è certamente l'unica via alla fede, perché alcuni dicono che esiste anche una via razionale alla fede; ed esistono i mistici. Ma questa dell'indigenza umana, il fatto che non riescano ad appagare i vari sensi che vengono storicamente dati e che vengono via via proposti, e di cui non si vede l'assoluto fondamento - dunque la via della precarietà dei valori umani - può in qualche modo portare a Dio, far accogliere l'assoluto rivelato.
Quasi un itinerario dal non-senso all'invocazione
Partendo da queste riflessioni vorrei indicare un possibile cammino, un itinerario (secondo me valido psicologicamente e didatticamente) che faccia perno sull'esercizio di una ragione critica e che apra lo spazio a delle proposte di valori, quasi delle proposte etiche per il nostro tempo.
Anzitutto il primo passo è quello di mostrare i limiti della ragione: in due sensi. Far capire, ad esempio, che la scienza non dà certezze, che le metafisiche non sono teorie costrittive, che in etica non si possono fondare assolutamente dei valori... E poi che la scienza ha dei limiti propri costitutivi, che non può rispondere a domande etiche o religiose, né a domande del senso. Per dirla con Kant, posso conoscere ciò che la scienza mi offre, ma che cosa devo fare e cosa posso sperare non sono domande alle quali si può rispondere scientificamente.
Un secondo passo è appunto l'esercizio della ragione critica: che è passione per i problemi e volontà di risolverne qualcuno, è amore della verità, è discussione e confutazione, è proposta di continue alternative, distruzione delle certezze assolute e dei falsi fondamenti. Questo non è soltanto un momento «distruttivo», perché apre appunto la strada del senso, del valore, della scelta, della libertà e del rispetto delle scelte: in fondo, dell'autocoscienza.
Ragionare significa allora dare di volta in volta ragione di ciò che si afferma, e talvolta le ragioni sono unicamente esistenziali. Nello spazio dei valori possono farsi strada elementi rilevanti come la pace, la tolleranza, la democrazia, la libertà, i diritti umani, la solidarietà, il rispetto della natura, il valore della scienza e della ricerca scientifica, la ricerca del bello estetico, come la musica e le arti...
È lo spazio in cui l'uomo può veramente essere creatore di valori e di proposte, o anche si ritrova la capacità di reinterpretazione di vecchi valori.
Penso che questa sia anche la via per la fede. Per me le apologetiche positive, che vogliono dimostrare che la fede è razionale, sono dei buchi nell'acqua: anche l'insegnamento della religione dovrebbe badare a far capire che l'unica strada veramente percorribile è quella della non-assolutezza dei sensi che gli uomini si danno, l'impossibilità di crearsi da soli dei sensi assoluti. Questo è un itinerario che ritengo percorribile dai giovani oggi.